Flavio Fusi
Cronache infedeli

La seta di Maduro

Il Venezuela ha poco petrolio e debiti spaventosi: Mosca vuole indietro i soldi senza perdere una pedina importante; Pechino si ripaga acquisendo i pozzi di Maduro e Trump gioca sporco fingendosi democratico... C'è del marcio a Caracas

Il compagno Sechin: negli ultimi anni, Igor Ivanovic Sechin, zar della potentissima compagnia petrolifera russa Rosneft, ha fatto più volte la spola tra Mosca e Caracas. L’ultima missione è di pochi mesi fa, e non è stata una visita di piacere. Tra promesse mancate, richieste di rinegoziazione e casse letteralmente vuote, il Venezuela di Maduro è, infatti, da tempo quello che viene definito un “pessimo pagatore.”

Dal 2006, tra prestiti e linee di credito, Mosca ha scommesso su Caracas 17 miliardi di dollari, solo in minima misura rientrati. Gran parte della somma manca ora dalle casse del colosso russo del petrolio, controllato dallo Stato e amministrato con pugno di ferro da Igor Ivanovic. Maduro deve ancora al Cremlino e a Rosneft tre miliardi di dollari a testa. Denaro sonante a cui si aggiunge la partecipazione a 15 progetti petroliferi onshore di Pdvsa, la compagnia di Stato venezuelana. Prospettive zero: il Venezuela di oggi è un Paese ridotto letteralmente «alla canna del gas», con la produzione petrolifera scesa a poco più di un milione di barili al giorno, il 37 per cento in meno rispetto allo scorso anno. Il debitore, dunque, non è solvibile: niente dollari e scarse forniture di petrolio, di cui tra l’altro la Russia non ha bisogno.

La preoccupazione del Cremlino è di natura economica ma soprattutto geo-politica. La scacchiera del potere mondiale non tollera il vuoto. Se cade un birillo rosso, questo verrà sostituito da un birillo nero. Fuor di metafora: se Maduro dovesse cadere, il paese bolivariano tornerebbe nell’orbita statunitense e l’intero paradigma degli interessi russi sarebbe messo a repentaglio, come è già successo, con effetti rovinosi, per l’Irak o la Libia.

I cinesi invece, quelli non li freghi. Il prestito cinese al Venezuela è di gran lunga più corposo. Si tratta di circa 62 miliardi di dollari, poco meno della metà dei 150 miliardi prestati in blocco ai paesi latinoamericani. E la strategia di Pechino in questo campo è nota, come testimonia il colossale “land grabbing” avviato in Africa: di fronte a un debito inesigibile, la Cina si compra letteralmente il paese debitore. Così, di fronte all’incapacità di Maduro di restituire il debito e alle continue richieste di rinegoziazione, il potente partner orientale non si è limitato a riscuotere petrolio al posto di dollari, ma ha cominciato ad impadronirsi dei pozzi petroliferi. La Cina non ha fretta, conta su tempi medio-lunghi e sta acquisendo all’origine una buona fetta del petrolio venezuelano.

Questa mossa fa parte di uno schema ampiamente sperimentato: ingenti prestiti ai Paesi in difficoltà per ottenere in cambio materie prime e assicurarsi un fedele mercato satellite. In pratica, un nuovo tipo di colonialismo. Qualcuno informi Maduro: questa strategia i cinesi già la chiamano «nuove vie della seta».

Tutto bene, dunque? Niente affatto: per i suoi piani a lunga gittata, la Cina ha bisogno di partner deboli, ma politicamente stabili. Al contrario, una crisi così destabilizzante come quella che sta vivendo il Venezuela ha innescato nelle relazioni bilaterali tra Pechino e Caracas ciò che uno studioso americano definisce la tempesta perfetta. Ammonisce Matt Ferchen del Carnegie-Tsingua Center for global policy: «Da ogni possibile angolazione, il rapporto Cina-Venezuela è diventato completamente disfunzionale per i governi, gli interessi economici e i cittadini dei due Paesi».

I protagonisti di questa crisi devono infine fare i conti con un ingombrante fantasma di Banco. L’America di Trump ha messo il suo sigillo sul Venezuela prima con le sanzioni imposte alla compagnia petrolifera Pdvsa, e oggi con una soffocante azione di diplomazia di guerra. Contro Maduro ogni provvedimento è «sul tavolo», ha proclamato il presidente in uno dei suoi innumerevoli tweet. E sullo scacchiere latinoamericano Washington non è propriamente quello che potremo definire «the new kid in the block»: un nuovo bulletto di quartiere.

Qui il contesto geopolitico è favorevole, e gli Stati Uniti non rinunceranno dunque a giocare con la consueta spregiudicatezza un nuovo capitolo della sfida globale con i grandi rivali russi e cinesi. E, considerato il calibro dell’attuale inquilino della Casa Bianca, qualsiasi appello alla cautela rischia di cadere nel vuoto. Ci prova dalle colonne del New York Times l’eminente studioso Jorge Castaneda, che fu ministro degli esteri di un lontano governo messicano. «La scelta deve essere affidata al popolo del Venezuela, attraverso un processo elettorale libero e trasparente. E sarebbe un grande risultato se gli Stati Uniti riuscissero a lavorare con europei e latinoamericani per risolvere la crisi in questa regione senza intimidire nessuno. Altri preferirebbero che Washington si mantenesse completamente ai margini della vicenda». Purtroppo, conclude Castaneda, «nessuno di questi due scenari si realizzerà».

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