Raoul Precht
Periscopio (globale)

Enigma Solženicyn

A cent'anni dalla nascita, resta ancora enigmatica la figura di Aleksandr Solženicyn, il più significativo dissidente sovietico che con il suo "Una giornata di Ivan Denisovič” aprì gli occhi al mondo (con il permesso di Nikita Kruščev)

Nella storia di una dittatura, specie se lunga, capitano brevi periodi di relativo rilassamento, in cui censori e carcerieri abbassano momentaneamente la guardia. Qualcosa del genere avvenne in Unione Sovietica tra il 1961 e il 1962, propiziando l’uscita – altrimenti impossibile – di un romanzo che avrebbe suscitato scalpore e fatto scuola: Una giornata di Ivan Denisovič di Aleksandr Solženicyn. La vicenda è nota, e si ridurrebbe a un aneddoto qualunque, non fosse per la portata, che non è esagerato definire storica, dell’episodio. Il poeta Aleksandr Tvardovskij, all’epoca redattore capo della più importante rivista letteraria sovietica, Novyi Mir, riceve il manoscritto di un insegnante di matematica a lui del tutto sconosciuto, che oltre tutto non viveva a Mosca, ma in una sperduta provincia. Comincia a sfogliarlo una sera a letto, pensando probabilmente che gli avrebbe conciliato il sonno, ma dopo qualche pagina si alza, si riveste, si mette perfino la cravatta, non so se in segno di rispetto per quella prosa dalla precisione chirurgica, e resta tutta la notte sveglio per finirlo, rimanendone folgorato. Ben sapendo che un libro del genere non sarebbe mai riuscito a passare attraverso le maglie della censura, giorni dopo trova il modo, attraverso il consigliere personale Lebedev, di farlo arrivare direttamente al capo supremo, Nikita Kruščev, il quale – che sia per genuina convinzione nelle doti letterarie dello scrittore o più probabilmente per mero calcolo politico, in un momento in cui gli era utile attaccare Stalin con tutti i mezzi – decide di dare il via libera alla pubblicazione su Novyi Mir. La relativa apertura durò poco (il testo sarebbe stato presto ritirato dalle librerie e appena due anni dopo Kruščev avrebbe perso tutto il suo potere), ma almeno Solženicyn riuscirà a pubblicare, con un successo di pubblico enorme, un suo romanzo in patria (l’unico fino al 1990) e ad attirare l’attenzione dei mezzi di comunicazione sovietici e soprattutto stranieri sulle inumane condizioni di detenzione nei gulag del regime.

Racconto lungo o romanzo breve, nella tradizione russa del povesti di cui troviamo i migliori esempi in Turgenev o in quel Tolstoj amatissimo da Solženicyn fin dalla gioventù, Una giornata di Ivan Denisovič è, nella sua concisione, un testo capitale, che per la prima volta nella storia del Novecento fa filtrare, senza veli, l’immagine della brutalità del regime comunista, delle purghe, dell’annientamento morale di un’intera popolazione, e il cui effetto sarà rafforzato in seguito da due altri romanzi, stavolta di più notevoli dimensioni, Il primo cerchio e Divisione cancro. In quest’ultimo, che verrà letto come un’allegoria della società sovietica, simile appunto a un tumore incurabile – benché Solženicyn stesso osservi che è un’interpretazione miope, in quanto nel libro ci sono troppi dettagli medici per un’allegoria! –, lo scrittore racconta del reparto oncologico di un ospedale in Asia Centrale i cui pazienti rappresentano in nuce i vari gradi di adattamento al regime, dagli oppositori agli indifferenti, a coloro che riescono a convivere con l’ingiustizia e la violenza, fino ai veri e propri fautori del regime. Nel primo, dove fin dal titolo è evidente il riferimento al primo girone dell’Inferno dantesco, Solženicyn descrive la vita in un campo di concentramento di un manipolo di privilegiati, gli scienziati utili al regime (fra i quali Tupolev), perseguitati e minacciati ma al tempo stesso mantenuti in vita e incitati a proseguire nelle loro ricerche perché funzionali all’eterna rivalità con gli Stati Uniti.

Malgrado i ripetuti tentativi di Tvardovskij, i due libri non vedranno però la luce, né su Novyi Mir né altrove, e rimarranno clandestini, diffusi illegalmente: il KGB s’industria intanto per sequestrare a Solženicyn tutti i manoscritti che trova, esercitando anche pressioni sull’Unione degli scrittori sovietici affinché lo isoli sempre di più (ne sarà espulso nel 1969). Dopo aver forse tentato d’eliminarlo con un ago avvelenato (l’episodio è ancora oggi dubbio), il regime vede il proprio ostracismo denunciato a livello internazionale dal conferimento, nel 1970, del premio Nobel per la letteratura, che Solženicyn non potrà tuttavia ritirare personalmente per paura che non gli si permetta più di tornare indietro. Finirà per riceverlo solo quattro anni dopo.

Intanto, però, Solženicyn lavorava anche alacremente, con il validissimo aiuto della seconda moglie, Natalya Svetlova, a un libro-inchiesta ponderosissimo, basato su centinaia di interviste a ex-detenuti, che gli prenderà vent’anni di vita e non poteva passare a lungo inosservato. Per qualche tempo il KGB lo lasciò fare, poi arrestò una delle sue più strette collaboratrici, la bibliotecaria Elizabeta Voronjanskaja, la quale, torturata e minacciata, finì per rivelare il nascondiglio del manoscritto suicidandosi poco dopo. Il KGB ignorava tuttavia che dello stesso esisteva, in un luogo sicuro, una seconda copia, e a quel punto Solženicyn, che fino ad allora non aveva osato uscire allo scoperto, diede il via libera alla pubblicazione in Europa. L’uscita del libro, in particolare in Francia, fu un’autentica bomba e innescò la procedura di esilio di colui che era ormai considerato un pericoloso dissidente; un anno dopo, nel 1974, Solženicyn fu infine espulso dall’Unione Sovietica e costretto a cominciare il suo pellegrinaggio in Occidente.

Nato a Kislovodsk, nel Caucaso settentrionale, l’11 dicembre del 1918, Solženicyn – di cui celebriamo in questi giorni il centenario della nascita – non conoscerà mai suo padre, morto in un incidente di caccia tre mesi dopo averlo concepito. Trascorrerà l’infanzia alla periferia di Rostov con la madre in un appartamento microscopico, mentre le poche proprietà di famiglia venivano espropriate e il nonno materno arrestato e fatto scomparire in quanto ex proprietario terriero e quindi nemico del popolo.

Iscrittosi, malgrado tutte le difficoltà economiche, alla facoltà di matematica dell’Università di Rostov, Solženicyn segue anche dei corsi di letteratura per corrispondenza e, ben indottrinato dal regime, si permea negli anni della giovinezza dell’ideologia bolscevica, tanto da partire volontario per la seconda guerra mondiale. Benché pluridecorato per diverse brillanti azioni belliche e proposto per l’Ordine della Bandiera rossa, è arrestato il 9 febbraio del 1945, quando una sua lettera a un amico, che conteneva delle critiche a Stalin, è intercettata dall’NKVD, la polizia segreta. Ne rimedia una condanna a otto anni di lavori nel gulag e al confino perpetuo in Kazakistan: dapprima lavorerà in un campo di lavoro correzionale, poi nel centro per le ricerche scientifiche descritto nel Primo cerchio e infine si ritroverà a svolgere lavori manuali in un campo per prigionieri politici, campo che rappresenterà lo sfondo di Una giornata di Ivan Denisovič. In tutti questi anni, abbandonato dalla prima moglie (che chiede il divorzio) e da tutti gli amici, Solženicyn affronta e debella un tumore, esperienza durissima, un’eco della quale appare in Divisione cancro, mentre dal punto di vista filosofico e politico si allontana dal marxismo e approfondisce i temi della fede, nel suo caso quella cristiano-ortodossa.

Espulso dal paese nel 1974 – dopo Trockij nel 1929, è il secondo cittadino sovietico a subire questa sorte –, viene accolto in Germania dall’amico Heinrich Böll, che lo ospita per un periodo, passa poi in Svizzera e infine negli Stati Uniti, dove si stabilisce prima a Stanford, poi nel Vermont, rimanendo tuttavia abbastanza isolato. Isolato nei confronti della patria adottiva – non volle mai imparare l’inglese e la sua vita sociale era relativamente modesta – ma anche dei suoi connazionali; dopo aver passato quasi una vita a stigmatizzare il partito unico marxista-leninista e tutto ciò che dai tempi di Lenin ne era derivato, negli ultimi anni professò una singolare sfiducia nei confronti del pluralismo e del modello liberale o socialdemocratico, al punto da non riuscire mai a trovare un terreno d’intesa con altri dissidenti, come ad esempio il fisico Andrej Sacharov.

L’opera più importante e laboriosa degli anni dell’esilio è incontestabilmente La ruota rossa, ciclo di quattro romanzi storici in cui affronta la fine della Russia imperiale e la rivoluzione d’Ottobre e cerca di fornire una base storica alle rivendicazioni del nazionalismo russo, attribuendo tutto il male ad influenze esterne, ebrei compresi, e scrivendo coerentemente in una lingua russa “pura”, esente da qualunque termine forestiero ma di difficile decifrazione. Questa scelta approfondirà la spaccatura nei confronti di altri letterati di primissimo piano, come Vladimir Nabokov o Joseph Brodskij: al primo rimprovererà la scelta, nella seconda fase della sua vita, di scrivere in inglese, il che lo renderebbe automaticamente estraneo alla cultura russa, al secondo di non essere abbastanza aperto al dialetto e alla lingua popolare, il che ne farebbe un poeta troppo “facile” e quindi più internazionale che russo. Al tempo stesso, Solženicyn si allontana da quell’Occidente che l’aveva accolto, di cui disprezza il materialismo, la superficialità e la fatuità. Sul piano politico, il sogno di Solženicyn era quello di far esplodere l’Unione sovietica, cosa che poi sarebbe avvenuta, per creare uno Stato slavo formato da Russia, Bielorussia e Ucraina. Oggi, viste le tensioni fra Russia e Ucraina, può sembrare una barzelletta, ma Solženicyn si sentiva investito dalla missione di preservare e far trionfare l’elemento slavo nella cultura russa a dispetto di qualunque contraddizione intrinseca o inimicizia secolare.

Se sotto il profilo storico-politico il suo contributo, soprattutto negli ultimi anni, è quindi ampiamente discutibile, resta però la forza e la capacità narrativa di uno scrittore di grandissimo profilo, certamente fra i maggiori narratori del Novecento. Un polemista lucido, che nella Lettera ai dirigenti dell’Unione sovietica e soprattutto nell’appello Vivere senza menzogna, scritto poche ore prima di essere espulso dall’URSS, trova il coraggio e la passione di mettere il dito nella piaga, con un vibrante j’accuse nei confronti di tutti i suoi compatrioti (e non del solo partito) al quale non è mai stata data risposta in un paese che oggi si esalta per ogni esibizione muscolare di Putin: “Non abbiamo più nessun orgoglio, nessuna fermezza, nessun ardore nel cuore. Non ci spaventa neppure la morte atomica universale, non abbiamo paura d’una terza guerra mondiale (ci sarà sempre un angolino dove nascondersi), abbiamo paura soltanto di muovere i passi del coraggio civico. Ci basta non staccarci dal gregge, non fare un passo da soli, non rischiare di trovarci tutt’a un tratto privi del filoncino di pane bianco, dello scaldabagno, del permesso di soggiornare a Mosca.” Scriveva Heinrich Böll negli anni dell’esilio di Solženicyn che nulla lo aveva più colpito della tranquillità che emanava, come se tutte le angherie subite nel corso di decenni non avessero fatto altro che rafforzarne il carattere e l’imperturbabilità. Coerente con se stesso, pur con tutti i suoi errori e i suoi abbagli, ma sempre più ignorato e inascoltato anche in patria, fino alla morte, avvenuta a quasi novant’anni nell’agosto del 2008, Solženicyn rimase in effetti solido come una roccia.

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