Alessandra Pratesi
Visto al Teatro dell’Opera di Roma

Quale gobba?

“Rigoletto” apre la stagione lirica 2018-2019 del Teatro dell’Opera di Roma. Il classico verdiano è affidato alla regia di Daniele Abbado e alla sapiente bacchetta di Daniele Gatti: se con il primo si resta in punta di piedi e non si osa, con il secondo si riscoprono le pieghe più intime della partitura verdiana

Lo abbiamo aspettato, lo abbiamo apprezzato, lo abbiamo applaudito: è il Rigoletto che ha aperto la stagione lirica 2018-2019 del Teatro dell’Opera di Roma. In scena dal 2 al 18 dicembre, Rigoletto è stato spettatore privilegiato degli ultimi avvicendamenti teatral-musicali romani. Conferenza stampa il 26 novembre; anteprima giovani il 30; doppio incontro preliminare con il pubblico del regista, Daniele Abbado, e del direttore d’orchestra, Daniele Gatti, il 1° dicembre [nella foto in basso a destra rispettivamente a destra e a sinistra]; guida all’ascolto del Maestro Giovanni Bietti il 3; nomina del Maestro Gatti a nuovo direttore musicale del teatro lirico romano il 4; sostituzione del Maestro Stefano Ronzani alla direzione il 6 a causa di un’aritmia cardiaca del direttore incaricato (che sarebbe ritornato sul podio il 9). Un susseguirsi di eventi nell’evento.

La collaborazione triennale tra il Teatro dell’Opera di Roma e il Maestro Daniele Gatti per la direzione del concerto inaugurale di stagione era iniziata nel 2016 con il Tristan und Isolde di Wagner, proseguendo poi nel 2017 con La damnation de Faust di Berlioz. Si corona il trittico con questo Rigoletto, definito a ragione il Rigoletto di Daniele Gatti. Il Rigoletto di Gatti inizia con un’attenta operazione di lettura delle indicazioni originali della partitura verdiana. Scritta in pochi giorni per garantire unità drammaturgica all’insieme, Verdi associa ogni personaggio ad una tonalità diversa. Associazione talmente profonda che, suggerisce il Maestro Gatti nell’incontro del 1° dicembre, a partire dalla sola partitura è possibile intuire stati d’animo, personalità e persino antefatti. La madre di Gilda, ad esempio, come muore? «Solo, difforme, povero, per compassion mi amò. Moria… le zolle coprano lievi quel capo amato», canta Rigoletto e su quel «moria» ritorna la tonalità di Gilda: si svela così che la madre è morta di parto. Della partitura originale Gatti recupera anche i tempi. Banditi gli abbellimenti e le note di appoggio perché nulla nell’impalcatura verdiana è superfluo, nulla manca. Un esempio per tutti: «Quel vecchio malediami!… tal pensiero perché conturba ognor la mente mia!… Mi coglierà sventura?… Ah no, è follia», canta Rigoletto dopo l’incontro con Sparafucile nel primo atto. Su quel «follia» il protagonismo di ogni interprete ha trovato pane per i suoi denti. Con Gatti, invece, «follia» ritrova la giusta intimità dell’origine: è l’angoscia e il turbamento dell’uomo che è stato maledetto, non il trionfo glorioso del baritono in scena. Sebastian Catana (nel ruolo eponimo nel secondo cast il 18 dicembre) è possente e delicato, irriverente e premuroso, con una voce capace di attraversare ogni poro del pubblico in sala.

Il lavoro musicale del direttore è affiancato dal lavoro registico di un altro Daniele, Abbado. Nonostante premesse e aspettative, il risultato non soddisfa pienamente: la regia risulta statica, senza un’idea forte alle spalle. Rigoletto in paillettes è la versione triste del Joker di Nolan o dello zio Fester degli Addams [nella foto a sinistra Roberto Frontali come Rigoletto e Ismael Jordi come Duca, I cast]. E questo non disturba, perché Rigoletto è una maschera. L’ambientazione è Anni Quaranta. E questo non disturba, perché in Rigoletto l’ambientazione è indifferente per costituzione. Già all’epoca di Verdi, non a caso, la collocazione della vicenda a Mantova piuttosto che in Francia (tratta da Le Roi s’amuse di Hugo) era pretestuosa, un escamotage come un altro per evitare problemi con la censura. I praticabili compongono un puzzle tridimensionale di interni ed esterni che si aprono e si chiudono come scatole cinesi nella sequela di notturni, inganni, travestimenti e qui pro quo di cui è disseminato il libretto. L’effetto, tuttavia, risulta statico, emotivamente e scenicamente. Il palcoscenico risulta occupato in ogni suo centimetro cubo, come nella Bohème di Alex Ollè. I cantanti si confondono tra le masse di comparse e di maestri del coro, si confondono tra praticabili e fumogeni. Al suo arrivo (scena prima, atto primo), il Duca di Mantova (Iván Ayón Rivas) quasi non si vede, né si sente. Eppure «Questa o quella per me pari sono» è un must, notissimo e attesissimo da melomani e non, secondo solo all’intramontabile «La donna è mobile». Degna di nota la voce piena e profonda del Conte di Monterone (Carlo Cigni), altrettanto Gilda (Claudia Pavone), peccato per la voce rotta nelle ripetizioni di «L’ultimo sospir, caro nome, tuo sarà», congedo e promessa di Gilda al pubblico, al mondo e alla vita – in effetti, proprio in nome dell’amato sacrificherà la sua giovane vita nella scena sesta, atto terzo.

Primo della cosiddetta “trilogia popolare” completata nel 1853 con il Trovatore e con Traviata (libretto sempre a firma di Francesco Maria Piave), con le altre celeberrime opere del repertorio verdiano – e mondiale – condivide la complessità di risvolti drammaturgici e di soluzioni musicali, una potenza irresistibile di motivi, arie, tempi, una ricchezza esemplare e inaugurale. Buon 2019 lirico a tutti!

Facebooktwitterlinkedin