Lidia Lombardi
Visto al Teatro Eliseo di Roma

Glauco Mauri, il russo

Glauco Mauri vince la sua ennesima sfida teatrale: portare in scena con Roberto Sturno “I fratelli Karamazov” di Dostoevskij. Un clima da "parenti serpenti" che finisce presto nel paradigma della commedia umana

Mettere in scena il romanzo-capolavoro di Dostoevskij, quel I fratelli Karamazov che squaderna tutte le sfaccettature degli abissi umani – debolezze, violenza, follia, filosofici dubbi su chi è l’uomo e dove finirà, all’inferno o in paradiso se Dio c’è – può sembrare impresa destinata al fallimento. L’arco temporale di uno spettacolo, per quanto dilatato, non può coprire il monte-pagine del libro. Lo stesso medium, il teatro, con gli elementi centrifughi quali la scenografia, le luci, la presenza stessa degli attori, i loro abiti, rischia, nella trasposizione, di far pervenire annacquata allo spettatore la densità della scrittura e di sostituirsi arbitrariamente al processo di immaginazione che le parole di Dostoevskij suscitano nel lettore.

Glauco Mauri, gigante della scena, ha osato e con la sua compagnia – è associato dal 1981 con il rigoroso Roberto Sturno – ha vinto la scommessa portando con successo sui palcoscenici italiani appunto I fratelli Karamazov. Certo, egli vanta un magistero attoriale che dura da mezzo secolo. Certo, la Mauri-Sturno si è già cimentata con il Dostoevskij de L’idiota e di Delitto e castigo. E, ancora, un giovane Mauri vestì i panni del personaggio-snodo del romanzo, l’elusivo Smerdjakov. Ma riempire oggi le platee ricevendone calorosi applausi con uno spettacolo intellettualmente impegnativo e per di più uscito dall’olimpo della narrativa è vincere due volte la scommessa.

La riduzione del romanzo nel copione teatrale, infatti, riesce bene a individuare i gangli dell’opera, a innestarli efficacemente negli interpreti, a connetterli senza iati nell’insieme, a sintetizzare senza banalizzare. Ne esce fuori una tragedia familiare che svergogna le apparenze borghesi di onorabilità. Parenti-serpenti che si contendono soldi e donne. Che recriminano giorno dopo giorno. In una parola, che convivono odiandosi. Eccola, la sgangherata famiglia: appaiono subito tutti insieme a dare il peggio di sé, sullo sfondo oltretutto di un convento e di fronte a un monaco ortodosso. Col cappello a tuba sfarfalleggia il padre, Fedor, una vita dedicata al vino e alle donne, che si è portato a letto senza troppi complimenti, seminando figli illegittimi, uno dei quali, l’introverso Smerdjakov, si tiene in casa come cavalier servente senza mai esplicitargli, se non nel convulso finale, i legami di sangue. Ivan, nichilista fino a sostenere che Dio non esiste legittimando ogni infamia e insieme dolendosi nella consapevolezza del male che rode l’umanità, non sopporta quel gaudente egoista genitore, al punto di desiderare la sua morte anche se continua a curarsi di lui. Dimitri, invece, il maggiore, nato da un primo matrimonio, il padre minaccia esplicitamente di ucciderlo, perché gli ha sottratto l’eredità materna e gli insidia perfino la nuova fiamma, Gruscenka, scollature e amanti in serie, che nel cuore dell’irruento ufficiale ha preso il posto dell’algida Katerina. Fa eccezione Alexej, l’altro figlio, al quale i buoni sentimenti hanno consigliato di mollare i congiunti e trovare la propria strada nel cenobio.

La ruggine alla fine infetta i protagonisti che imboccano l’irrimediabile china. Qualcuno verrà ucciso, un altro si ucciderà, un altro ancora diventerà pazzo, gli altri tenteranno la strada della redenzione perché, annota Mauri, «Dostoevskij non giudica mai: racconta la vita anche nei suoi aspetti più negativi con sempre una grande pietà per quell’essere meraviglioso e a volte orrendo che è l’essere umano». Il regista Matteo Tarasco asseconda lo sguardo esterno del romanziere, il suo porsi come un giudice istruttore che affianca pulsioni e fatti. La “comédie humaine alla russa” scorre dunque verso l’inevitabile destino, trovando l’acuto nell’invenzione registica della scena d’epilogo: un tavolo coperto da un telo bianco, nella casa paterna in via di smobilitazione, viene rovesciato e sembra un sepolcro davanti al quale s’accasciano il corpo esanime di Smerdjakov e quello esistenzialmente esausto di Ivan.

Contribuiscono a mantenere la concentrazione sul testo e sul lavoro degli attori le scene di Francesco Ghisu, giocate su scarni funzionali elementi: pannelli discretamente scorrevoli, un lampadario che scende e poi si ritrae, due panche o due balle di fieno, la poltrona che accoglie il corpaccione sempre alticcio di Fedor. Al quale Glauco Mauri conferisce l’inesausta goliardica luciferina vitalità che increspa l’intera rappresentazione. Un’ennesima indimenticabile prova, tanto più dopo il malore che ha colpito l’attore durante la prima romana al teatro Eliseo, un accidente presto rintuzzato perché per lui, ottantottenne, vita e scena si sovrappongono. Lo affianca Roberto Sturno, che riesce a tenere gli spettatori con le mani aggrappate ai braccioli anche durante il lungo monologo sul Grande Inquisitore, demistificazione del tradimento dei “chierici” nei confronti dell’insegnamento di Cristo. Lo Smerdjavov di Luca Terracciano si giova nella postura curva da perdente dei modi umili e insieme ambigui. Mentre il Dimitri di Laurence Mazzoni resta sempre troppo sopra le righe, diviso com’è tra l’austera Katerina di Giulia Galiani e la ridanciana Gruscenka di Alice Giroldini.

Dopo la acclamata tappa romana all’Eliseo, in marzo la repliche si terranno a Fano, Arezzo, Forlì, Legnago, Lucca, La Spezia, Ascoli Piceno. A Campobasso il 2-3 aprile la conclusione della tournée 2018-1019.

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