Luca Fortis
Tra arte, passione e mercato

Collezionare è un’arte

Incontro con Elvira Cattaneo, celebre antiquaria. "Il rapporto tra chi vende e chi compra è quasi una danza, un rapporto del tutto particolare. Oggi, invece, spesso si compra più che altro pensando all'investimento"

Il collezionismo, il rapporto tra collezionista e oggetto collezionato e con l’antiquario è qualcosa di molto complesso, a volte quasi misterioso. Ne parliamo con Elvira Cattaneo, storica antiquaria e figlia dell’antiquario che per primo lanciò la moda delle ceramiche meridionali a Milano.

Allora, Elvira Cattaneo, cominciamo dall’inizio: che cos’è il collezionismo?

Parlerò soprattutto di cos’era il collezionismo, perché negli ultimi anni è molto cambiato. In generale esistono varie tipologie di collezionisti, c’è chi ama il bello, ma anche chi è vittima di una vera e propria patologia. Un tempo questo lato lo conoscevo meno, forse è una forma di sadomasochismo che si può instaurare non solamente con se stessi, ma forse perfino con l’antiquario. Il rapporto tra chi vende e chi compra è quasi una danza, un rapporto del tutto particolare. Quando ho iniziato, non sapevo ancora giocare la parte, ho imparato da amici mediorientali a comprendere il piacere della trattativa. Mio padre era commerciante perché era collezionista. Non vengo da una famiglia che era legata al commercio in quanto tale. Nel collezionismo di un tempo c’era il piacere di condividere le proprie collezioni. Oggi per timore dei furti la gente invece ha molto paura, non condivide. Il rapporto tra il commerciante e il compratore è quasi rituale. L’antiquario di un tempo aveva anch’esso la casa piena di oggetti d’arte e condivideva questo lato con il compratore. Oggi questo avviene molto meno.

Un tempo l’antiquario sapeva anche comprare gli oggetti o i quadri di pittori meno compresi, per poi farli diventare di moda.

Io sono l’esempio di questo, vivo da sempre alle spalle delle collezioni comprate da mio padre, che come antiquario aveva molto occhio. Capiva prima degli altri quello che si sarebbe rivalutato, sapeva essere all’avanguardia. Mio padre comprava la ceramica popolare italiana quando la gente acquistava le tazzine Rosenthal.

Chi sono i collezionisti?

Spesso sono persone che collezionano tantissime cose, vanno a periodi. Nella vita poi fanno tutt’altri mestieri. Un amico ingegnere, morto qualche anno fa, è passato da una collezione all’altra durante tutta la sua esistenza. Non ha avuto figli e gli oggetti ora sono andati alla moglie e in futuro chissà. In famiglia c’è sempre un antagonista del collezionista, la persona che penserà alla polvere che si accumulerà su tutti questi oggetti. Mia madre condivideva le gioie di mio padre nel collezionare gli oggetti, anche perché per fortuna non era terrorizzata da un po’ di polvere. Io invece mi ero ricavata il ruolo di vestale e passavo il tempo a spolverare. In parte questo mi ha insegnato ad amare le collezioni di mio padre, ma ad un certo punto mi ha anche spinto a allontanarmene, a crearmi una vita mia. Da piccola ogni tanto andavamo in Brianza dai raccoglitori, che erano quelli che passavano di casa in casa per comprare e poi rivendere agli antiquari. Ci passavamo le domeniche. Erano gli anni Sessanta, la gente non solo aveva i soldi, ma aveva anche molto buon gusto. Mio padre aveva clienti molto colti, attori, architetti, intellettuali. Da Zeffirelli, ad architetti importanti come Zanuso, Albini, Castiglioni. Li abituò ad inserire elementi di arte moderna tra gli arredamenti antichi. Anche perché era amico di tantissimi artisti, come Fontana, Dova, Crippa, Sironi. Molto spesso i suoi clienti non capivano il moderno, ma si fidavano di mio padre. Spesso mi dicono ancora che, se non ci fosse stato lui, non avrebbero avuto la fortuna di avere collezioni di arte moderna così importanti. Mio padre lavorava anche con la Rai, le prime fiction della tv italiana erano spesso sulla letteratura italiana dell’Ottocento come Piccole Donne e lui gli noleggiava mobili e oggetti per ricreare gli ambienti dell’epoca. Dietro c’era un etichetta con scritto “Catta” che voleva dire Cattaneo.

Suo padre fu uno dei primi antiquari a proporre le ceramiche popolari meridionali a Milano.

Mio padre era innamorato del Sud, soprattutto della Puglia con la sua arte romanica. Gli piaceva moltissimo poi la ceramica popolare pugliese che a Nord non veniva per nulla compresa e veniva bollata con il termine dispregiativo di meridionale. Il Sud aveva ceramiche spiritose, allegre, piene di colore e forme astratte, che anche l’artigiano umile sapeva fare perché erano nel suo Dna. Nulla di più lontano dalla mentalità austro-ungarica dei ceramisti del Nord. Papà aveva un amico di Taranto che lo portava in giro a comparare oggetti.

Capita a volte che lo stesso collezionista senta il bisogno di svuotare casa?

Mio padre non si sarebbe mai separato da nulla e per fortuna sua, ha lasciato la “zavorra” a me e mio fratello. Io ho vissuto il rapporto con le sue collezioni con amore e odio. In modo del tutto contrastante, tante volte è stato un peso notevole, allo stesso tempo ho vissuto anche grazie ad esse. Io, per scelta, non ho avuto figli e quindi nel tempo mi sono separata da molti oggetti. Il momento della separazione è un momento molto particolare. Vi è una differenza enorme tra le cose che compro io e rivendo e gli oggetti che provengono da casa mia e da cui mi sono separata negli anni. Separarmi da essi è stato molto più difficile, come perdere una costola.

Le donazioni pubbliche possono essere una soluzione?

Le donazioni pubbliche purtroppo spesso non funzionano, perché lo Stato di solito non riesce a gestirle. Quando ho donato alla Stato ho avuto esperienze negative, anche se ci voglio ancora credere e sperare che le cose migliorino.

Esiste un lato patologico del collezionismo?

Può succedere, farò l’esempio di un collezionista molto importante, di cui non dirò il nome. È morto anni fa e lavorava nel settore bancario. Aveva un rapporto sadomasochista con gli antiquari, una dipendenza simile a quella che si può avere con la droga. Mi faceva chiamare dalla segretaria che mi chiedeva sempre cosa c’era di nuovo per il dottore, anche quando lui era in giro per il mondo. Poi si presentava regolarmente ed iniziava una trattativa estenuante. Era talmente stancante ed innervosente che un giorno lo cacciai fuori dal negozio dicendogli che non gli avrei mai più venduto nulla, smisi di rispondere perfino alla segretaria. Fu la prima volta che decisi di chiudere il negozio. Negli anni ho compreso che più che ottenere l’oggetto, il suo piacere era ottenerlo in quel modo, facendomi diventare matta, esasperandomi. Lui non trattava solo sul prezzo, ma disprezzava perfino l’oggetto che comprava. Io sono l’opposto, amavo vendere alle persone che erano sulla mia stessa lunghezza d’onda, anche a poco prezzo.

Un collezionista deve possedere una casa per esporre le sue collezioni?

Oggi il collezionismo è diminuito perché è venuta meno la casa. Le persone si spostano spesso, vivono in abitazioni piccole. Un tempo la casa era una forma di rappresentanza, un luogo in cui si mostrava il proprio gusto e valori. Oggi spesso si compra più che altro pensando all’investimento.

In quest’epoca trionfano le filosofie orientali che insegnano ad avere pochi oggetti, se non addirittura a non essere legati a essi…

C’era un periodo in cui speravo di finire in galera per avere solo una ciotola e un cucchiaio. Negli anni Settanta mi vergognavo quasi che la mia famiglia possedesse tante collezioni. Poi sono cambiata e ho compreso che, alcune volte un oggetto che si ritiene bello, può avere un significato importantissimo.

Così come l’odio è spesso l’altro lato dell’amore, il fuggire dagli oggetti di famiglia, non è proprio la dimostrazione dell’importanza che hanno avuto su di noi?

Certamente sì! Ho sempre vissuto questo rapporto quasi in modo schizofrenico, a volte ho avuto bisogno di tranciare le mie radici, in altri momenti ho compreso che senza radici si muore. Per altro nella vita, la famosa casa in cui esporre le collezioni, non l’ho mai avuta. Ho sempre girato l’Italia dietro a mio marito Gianfranco Teotino, giornalista sportivo, spostando il negozio a seconda delle città in cui lavorava. Mio marito per esempio non ha nostalgie per le case, potrebbe vivere tranquillamente in un albergo.

Il lusso non è essere liberi di andare e venire, avendo però una casa o una cantina dove archiviare le cose per poi un giorno riprenderle?

Si, gli oggetti per altro vincono, perché durano più di te, andranno in altre mani, avranno altre storie.

Gli oggetti sono infedeli?

Alcune volte ho dovuto convincermi che dovessi lasciarli andare, concedergli di vedere altri luoghi, conoscere altre storie. Ho dovuto dare un “anima” anche a questo lato.

Per un collezionista com’è il rapporto con il falso?

Il collezionista vero alla fine è affascinato dal falso. Gli piace molto l’idea di ingannare se stesso e il prossimo. Mio padre, che non avrebbe mai ingannato nessuno, specialmente commercialmente, subiva però il fascino per le storie dei falsari. Tra fine Ottocento e inizio secolo, c’era un famoso falsario che si chiamava Dossena che faceva sculture finto Quattrocento e Cinquecento, di cui ha riempito i musei americani, era bravissimo. Oggi valgono pure i Dossena, c’è chi le colleziona. Io a casa ho un piattino falso stile Ariano Irpino, fatto in Cina. Mi ha subito divertito.

Un oggetto, come la cucina, la lingua, un’architettura può distruggere falsi miti fondativi, mostrando influenze che oggi si vogliono celare? Per esempio le finestre di Venezia, i vetri di Murano o le sarde in saor, connettono la Laguna Veneta più con il Medio Oriente e l’India, che con le terre dei celti…

Certamente, in Veneto l’influenza con l’Oriente è evidente.

Chi compra da chi smonta e smembra dimore o collezioni fa bene o male?

Lo Stato e la comunità dovrebbero tutelarne l’integrità, se questo non avviene, salvare le parti smembrate che sarebbero state distrutte o disperse diventa un male minore.

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