Sergio Buttiglieri
Al teatro Magnolfi di Prato

Famiglia Jon Fosse

Il giovane regista Carmelo Alù porta in scena (senza guizzi interpretativi) "Cani morti" di Jon Fosse. Un'occasione mancata per tornare a far vivere l'immobilismo scenico di un campione dell'incomunicabilità

Jon Fosse è un autore culto del nostro Novecento. Un Norvegese che racconta con i suoi dialoghi colmi di silenzi l’anemica afasia del nostro tempo. Nei giorni scorsi a Prato, al teatro Magnolfi, abbiamo visto la messa in scena di un suo lavoro, Cani morti, con la regia di Carmelo Alù. Tutto quello che ci aspettavamo da questo algido autore nordico ci è ricomparso in scena nella sua crudezza devastante.

I personaggi non hanno nomi propri ma sono quasi degli archetipi: dal giovane uomo silente, privato della sua chitarra, senza più il cane, alla madre che interroga, che tenta di organizzare la giornata. Dall’amico che non si vedeva da tanti anni, ma che non si ferma neppure per un caffè, alla sorella che arriva da lontano con il cognato, apoteosi dell’antipatia. Infine il vicino che non appare ma agisce e scardina l’attesa di questo paradigmatico nucleo famigliare senza argomenti, uccidendo il cane del giovane uomo che a questo punto non può far altro, dopo aver repentinamente a sua volta ucciso il vicino, che prendere con se il guinzaglio dell’unico essere che dava senso alla sua esistenza per costituirsi alla giustizia accompagnato dalla madre rassegnata.

La prima regia del giovane Carmelo Alù, scaturita nell’ambito di un progetto di avviamento curato da Massimiliano Civica per il Teatro Metastasio, è sicuramente rispettosa della lancinante poetica di Jon Fosse, ma forse occorreva uno scatto ulteriore per renderla più incisiva sugli spettatori. Non basta adattare il testo alla nostra lingua per farci percepire la tragica mancanza di sentimenti in questo nucleo famigliare tanto simile a innumerevoli microcomunità non riuscite che popolano il nostro tempo. Andando a vedere Cani Morti sapevamo che saremmo inciampati in questa cruda questione comunicativa di cui Jon Fosse è maestro a cominciare da Inverno che vedemmo in scena anni fa. Ma come per tutti i testi teatrali, portandoli in scena occorre smontarli e farli rinascere in modalità inaspettate, pena la vera incomunicabilità dello spettacolo. Il giovane uomo, sollecitato dalla madre, ad un certo punto, alla domanda: «di’, cosa pensi?» , risponde laconicamente: «No».

Per un’ora si srotola sul palcoscenico la spietata non azione di questi personaggi, le loro dinamiche famigliari infarcite di frasi di circostanza dentro questa stanza/universo chiuso che non a caso ha, come finestrina per osservare il mondo, un proiettore teatrale il quale – naturalmente in modo simbolico – ogni volta che si aprono le persiane, abbaglia lo sguardo di chi intende osservare il mondo fuori dal proprio claustrofobico loculo.

Una famiglia alla quale manca ossigeno: non a caso il giovane uomo, pur di non dialogare con i suoi parenti,  si arma sistematicamente di una sorta di macchina dell’ossigeno posta sul tavolo, attorniato da sedie di sapore vintage, metafora di un possibile dialogo (miseramente mancato) del nucleo famigliare, unico arredo scenico assieme, in primo piano, alla ciotola del cane colma di cibo,  per chiudersi ulteriormente dentro di sé. Un giovane uomo che ha smesso di suonare la chitarra, che ha smesso di interagire con gli altri, perché a lui in definitiva  bastava il suo cane da condurre con il guinzaglio, cosa che non riesce a fare con le persone che gli stanno intorno.

Sì, tutto questo era prevedibile. E i giovani neo attori, Alessandra Bedini, Caterina Fornaciai, Emanuele Linfatti, Domenico Macrí e Daniele Paoloni paiono tutti perfettamente a proprio agio nel loro specifico ruolo; ma noi ci aspettavamo un inatteso ritmo diverso in scena proprio per non cadere nella ripetizione canonica di incomunicabilità che questo indiscusso maestro ha negli anni orchestrato nei suoi magistrali scritti di rara asciuttezza.

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Le foto sono di Duccio Burberi.

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