Lidia Lombardi
Itinerari per un giorno di festa

Un fiore per Fadilla

Da dicembre verranno aperti al pubblico una volta al mese i due mausolei di Saxa Rubra (uno amorevolmente dedicato a una moglie) che raccontano il tempo degli imperatori Antonini. Un’ulteriore testimonianza dello sterminato patrimonio da valorizzare nel suburbio di Roma

Chiusi da quindici anni, circondati da condomini e attività commerciali, attigui al traffico della via Flaminia. Eppure capaci di raccontare la Roma degli imperatori Antonini. Sono i due mausolei di Saxa Rubra che hanno riaperto le loro porte in occasione delle Giornate del Patrimonio, dopo restauri attuati dalla Soprintendenza Speciale di Roma per una spesa complessiva di 80 mila euro. Sorgono entrambi all’ottavo chilometro della via Flaminia, a ridosso del Centro Euclide e della sede Rai. Raccontano di una campagna romana che, come la via Appia, invitava le ricche famiglie della Caput Mundi a costruire eleganti sepolture. E che nell’Ottocento è stata spianata: le cave di tufo rifornivano a pieno ritmo i cantieri di Roma diventata Capitale sotto lo stemma dei Savoia. Senza contare le precedenti spoliazioni, di papi e cardinali.

Ecco, come un miracolo sono giunti a noi due suggestivi sepolcri, entrambi scavati nel tufo e impreziositi da mosaici, pitture, stucchi. Intatto quello detto di Fadilla, per il nome, comune nel II secolo, che compare su una commovente iscrizione posta fra le nicchie affrescate. “Alla carissima Fadilla, per i suoi meriti, dedica suo marito”. Dunque, lo sposo che erige per la sua metà un mausoleo con sei sepolture. «Anche i bolli sui mattoni ci permettono di datare con precisione», spiega Marina Piranomonte, che ha diretto il restauro per la Soprintendenza. La tomba fu scoperta nel 1923, mentre la famiglia Molinario costruiva casali in questa zona, sede anche della Società Agricola Romana, come testimonia una vecchia targa accanto alla porticina del sepolcro. Perfettamente conservato il mosaico bianco e nero del pavimento, elegante negli ottagoni collegati da piccoli quadrati a formare un ampio disegno geometrico. Su tre pareti si aprono altrettanti arcosoli, dove avvenivano le deposizioni all’interno di nicchie che accolgono cassoni. Su quello centrale due pavoni, uno di fronte all’altro, si guardano e tengono nel becco le estremità di una benda legata a una corona sospesa, poetico emblema dei due sposi. Intorno, elegiaci gli affreschi su sfondo bianco: caprioli, genietti alati, ceste di fiori. Ora sono vividi i colori perché è stata eliminata la resina sintetica pennellata in un precedente restauro. Ed è stata migliorata l’aerazione dell’intero ambiente, che non soffre di umidità. E pensare che sopra c’è un terrazzetto di proprietà privata.

La tomba dei Nasoni, a poche centinaia di metri di distanza, a ridosso del complesso residenziale “Papillo”, racconta ancora di più pur essendo stata assai manomessa. Anche in questo caso vi si accede da un varco privato, il cancello di una società sostituitasi da qualche anno a quella longeva di molitura. Ma resta la collinetta nella quale fu scavata, simulacro delle estese alture di tufo esistenti prima della distruzione del paesaggio naturale e archeologico. Fu scoperta nel 1674 e per fortuna l’incisore Pietro Santi Bartoli ne disegnò la facciata e gli affreschi interni in trentacinque tavole. Perché quella stessa facciata – in marmo e a forma di tempietto – fu abbattuta, obliterando anche il nome di Quintus Nasonius Ambrosius, che fece erigere il monumento funebre nel quale si pensò anche che fosse sepolto Ovidio. Santi Bartoli cronisticamente ne testimonia la distruzione: ecco due quasi luciferini operai che si danno da fare con i picconi per buttare giù il frontone, eccone altri che portato fuori dal mausoleo una cassa da sepoltura. L’incisore ci permette anche di ricostruire il raffinato ciclo di affreschi che decorano l’ambiente rettangolare, con la volta a botte, articolato in tre nicchie in ciascuno dei lati lunghi e nella parete di fondo. Riquadrature in stucco scandiscono la complessa decorazione pittorica, riprodotta nei disegni di Santi Bartoli grazie a pannelli esplicativi. Sicché sappiamo che gli affreschi alludevano all’aldilà, rasserenando con la speranza di un luogo di beatitudine, e alle alterne vicende della vita. Ecco allora la parata di personaggi mitologici, da Paride ad Edipo, alla Sfinge, al cavallo alato Pegaso. E fino alla guerra di Troia, per gli antichi un’allegoria dell’esistenza umana, con le sue vittorie e sconfitte.

Oggi poco rimane delle pitture, staccate da papi, cardinali e tombaroli: al cardinal nepote di Clemente X Altieri, il potentissimo Paluzzo Paluzzi degli Albertoni, fu consentito di strappare tre frammenti di affreschi, poi sistemati nella sua villa all’Esquilino (di lui Pasquino si chiedeva sarcastico: «Qual di loro fosse papa io non so bene, ché il primo ebbe il potere e l’altro il nome»…). Sul “mercato antiquario romano” poi – riferisce Piranomonte – furono acquistati altri sei frammenti, finiti nel 1883 al British Museum. E però quel che resta incanta, anche grazie alla nuova illuminazione a led. «Qui c’è la testimonianza dello sterminato patrimonio da valorizzare nel suburbio di Roma», sottolinea l’archeologa. E vagheggia l’istituzione di un circuito sulla via Flaminia, peraltro servito dalle fermate della ferrovia: potrebbe partire dalla fonte di Anna Perenna ai Parioli e proseguire con la villa di via Tortora, i resti della Battaglia di Ponte Milvio e dell’edificio tardo antico decorato con preziosi mosaici recentemente scoperto al di sotto, sul greto del Tevere. Il tour potrebbe toccare l’Auditorium Parco della Musica, dove durante la costruzione vennero rinvenuti i resti di un edificio agricolo, la Tomba di Macrino, l’arco costantiniano di Malborghetto, la Villa di Livia a Prima Porta, il luogo di otium dell’imperatore Augusto. A conclusione, appunto, i due mausolei di Saxa Rubra che verranno aperti al pubblico una volta al mese, a partire da dicembre (info sul sito della Soprintendenza Speciale di Roma Archeologia Belle Arti Paesaggio).

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