Raoul Precht
Periscopio (globale)

Il Mago Oz

Forza e coraggio: il doppio significato del suo pseudonimo rappresenta il tratto distintivo di Amos Oz, lo scrittore israeliano appena scomparso. Un forzato della scrittura con la quale accarezzava l'utopia

Al quattordicenne Amos Klausner, che avvertiva anzitutto l’esigenza di affrancarsi dal cognome del padre, diventato con il passare del tempo sempre più retrivo e reazionario, lo pseudonimo Amos Oz dev’essere sembrato poco meno che ideale. In ebraico Oz significa infatti “forza”, ma con una copertura semantica un po’ più ampia (una via di mezzo fra forza e coraggio), e di forza e coraggio Oz avrebbe avuto molto bisogno, in seguito, tanto nell’approccio alla polis, quanto per affermarsi come uno dei più importanti autori della letteratura ebraica contemporanea. Una volta tanto, il nom de plume rappresenta insomma un’estrema sintesi della personalità dello scrittore, distintosi appunto per potenza descrittiva e coraggio politico, due doti che fino all’ultimo istante di vita – Oz ci ha lasciati il 28 dicembre scorso, a quasi ottant’anni, stroncato da un tumore – non lo hanno mai abbandonato.

Dicevo della forza morale del quattordicenne, che non solo cambia nome, ma decide di lasciare la casa paterna e trasferirsi in un kibbutz a guidare trattori; ma il momento dell’improvvisa maturazione risale ad almeno due anni prima, alla sommessa ma profonda crisi che seguirà al suicidio della madre, un episodio con cui Oz combatterà per tutta la vita, fino allo scioglimento narrativo del nodo nello splendido memoir, scritto cinquant’anni dopo, dal titolo Una storia di amore e di tenebra. Qui, finalmente, il grande tabù della sua esistenza, la scelta inesplicabile della madre proprio alla vigilia del bar mitzvah del figlio, si scioglie in un’indagine a un tempo lucida, schietta ed estremamente particolareggiata.

È di sicuro dalla famiglia che bisogna partire per capire i libri di Oz e la sua posizione, sempre inquieta e dinamica, nel panorama letterario e politico israeliano. Il padre, Arieh, nativo di Odessa, si era già dovuto trasferire a Vilnius, in Lituania, che allora faceva parte della Polonia, e nel 1933 è costretto a emigrare una seconda volta per sfuggire all’antisemitismo dilagante; giunto in Israele, prosegue i suoi studi divenendo uno stimato studioso di letteratura ebraica, e al contempo figura fra i seguaci dell’estrema destra di Jabotinsky, la fazione politica, per capirci, che considerava l’eliminazione dei palestinesi la sola possibilità di sopravvivenza per lo Stato ebraico. Quanto alla madre, Fania Mussman, veniva da Rovno, in Polonia (oggi Ucraina), ma era stata costretta a studiare a Praga perché in Polonia le quote destinate agli studenti ebrei erano insufficienti; mentre si trova a Praga alcuni parenti e amici vengono arrestati e scompaiono, e lei riuscirà a scappare appena in tempo. Fania e Arieh s’incontrano all’Università Ebraica di Gerusalemme, e tra di loro parlano in russo o in polacco. La città, scriverà Oz, rappresentò indubbiamente per entrambi l’unica zattera di salvataggio dalle persecuzioni naziste, ma allo stesso tempo, arida e polverosa com’era, in tutto dissimile dalle città dell’apparentemente civile Europa, fu e rimase anche uno choc. Benché l’ebraico non fosse in linea di principio la lingua né del padre né della madre, e sebbene entrambi fossero dei linguisti provetti – il padre conosceva sedici lingue e ne parlava dieci, la madre almeno sette – fin dal primo momento il problema della lingua non si pone: al piccolo Amos insegneranno solo l’ebraico, forse per l’istintiva paura che la conoscenza di troppi idiomi potesse esporlo a un oscuro pericolo, com’era avvenuto per loro. In un’intervista Oz preciserà di non aver mai scelto l’ebraico come lingua d’espressione e di scrittura, ma di esservi – era il 1939 – nato letteralmente dentro; del resto, per i profughi provenienti dai punti più disparati d’Europa l’ebraico rappresenta l’unico comun denominatore ed è normale, dunque, che divenga la lingua veicolare.

Influenzato dal padre, ardente sionista, il piccolo Klausner fin da subito prende a detestare con tutta l’anima le forze d’occupazione britanniche, al punto da partecipare a modo suo all’intifada contro i soldati nemici; a un certo punto costruisce perfino un missile da puntare su Buckingham Palace, al quale doveva essere accluso un messaggio per la monarchia britannica con le prime parole d’inglese che aveva imparato: “British Go Home”. Suo padre, del resto, nascondeva in casa, e anzi sugli scaffali dei libri, ben celate dietro i volumi di rivoluzionari russi come Bakunin e Kropotkin, le molotov da scagliare contro i soldati del protettorato britannico. Se in seguito dal padre si distanzierà spiritualmente e fisicamente, Amos ne eredita tuttavia l’indole battagliera, che lo porta giovanissimo ad affrontare una nuova vita lontano da casa. Nel kibbutz di Hulda si svolgerà in effetti tutta la sua adolescenza, comprese le prime passioni politiche, con l’adesione al Partito laburista, e sentimentali, grazie all’incontro con la quindicenne Nilli che diventerà poi sua moglie e gli darà tre figli. È nel kibbutz che, accanto ai lavori manuali e agricoli, per i quali era poco versato, scopre la propria vocazione alla scrittura e comincia a leggere con venerazione dapprima Dostoevskij, Tolstoj e Cechov, poi i grandi narratori statunitensi, da Melville e Sherwood Anderson (il suo primo vero modello letterario) a Faulkner.

Sempre dalla famiglia, complessa e ricca di personaggi bizzarri, prende indirettamente le mosse uno dei suoi romanzi più importanti, Giuda (il titolo originale recita però Il vangelo secondo Giuda), vincitore fra l’altro nel 2015, in Germania, del prestigioso Premio letterario internazionale. Ad accendere la miccia nella mente di Oz è stavolta il prozio Joseph Klausner, il quale nel 1921 aveva pubblicato un libro, dal titolo Gesù di Nazareth, che era riuscito a scandalizzare tanto gli ebrei quanto i cristiani, riconducendo la figura di Gesù Cristo nell’alveo dell’ebraismo e negando che avesse mai voluto fondare una nuova religione. Da questa tesi prende le mosse Oz, che ravvisa nell’intera storia di Giuda e nel rapporto fra questi e Gesù troppe incongruenze. Tanto per cominciare, Giuda era un uomo ricco e si sarebbe inspiegabilmente venduto per una somma ridicola, appena 30 monete (400-500 euro di oggi). Poi, Oz riflette sul fatto che nei secoli è risultato molto conveniente identificare in un’unica figura, quella appunto di Giuda, un duplice nemico, l’ebreo e il traditore, e indica come in due delle lingue da sempre fatali agli ebrei, il tedesco e lo spagnolo, le parole “ebreo” e “Giuda” siano rese con termini simili e assonanti. Un insieme di indicazioni ed elementi farebbe infine propendere verso la tesi dei Vangeli gnostici, che Giuda sia stato non un traditore, ma uno strumento di Gesù, l’unico (e l’ultimo) vero cristiano, colui che, sacrificandosi per il proprio Maestro fino al suicidio finale perché era appunto l’unico a credergli davvero, viene a sua volta tradito dal fatto che la rivelazione non si compie, in quanto Gesù non è che uno dei tanti profeti che a quell’epoca impazzavano in Palestina. Nel libro la vicenda di Giuda è parallela al vero e proprio plot, che vede il protagonista Shmuel Ash, uno studente di dottorato – lo stesso Oz è stato studente di filosofia e letteratura all’Università Ebraica di Gerusalemme -, accettare l’incarico di tener compagnia a un anziano intellettuale disabile e incontrare la nuora di quest’ultimo, Atalia. Rimasta vedova, la ragazza vive con l’anziano in una strana reclusione. Tutto il romanzo, da cui fra l’altro emerge il caratteristico, casto ma vibrante erotismo di Oz, è incentrato sui concetti di scandalo e tradimento: scavando tra i segreti della famiglia, Shmuel scoprirà che il padre di Atalia, un politico importante negli anni della costituzione dello Stato d’Israele, era stato accusato di tradimento – novello Giuda, quindi – per aver creduto nella convivenza pacifica fra arabi e israeliani e messo solertemente da parte dall’establishment politico per il quale le sue tesi rappresentavano una minaccia.

Ci sono almeno un’altra quindicina di romanzi – quasi tutti tradotti in Italia da Elena Loewenthal, la sua traduttrice storica, e pubblicati da Feltrinelli – ai quali dovrei brevemente accennare per dar conto, sia pure in modo sommario, dell’attività di narratore di Oz, ma me ne manca lo spazio. Mi limiterò invece a parlare ancora di quello che per me è il suo capolavoro, ovvero Una storia di amore e di tenebra, portato poi anche sugli schermi da Natalie Portman al suo debutto da regista. L’episodio del suicidio della madre, il 6 gennaio del 1952, nell’appartamento della sorella a Tel Aviv, con una overdose di medicine prescrittele per trattare la depressione, ne è certamente il nucleo centrale; intorno ad esso si dipana poi l’intera autobiografia dello scrittore, con una descrizione precisa e toccante delle città di Gerusalemme e Tel Aviv fin dagli anni Trenta, senza omettere incursioni nella complessa storia familiare e nella storia tout court. Storia che è naturalmente condizionata e pervasa dalla tragedia dell’olocausto, e in parallelo dallo spaesamento provato al loro arrivo in Israele dai genitori e in particolare dalla madre, le cui condizioni psichiche si deteriorano definitivamente quando dall’Europa filtreranno le prime notizie sulla terribile sorte dei famigliari rimasti in patria.

L’altro aspetto, anche questo complesso e persino controverso, che va assolutamente ricordato, è l’attività di Oz come pubblicista e polemista, fortemente legata al dibattito sullo stato di salute e sull’avvenire di Israele. Benché sia stato una delle voci più critiche nel suo paese, Oz ha sempre rifiutato l’etichetta di pacifista. Ha anzi combattuto come soldato di riserva in occasione tanto della Guerra dei sei giorni nel Sinai (1967), quanto della Guerra dello Yom Kippur sulle alture del Golan (1973). Ha difeso, nel 1967, la conquista della Striscia di Gaza, considerata come la risposta da parte d’Israele all’aggressione subìta, ma è stato anche il primo intellettuale a sollecitarne subito dopo la restituzione, con un vibrante articolo di denuncia sulle modalità d’occupazione dei territori. Fra i fondatori del movimento Peace Now, ha chiesto con notevole anticipo sui tempi che venisse applicata la spartizione del territorio e una separazione per quanto possibile pacifica fra le due comunità (cosiddetta “soluzione dei due Stati”). Considerato un esponente di sinistra, si è tuttavia sempre rifiutato di applicare al conflitto arabo-israeliano certe categorie di pensiero della sinistra liberal, che erano state propugnate ad esempio negli Stati Uniti da Noam Chomsky, con tesi piuttosto semplicistiche e ingenue secondo cui sarebbe bastato far incontrare israeliani e palestinesi e “costringerli” a conoscersi per risolvere ogni problema. Allo stesso modo, ha sempre rifiutato concetti come quello dell’integrazione, sottolineando come il dissidio fra arabi e israeliani non sia una questione di diritti civili conculcati (diritti civili di cui peraltro i palestinesi non hanno mai granché goduto) o d’incomprensione fra popoli, ma una vera e propria disputa internazionale, in cui le due parti hanno probabilmente ragione e torto entrambe e che dev’essere risolta per via diplomatica mediante un mutuo riconoscimento e una serie di dolorosi compromessi. Pur difendendo sempre strenuamente il diritto d’Israele all’esistenza, Oz attaccherà duramente l’invasione del Libano nel 1980 e la difesa dei coloni, che per lui erano tutt’altra cosa, e semmai espressione dell’arroganza del potere e della violenza di Stato, ritrovandosi affiancato in quest’analisi da un manipolo di colleghi come Abraham Yehoshua e David Grossman. Non mancheranno però, anche nel suo percorso politico, le persone, a destra e a sinistra, che lo accuseranno di tradimento, una delle sue categorie preferite, come abbiamo visto, nella creazione letteraria. Ai suoi detrattori Oz risponderà che spesso il traditore non è altro che colui al quale succede, ragionando, di cambiare idea, di evolvere, di reagire alle ingiustizie con un’elaborazione critica che lo porta a sfuggire alla facile retorica delle ortodossie. In questo senso, il suo saggio sul fanatismo, cui collaborerà anche la figlia Fania, altro non è che un’affermazione di un tradimento necessario, che porta a essere più tolleranti e permeabili, e in definitiva umani.

Oz amava paragonare il lavoro dello scrittore a quello del bottegaio; alle sei del mattino, in qualunque stagione, cominciava la sua giornata nella cittadina di Arad, dove abitava, con una lunga passeggiata nel deserto del Negev; poi faceva colazione e si ritirava dietro il suo scrittoio ad aspettare l’idea, la scintilla, la parola che si sarebbe sviluppata in una frase di senso compiuto, ne avrebbe chiamate altre e gli avrebbe consentito di cominciare a scrivere, quale che fosse poi la forma che il testo avrebbe preso. Proprio come il negoziante, diceva, il cui unico dovere è di aprire ogni mattina il negozio e aspettare i clienti, senza mai sapere quanti ne verranno né cosa compreranno. E questo tutti i santi giorni, ma in particolare, aggiungeva, quando si lavori a un romanzo, che a differenza della poesia è in primo luogo disciplina, tenuta, resistenza – insomma, sacrificio.

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