Erminia Pellecchia
Al Centro Mostre e Studi di Roma

Mari Maestosi

Un nuovo ciclo di Danilo Maestosi in mostra. Lirismo e accusa: sono le chiavi di lettura che il pittore offre nel provocare la complicità dello spettatore innescando un cortocircuito di sguardi

«Là sotto è tutto così fermo, silenzioso, che mi concilia il sonno; è una strana ninna nanna ed è mia. C’è un grande silenzio dove non c’è mai stato suono… c’è un grande silenzio dove suono non può esserci nella grande tomba del profondo mare». Mentre ti specchi nel blu oceano del dipinto su tavola La forma dell’acqua che apre la mostra “Le terre dei ricordi” di Danilo Maestosi, affiora un’immagine che avevi immagazzinato nell’archivio della coscienza, parole che sussurrano serenità nei tuoi sogni dove l’annegare è la dolce soglia per oltrepassare un mondo gravido di affanni: sono quelle del finale di un film capolavoro, Lezioni di piano di Jane Campion. Ma c’è un altro frame che si sovrappone, quello di un dramma reale, l’olocausto dei migranti, raccontato poeticamente in Fuocoammare di Gianfranco Rosi: l’oscurità del mare di Maestosi è interrotta da squarci luminosi, un cielo capovolto a cui aggrapparsi nel tentativo estremo di fuggire da quel mondo liquido che ti inghiotte. Lirismo e accusa: sono le chiavi di lettura che il pittore offre nel provocare la complicità dello spettatore innescando un cortocircuito di sguardi e, in questa recente produzione fortemente sofferta e voluta, appare più che evidente l’intenzione da autore militante di scuotere l’apatia della mente, innescare semi di pensiero combattente, coinvolgere nel ribadire che l’”io” va declinato “noi”. «Riconoscerti nelle vibrazioni dell’immaginario collettivo per ritrovare almeno il groviglio di fili invisibili che intreccia la nostra vita a quella degli altri» è il manifesto etico di Maestosi, declamato attraverso il medium dell’estetica.

L’effetto è choc. Spaesante. Un vortice turbolento. E, con questo notturno-copertina dalle intense veloci pennellate, trascina in una rotta di collisione tra l’osservare e il vedere, il rimuovere e il costruire, il Centro Mostre e Studi, la galleria di via Mompiani 1/A che ospita (fino all’11 dicembre) questa straordinaria, intensa personale curata da Carla Mazzoni e Massimo Rossi. La visione intima – l’autore da bambino ha rischiato di morire per asfissia – si arma di azione e si veste di denuncia sollevando una riflessione sulle memorie affogate: di un passato apparentemente sopito; di un presente – quello dei milioni di profughi in fuga disperata – che, come struzzi, sotterriamo. La stella polare, che Maestosi ci dona per uscire dal buio dei sentimenti, è la luce. Un faro che illumina gli abissi proiettandosi dal dentro dei suoi paesaggi anima che rimandano all’Infinito di Leopardi e alle atmosfere oniriche dell’amato Turner, e che ci conducono verso un cammino di rinascita. Al di là dei titoli scelti – suggestione nella suggestione – che possono suonare, a tratti, pessimistici, c’è, nel gesto e nel sentire del pittore-scrittore, un potente invito a non arrendersi mai. È il caso dell’Ultima luce, segni-creature in viaggio controcorrente tra discese e risalite ardite, incuranti della morte perché la meta indicata da quell’alone luminoso, è l’altrove da sempre agognato ed inseguito. Sì, perché, nella vita è rischioso non rischiare, perché la vita stessa è un rischio. Le porte dell’Ade, La vertigine del tuffatore e Il tempo sottosopra, opere gemelle, sono traiettorie della stessa ricerca di un mondo delle utopie possibili da raggiungere solo col rovesciamento delle convenzioni, il superamento di barriere precostituite, il gettarsi in volo libero lasciandosi alle spalle l’aldiqua che genera paure per varcare il limen di un aldilà che germoglia speranze. L’icona è Il risveglio di primavera che è richiamo a ridestare i propri sogni, a ritrovare il ritmo del cuore come canta Battiato. E la beffa de La terra promessa (altro quadro simbolico modellato su una superba tavolozza di ocra e rossi) ci piace immaginare che non sia più la Palestina oggetto di conflitti ma luogo di distensione, pace, unità, fratellanza dove gli Orizzonti di filo spinato siano solo l’eco di un passato da preservare come monito perenne a un “mai più”.

Maestosi è un “archivista profeta”, come lo ha definito il geniale amico Ennio Calabria, tra i maestri e custodi della pittura, l’arte per eccellenza oggi purtroppo considerata passatista e messa al bando. O meglio, citando un’espressione coniata da Achille Bonito Oliva per la sua Enciclopedia delle arti contemporanee (Electa), un “portatore del tempo” che scava nei sotterranei della memoria; “un lavoro da archeologi, attenti ad affondare la pala e il raschietto per non intaccare quelle fragili miniere di cimeli”, scrive l’artista nella brochure che accompagna questa esposizione, la terza del ciclo “Verso” che ha visto, prima di lui, in dialogo-confronto sulle pareti dello spazio romano Franco Ferrari e Carlo Frisardi. Indaga i vuoti e i pieni della storia, Maestosi, quella ufficiale delle cronache, l’altra tenue, sicuramente più perigliosa, del privato. Naviga all’indietro e in avanti, controvento, nelle acque del passato, che è oggi ed è già domani, utilizzando la bussola dei ricordi che sono proiezione dell’è e del sarà. “I ricordi – avverte – sono il senso della vita, trasformano in storie da aggiungere all’infinita Storia della Specie anche il transito delle esistenze apparentemente più insignificanti. Ma i ricordi svaporano:l’età ci punisce spesso impietosa così”. Schegge di vite perdute. Come salvare quei ricordi se non costruendo un’”Arca delle parole perdute”, come titola l’opera mappa di queste geografie di terre in via di estinzione, Atlantidi sprofondate di cui, indizi sbiaditi come carezze lontane, sono soltanto le macerie? Rifugge Maestosi dai templi instabili che internet ha innalzato alla storia, ridotta ad un effimero “Magazzino del sorriso” con le offerte votive di like passivi. La sua dea, osserva nel testo critico Roberto Gramiccia, è la pittura, “divinità che non muore mai”. La pittura che dice, la pittura che narra e apre la strada ad altre narrazioni. Eccolo il pittore, con la sua tavolozza di colori, a darci il passo di un tempo pieno in cui – spunto interessante “Le Confessioni” di Sant’Agostino – l’architrave poggia sul “presente del passato, il presente del presente, il presente del futuro”. Moti dell’animo azionati dai motori della memoria (non nostalgia), della visione e dell’attesa. Un debito e un obbligo nei confronti dell’umanità.

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Le foto delle opere di Maestosi sono di Umberto Verdat

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