Loretto Rafanelli
Ancora su “Lungara 29”

Lo stile Piccioni

Si presenta a Firenze e a Roma il libro che raccoglie le lettere di Leone a suo fratello Piero detenuto nel carcere di Regina Coeli per il “caso Montesi”. Una vicenda da cui ancora si possono trarre efficaci insegnamenti «per quest’oggi così turbolento e incerto, così fragile nelle sue guide politiche, prive di idee e di adeguata umiltà»

Sarebbe istruttivo proporre nel corso di Educazione civica, laddove fortunatamente sia previsto, la storia di Piero Piccioni. Questo almeno per tre motivi: descrivere il livello di bassezza a cui può arrivare una certa immoralità politica; ricordare la superficialità a cui a volte si esprime il potere giudiziario; dire della faziosità di certa stampa. Aggiungerei però un altro elemento assai istruttivo da indicare ai giovani: il modo in cui una famiglia, quella dei Piccioni, sottoposta a inusitate angherie abbia pur tuttavia tenuto un comportamento profondamente corretto e rispettoso nei confronti della legge (il 16 marzo 1954 in Consiglio dei Ministri, Attilio Piccioni, allorché rassegnò le dimissioni, poi respinte, disse «non chiedo nulla e non voglio nulla, all’infuori del diritto di difendere la mia libertà di fede e di cittadino, il mio onore e la mia casa»). Penso a questo mentre leggo Lungara 29 (Edizioni Polistampa), il libro che racconta la corrispondenza tra Piero e Leone Piccioni, figli di Attilio, uomo politico di grande rilievo tra gli anni 40 e 60, vice di De Gasperi, e prossimo a diventarne l’erede, prima che una congiura interna alla stessa Dc (Fanfani), non lo ponesse in uno stato di grande difficoltà, per via dell’accusa nei confronti del figlio Piero di avere ucciso la ventunenne Wilma Montesi, poi successivamente assolto.

Una bruttissima storia (per Indro Montanelli «il più vergognoso, ignobile e infame scandalo che la stampa e la pubblica opinione abbiano mai scatenato contro un innocente»), in cui Piero fu la vittima sacrificale, una delle pagine nere del Paese, forse la prima come suggerisce Stefano Folli nell’Introduzione. E come lo stesso Attilio Piccioni (nella foto con il figlio Leone) ebbe a dire: «Se mio figlio non fosse stato figlio di un ministro, nessuno si sarebbe interessato a lui». Lungara era la via in cui si trovava il carcere romano di Regina Coeli, dove Piero rimase per quasi tre mesi, e la corrispondenza tra lui e il fratello Leone è una testimonianza bellissima che racconta tante cose di quella famiglia e di quell’Italia. Sono ventisette lettere di Leone a Piero e una, l’unica ritrovata, di Piero a Leone. C’è la profonda pena di una famiglia che si trova a vivere un dramma inspiegabile, che pare non abbia mai fine, e le lettere di Leone a Piero sono un tentativo continuo di rincuorare il fratello, ma anche se stesso, sperando che giunga al termine quella sofferenza, cosa che avverrà a distanza di tre anni, allorché si concluse il processo che si tenne a Venezia con il proscioglimento di Piero.

Leone Piccioni parla di tante cose nelle sue missive, con l’intento di raccontare la vita di tutti i giorni, per voler far vivere la dimensione familiare al fratello. Ecco allora che ci sono le descrizioni dei comportamenti quotidiani, sempre gli stessi, con il ritrovo nei pranzi e nelle cene, e i piccoli Giovannino e Stefanino che giocano e schiamazzano, il dialogo con i parenti e gli amici, le tante visite, i saluti dei numerosi politici (da Saragat a Pella, da Zoli a Segni, ecc.), il saluto dei tanti scrittori in confidenza con Leone, il caro, carissimo Ungaretti, pressoché di casa, quindi Bo, Luzi, Macrì, Pratolini, Vittorini, Lisi, De Robertis, ecc. E i saluti di musicisti e registi (ricordiamo che Piero, grande musicista, scrisse colonne sonore per Rosi, Visconti, De Sica, Rossellini, Monicelli, Bertolucci, Bolognini, Lattuada, Comencini, Pietrangeli, Petri, Risi, Wertmüller, Brass).

Il forte dolore si stempera un poco nel calore familiare, per giungere a un sereno dolore, perché pur vivendo in un labirinto che frastuona e incupisce, la forza di una famiglia unita diviene il sostegno vero e sostanziale, quella stessa famiglia che era temprata al dolore per via della morte prematura della madre (Carolina Marengo morì nel ’36, quando Piero aveva 15 anni e Leone 11), che lascia Attilio Piccioni nel ruolo di padre e madre dei quattro figli, tra gli impegni professionali e politici, ma non mancando mai al suo ruolo. Si percepisce chiaramente leggendo le lettere quanto l’affetto dei due fratelli sia grande, quanto sia profondo il loro legame, quanta condivisione vi sia tra i due, quanto Leone cerchi di infondere coraggio e sia pronto a qualsiasi sacrificio per il “caro Pierotto”, arrivando a dire: «vorrei da Dio il beneficio di potermi sostituire a te».

Quel Dio e quella fede che accompagnano molti passi delle sue lettere. La famiglia Piccioni è profondamente cattolica, con Giovanni Piccioni, fratello di Attilio, prete “sociale” e poi vescovo di Livorno, e l’invocazione al Signore è un leitmotiv fra messe domenicali e le visite a santuari, per pregare, per chiedere la giusta grazia. La fede che è comunque incrollabile, come ebbe modo di scrivere Leone, parlando di un uragano che travolse una zona della Campania (con la morte di 300 persone e lo sconcerto di tanti fedeli verso i disegni intangibili di Dio), ma che sicuramente era una riflessione sulla propria storia: «Uno rischia di perdere la Fede, che non sarà mai il caso nostro, o uno trova nella Fede la forza di rassegnazione: si addentra nella prova del signore, nella sua varia gradazione, in quella storia che non ha fine nella vita degli uomini, che va dalla avventura di Giobbe, alle tante, mille persecuzioni di ogni specie e natura». Una fede genuina e non astratta dalla vita quotidiana, una fede vissuta, intrisa «di onestà , di coscienza, di dignità». (Nella foto un’immagine della devastazione a Salerno).

Ma Leone nelle sue lettere, oltre a parlare di libri e di autori (Dante, Leopardi, etc.), accenna a tanti fatti spiccioli, alfine di sollevare Piero dal suo grigiore quotidiano, le tante piccolezze della vita, e molto scrive di calcio, forte passione comune, e racconta delle partite che va a vedere allo stadio romano, sia della Roma che della Lazio, e parla soprattutto della Juventus, nonostante in quel 1954 la loro squadra del cuore non brilli molto. Bellissima (e un po’ faziosa) è la cronaca della partita del 7 novembre 1954, allorché la Juve gioca contro la Roma, con recriminazioni continue verso l’arbitro e la sfortuna, e con la nota finale coinvolgente: «quando la vedremo insieme (e sarà presto), la troverai di tua soddisfazione, ne sono sicuro, anche se allo scudetto penseremo solo tra un paio d’anni».

A volte riesce difficile a Leone nascondere il vero stato d’animo della famiglia, sapendo che la confessione del dolore che scorre, non avrebbe che aumentato l’ansia di Piero, ma l’11 novembre scriveva: «Papà va avanti al solito modo: è molto invecchiato, e te ne accorgerai da te. Chiaretta ha nervi saldi e pazienza… e così ci si avvia alla fine della settimottava settimana, all’inizio della ottava-nona. Basterà?». Ci vorrà ancora tempo, passeranno quasi tre mesi da quel 21 settembre 1954. Ma il finale sarà lieve e le tante lettere giunte a Attilio nel 1957, alla fine della vicenda giudiziaria, sono dolci slanci affettivi che un poco ripagano, anche se la vita politica è in parte compromessa, e forse non tutte le missive sono limpide, come quella (patetica) di Amintore Fanfani, il quale scrive: «…tutti gli amici… desiderano esprimerti il loro mio sentimento di solidarietà nella gioia… e il fervido augurio di ininterrotte lunghe ore serene per te e per tutti i tuoi».

Ma non posso terminare questa nota sul Lungara 29, libro curato con amore e intelligenza da Gloria Piccioni, senza accennare alla figura di Attilio Piccioni (nella foto, durante un comizio nel 1948 a Poggio Bustone, suo paese natale, ndr) un uomo politico di straordinaria grandezza, forse non focalizzata a sufficienza (ma la testimonianza bellissima di Giovanni Spadolini riportata nel volume ne traccia i giusti confini). Egli, possibile presidente della Repubblica nel 1955 e nel ’62, per Montanelli “presidente per natura”, segretario della Dc in vari periodi, più volte ministro, visse in gioventù nella Torino liberale e cattolica ante fascismo, amico anche di Gobetti, ebbe posizioni politiche di raro valore morale e di grande visione strategica, spesso in dissenso con parte del suo partito, arroccato su posizioni conservatrici e a volte reazionarie. Aperto a politiche di collaborazione con le forze di opposizione, nonostante fosse stato il segretario della Dc del 18 aprile 1948, allorché la campagna elettorale e il voto lacerarono il tessuto politico e sociale nazionale, ma che Piccioni non volle trasformare in una vittoria contro lo spirito di terrore e di paura che il comunismo provocava, con un conseguente «blocco d’ordine ottuso ed opprimente, bensì una vittoria come una scelta di civiltà, di democrazia occidentale, di libertà» come scrisse Spadolini.

Piccioni ebbe sempre la forza della persuasione e la volontà collaborativa nel partito e con le opposizioni e la società, aveva la grande statura dell’uomo di Stato, coraggioso difensore delle libertà collettive e individuali, difensore della democrazia. Fu antifascista e repubblicano. Si battè per un autonomismo territoriale regionalista. Fu europeista ante litteram, nel periodo delle enormi macerie post belliche e delle ferite laceranti fra le nazioni europee. Fu contrario, in Consiglio dei ministri, e «volle che il suo dissenso fosse messo a verbale», alla legge del “premio di maggioranza” approvata nel 1953, e poi passata sotto l’appellativo di “Legge truffa”, non rinunciando alla sua idea proporzionalista, in dissenso con lo stesso De Gasperi, che quella legge volle. Sì proprio in dissenso con De Gasperi, suo grande riferimento umano e politico, in una collaborazione, una intimità, una fiducia, una amicizia di anni, dimostrando una coraggiosa autonomia di giudizio.

Quante lezioni per quest’oggi così turbolento e incerto, così fragile nelle sue guide politiche, prive di idee e di adeguata umiltà.

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Mercoledì 12 dicembre, alla Fondazione Spadolini di Firenze (via Pian dei Giullari 36/A – info 055-2336071 – fondazione@nuovaantologia.it), parleranno di “Lungara 29” Stefano Folli, Ferdinando Adornato, Alessandro Ceni. Coordina Cosimo Ceccuti.
Martedì 18 dicembre, all’Istituto Sturzo di Roma (Via delle Coppelle 35, 06 6840421) il volume sarà presentato oltre che da Stefano Folli, da Giovanni Sabbatucci, Vincenzo Scotti, Silvia Zoppi Garampi. Presiede Nicola Antonetti.

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