Mara Ribera
L'evento alla Galleria Tag

L’incantesimo delle parole

Una delle scrittrici della serie "Parole e ombre" di Succedeoggi racconta la sua personalissima reazione alla mostra-performance che, la scorsa settimana a Roma, ha festeggiato il progetto

Le parole sono pietre, scrisse Carlo Levi. Significa che hanno un peso specifico importante e se le scagli addosso a qualcuno possono ferire. Io dico che a volte sono tufo, quando le metto insieme per dare vita a una storia. Io dico che guariscono, trasformano ciò che mi è accaduto in ciò che avrei voluto, mi liberano dal male meglio di una preghiera. Le parole scritte, dunque, sono un balsamo. Anche nel caso in cui i lettori sentono i pugni nello stomaco. Le ombre mangiano la luce per definizione, sono macchie che nascondono. Ci insegnano a temerle fin da piccoli, a girarci intorno. Io dico che a volte mostrano la verità, se sai mettere a fuoco la superficie dove cadono. Io dico che bisogna nuotarci dentro, per vederci chiaro. Le ombre, dunque, non mi fanno più paura. Anche nel caso in cui guardandole sento i pugni nello stomaco.

Una settimana fa, poco prima di tornare nuovamente sotto i ferri, sono stata alla Magliana; in un luogo dove Parole e Ombre, insieme, funzionavano come un incantesimo. C’erano le storie di ventidue scrittori, compresa la mia “Mastectomia”, c’erano le opere visive di altrettanti artisti. A un certo punto, quando le luci nel corridoio si sono spente tutte tranne quella che illuminava, in lenta successione, le immagini nate dai racconti, ho percepito un colpo sopra l’ombelico. La muscolatura si è contratta, il respiro si è fermato. Il dorso si è piegato in avanti, come a voler contenere la botta.
È durato qualche minuto.
Dopo, cessati gli applausi, conclusi i ringraziamenti, mi sono rimessa dritta. Ho riempito i polmoni d’aria, ho rilassato il ventre. Ero più leggera di almeno dieci chili, ero in forze. Avevo fame.
Allora mi è tornato in mente Aristotele al liceo, la sua tesi sulla tragedia e la catarsi. A me non piace usare intellettualismi quando scrivo, prediligo un linguaggio semplice, fruibile, lavoro per sottrazione. Voglio arrivare a tutti, pur narrando cose scomode. Perciò non so se sia una grande idea parlare di filosofia in queste righe. Ma è vero che assistere alla rappresentazione di un dramma ci fa dimenticare il nostro. È vero che l’arte serve soprattutto a questo: a farci sentire meno soli.

“Si svegli, signora” ha detto l’anestesista scuotendomi con grazia.
Stavo sognando l’evento alla galleria TAG-Tevere di Roma: io e gli altri partecipanti intorno a un tavolo, bicchieri colmi, piatti vuoti.
“Di già?” ho farfugliato. “Peccato, dormivo tanto bene…”
Così ho due nuove cicatrici, ai lati dell’addome. Nuovi dolori.
Col mio amico Marco ci stiamo organizzando per la visita alla mostra di Picasso, qui a Milano, appena sarà finita la convalescenza. Al telefono gli dico che mi sono guardata allo specchio, contando i segni lasciati dal bisturi. E, chissà perché, non mi dispiaccio.
“Perché somigli a un quadro di Picasso”. Ride.
Ridiamo entrambi, è una risata complice.

Somiglio a un’opera cubista, con testo a fronte.
Somiglio a un incantesimo. Come alla Magliana.
Parole e Ombre.
Insieme.

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Clicca qui per vedere il video della serata romana.

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