Vins Gallico
Parole e ombre/15

Fuga di notizia

«Ecco laggiù un varco, sembrerebbe. E invece è soltanto l'illusione ottica. Non c'è nessun passaggio. L'uomo e il padre sbirciano attraverso la protezione. Per un istante l'uomo ha sperato di trovare l'anello che non tiene, quello della poesia di Montale»

Fotografia di Alessandro Romagnoli

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I vecchi a un certo punto tornano bambini e, superato quel crinale, bisogna trattarli come tali. Bisogna imboccarli, lavarli, rassicurarli, cambiarli, guidarli, a volte bisogna anche prenderli in braccio o sulle spalle.
Probabilmente Enea non pensò tutto questo mentre la città gli bruciava alle spalle, ma agì d’istinto, spronato dall’urgenza e dall’adrenalina e fece segno al padre Anchise di saltargli in groppa.
A cavacecio, si sarebbe detto a Roma secoli e secoli dopo.
Sono innumerevoli le raffigurazioni pittoriche e i riferimenti iconografici che riprendono il mito di Enea, il profugo della guerra di Troia che tende i muscoli, stringe i denti, sfida la cervicale e suda sotto il peso delle ossa malridotte di Anchise.
Per mano conduce il figlioletto, il piccolo Iulo Ascanio.
Perché se i vecchi tornano bambini, in tempi difficili i bambini sbocciano prima e diventano uomini, procedono con le loro gambe, attingono a bacini energetici sproporzionati, senza lagne, senza capricci

L’uomo guarda il padre, mentre scendono dall’auto. Non vivono tempi difficili. L’Italia del 2017 non è in guerra, ci si lamenta per la mancata qualificazione ai Mondiali di calcio dell’anno successivo, per la situazione di vaghezza politica, per gli scioperi del venerdì dei mezzi di trasporto, ma nonostante la crisi, si vive. Si vive in una bulimica tranquillità, in un soffritto di preoccupazioni ingigantite e una minestra di problemi reali. Non vuole generalizzare l’uomo. Questa situazione è quella che lo riguarda: vive, vivacchia per certi aspetti, sopravvive per altri. Grazie al suo stipendio arriva a fine mese senza concedersi grandi lussi.
Anche suo padre si mantiene su una linea di sobria decenza, con la pensione. È senz’altro più vecchio di Anchise, così come l’uomo è più vecchio di Enea. Se sbirciassimo nelle loro carte d’identità scopriremmo che hanno 77 e 38 anni. L’anziano è relativamente in forma dal punto di vista fisico, a parte che non ci sta più con la testa.
“Mi hanno parlato di questo posto e te lo volevo mostrare”, dice l’uomo indicando la salita. Su entrambi i cigli della strada gli alberi incombono con le loro foglie secche, mentre il verde muschioso della natura rasoterra è una tigre in agguato: dorme, ma potrebbe aggredire l’asfalto in un attimo.
I due uomini aggirano la sbarra che impedisce alle macchine di proseguire.
“Mi sembra una cosa buona… praticamente”, risponde il padre con occhi dubbiosi.
Lo dice spesso, che è una cosa buona… praticamente. Ormai si aggrappa a formule vuote, l’Alzheimer gli sta mangiando il cervello, i ricordi, le connessioni, e per interagire con il mondo esterno, quel mondo sempre più sconosciuto e pieno di insidie, si appiglia a frasi fatte, giri di parole trattenuti nella rete dalle maglie troppo larghe della mente, ripetizioni avverbiali ossessive come tamburi.


Per quasi quarant’anni ha insegnato latino e greco a scuola, il tipico professore severo, al limite della pedanteria. Declinazioni, coniugazioni, ablativi assoluti, aoristi sono stati le basi sulle quali ha costruito la propria esistenza. Lo hanno sorretto quando è rimasto vedovo e smarrito. Più che appoggiarsi alla fragile scenografia che fa da sfondo alle esistenze, a quella combinazione di cartapesta e passato, si è ritrovato come un burattino in trappola, sostenuto dai fili della classicità.
Il classico, l’antico, l’andato. Per lui è sempre stato così. Anche prima della malattia ha vissuto in un altro mondo, in un altro tempo, così l’uomo ha sentito dire del padre: sempre sbadato, poco manuale, poco pratico, fra le nuvole di Aristofane.
Gli affiora il ricordo di un viaggio in estate, a Siracusa, trent’anni prima, spettatori di una tragedia greca.
In contemporanea c’era una partita dell’Italia ai Mondiali, ottavi di finale contro la Francia. Una parte del pubblico fissava la discesa agli inferi di Alcesti, la viltà del marito Admeto, l’intervento di Ercole; l’altra parte era incollata alle radioline gracchianti.
Anche quella volta non andò bene alla nazionale del calcio.
Era una fase in cui l’uomo era ancora figlio, senza responsabilità, con i suoi otto anni, e un cuscino poco morbido sui gradoni dell’anfiteatro e una madre ancora viva che lo aspettava al ritorno a casa dalla trasferta.
“Qua c’era un fiume, vero?”, osserva il vecchio indicando le pietre che costeggiano la strada moderna.
“Credo fosse la via antica, papà, lo vedi che sono tutte lastricate? È il selciato romano”.
“Mi sembra una cosa buona… praticamente.”
Avanzano a passi lenti, aritmici. Ogni tanto il padre si ferma, l’uomo lo aspetta. Ogni tanto è l’uomo a fermarsi prima che lo faccia il padre, quando gli sembra che stia per accusare la stanchezza.
Giungono in un punto in cui l’asfalto muore e cede il posto alla proprietaria precedente, la terra erbosa. Da lì si apre la valle che abbraccia Rocca di Papa e Grottaferrata. Ancora più a sud, nascosto dai declivi ricoperti di un manto autunnale, s’affossa il lago di Albano.
Una volta qua non era tutta campagna, tanto tempo fa era tutto vulcano.
L’uomo aspetta il momento buono per parlare al padre. Ha letto di un anfiteatro del II secolo d.C, che dovrebbe trovarsi a poche centinaia di metri. E quella natura addormentata e furtiva che stanno attraversando, due millenni prima, era considerata un Bosco Sacro. La teatralità e la religiosità sono elementi che si sposano bene con la notizia, l’annuncio che vuole dargli.
“Qua devono avere scavato, vero?”, osserva il vecchio indicando il suolo dissestato.

“Sembrerebbe di sì”, risponde l’uomo che non è esperto di quelle cose, “Forse cinghiali o talpe”.

“Forse qualcuno a cavallo”.
I piccoli solchi sul terreno potrebbero essere stati causati dagli zoccoli di un cavallo se non fosse che sono estremamente vicini. Estendendosi su una superficie talmente limitata, potrebbe essere stato soltanto un cavallo monozampa.
“Forse”, risponde l’uomo.
C’è un sentiero che costeggia il dirupo, che sfuma nello strapiombo fra rovi di more. Le antiche rovine sulla sinistra appaiono e scompaiono alla vista dei due uomini, come geyser di pietra, come miraggi archeologici. C’è una brutta doppia rete metallica a impedire l’accesso all’anfiteatro.
Ecco laggiù un varco, sembrerebbe. E invece è soltanto l’illusione ottica. Non c’è nessun passaggio. L’uomo e il padre sbirciano attraverso la protezione. Per un istante l’uomo ha sperato di trovare l’anello che non tiene, quello della poesia di Montale, quel cuneo, quel pertugio dove far incuneare la verità.
“Papà, te la ricordi I limoni?”.
Ovviamente non ricorda la poesia. È un modo per dargli l’impressione che non lo considera troppo malato. Una volta è capitato che citasse ancora Plauto.
“Neanch’io me la ricordo”.
Guardano i gradoni dell’anfiteatro. Quanto saranno alti? Quarantacinque, cinquanta centimetri? È una misura significativa già molto per l’uomo.
“Papà, che ne dici di diventare nonno?”.
Il vecchio non capisce subito. L’uomo deve spiegare in maniera più esplicita: lui e la compagna aspettano un bambino, il padre diventerà nonno, e l’uomo diventerà padre.
Quando nascerà il piccolo sarà alto, anzi lungo quanto quei gradoni. E l’uomo s’immagina di tornare lassù camminando verso il Monte Tuscolo. Di arrampicarsi sulla salita con il figlio sulle spalle, di insegnargli come affrontare le discese con i piedi messi in obliquo.
“Mi sembra una cosa buona… praticamente”, dice il vecchio con gli occhi lucidi.
Quello che le parole non dicono, lo rivelano l’umidità e la lucentezza dello sguardo.
E così tornano verso l’auto, piano piano, il padre che si appoggia al braccio dell’uomo, che s’immagina il piccolo davanti a loro, dai passi incerti e curiosi.
E ripensa a Enea, ad Anchise e Iulo.
Non sta fuggendo da una città in fiamme, da una guerra, da una carestia. Non ricorda se fosse stato Sofocle a scrivere: “Fuggire, fuggire, ma essendo fuggito dove restare?”. Il padre non lo ricorderà più di certo. Eppure l’uomo saprebbe dove restare. Sa che non sta scappando, sa verso cosa sta fuggendo. Se con fuga si può intendere una corsa, una frenesia.
Ma dove sia diretto, ecco, quello non vuole dirlo a nessuno.

Vins Gallico (Melito Porto Salvo, 1976), ha pubblicato Portami Rispetto (Rizzoli 2010), Final Cut (Fandango 2015) e La Barriera (Fandango 2017). Scrive per Il Fatto Quotidiano, fa parte dei Piccoli Maestri e ogni tanto parla di libri su Radio Onda Rossa.

Alessandro Romagnoli. Sono un fotografo romano che si occupa prevalentemente di reportage, con una particolare passione per la ritrattistica. Mi sono avvicinato alla fotografia poco prima di compiere 33 anni, studiando in alcune tra le più conosciute scuole delle capitale. Inizialmente mi sono dedicato alla camera oscura e alla fotografia di strada. Ma presto ho sentito il bisogno di approfondire, volevo che la mia fotografia fosse “utile” e che mi permettesse di esprimere le mie idee su ciò che più mi stava a cuore. Il mio obiettivo è quello di mostrare la bellezza dei protagonisti dei miei progetti nella speranza che in questo modo le loro storie rimangano impresse nella mente di chi osserva le mie fotografie.

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