Luca Fortis
Alla Triennale di Milano

L’anagrafe razzista

Nell'anniversario delle leggi razziali del fascismo volute da Benito Mussolini, una mostra ricostruisce l'orrendo percorso burocratico che portò alla schedatura degli ebrei (e poi alla loro deportazione)

In occasione dell’ottantesimo anniversario delle leggi antiebraiche è stata inaugurata alla Triennale di Milano la mostra “…ma poi, che cos’è un nome?”. La mostra è stata organizzata anche grazie alla Cittadella degli Archivi del Comune di Milano, ne parliamo con il direttore Francesco Martelli.

Com’è nato il progetto?

La mostra sarà in Triennale fino al 18 novembre, giorno successivo all’emanazione, esattamente ottanta anni fa, delle leggi in difesa della razza ariana, volute da Benito Mussolini. A seguito di queste leggi, in ogni comune italiano vennero censiti tutti i cittadini, italiani e non, di “razza” ebraica o presunti tali, attraverso il meccanismo della denuncia o dell’auto-denuncia agli uffici di anagrafe appositamente istituiti. In circa due anni di lavoro noi di Cittadella, con quindici studenti e quattro docenti dell’Università degli Studi di Milano, abbiamo proceduto alla trasposizione in formato digitale di ogni dato contenuto in ognuna delle oltre 10.000 schede d’anagrafe del censimento milanese: nomi, cognomi, ascendenti e discendenti, benemerenze, luoghi di nascita, residenza e soprattutto, indirizzi al momento del censimento. Dati questi, che costituirono la base per le deportazioni iniziate nel 1943 e conclusesi con lo sterminio di oltre 300 cittadini milanesi. Tutti questi dati sono stati poi utilizzati per realizzare una geo-mappa della città di Milano, che consente per ogni ebreo censito, di individuarne l’esatta collocazione geografica e ogni dato contenuto nella corrispondente scheda. La mappa, consultabile dal geo-portale sul sito del comune di Milano, è stata chiamata “Censimento degli ebrei milanesi nel 1938” ed è stata realizzata grazie all’Assessorato alla Trasformazione Digitale presieduto da Roberta Cocco.

In che modo sono arrivate le schedature di dodicimila persone sospettate di essere ebree nel 1938, all’indomani delle leggi razziali? 

Il censimento milanese è non solo probabilmente il più grande dopo quello romano, ma anche uno dei pochissimi conservati fino ai giorni nostri e tra questi, certamente il più grande. Il motivo è semplice: il censimento fu “dimenticato” negli scantinati dell’anagrafe presumibilmente alla fine della guerra. Fu ritrovato quasi per caso nel 2007 e messo in salvo. È stato portato all’Archivio Civico e successivamente alla Cittadella degli Archivi che ne ha iniziato il restauro, il riordino e lo studio, in collaborazione con il dipartimento di studi storici dell’Università Statale di Milano. Il progetto è stato portato a termine anche grazie alla tenacia del dott. Emanuele Edallo, ricercatore e alla disponibilità del professor Antonino de Francesco, direttore del dipartimento, oltre al prof. Stefano Twardzick, docente di archivistica e al prof. Marco Cuzzi, docente di storia contemporanea.

Come è nata la collaborazione con la comunità ebraica?

Dopo alcuni mesi di lavoro sul censimento, abbiamo iniziato una collaborazione con il centro di documentazione ebraica contemporanea (CDEC) diretto da Gadi Luzzatto Voghera, che ha portato alla realizzazione di questa mostra curata, oltre che da Emanuele Edallo, da Laura Brazzo e Daniela Scala del CDEC, con l’allestimento degli architetti Guido Morpurgo e Annalisa De Curtis e con la consulenza grafica di Giorgia Lupi e dello studio Accurat. La collaborazione con CDEC ci ha permesso, grazie anche alla disponibilità encomiabile di Stefano Boeri, presidente della Triennale di Milano e di “Milano è Memoria”, di realizzare un’imponente installazione esposta proprio nell’atrio della Triennale, che riporta tutti i nomi di tutti gli ebrei censiti attraverso una visualizzazione grafica raffinata e innovativa, che fa di questa mostra la prima nel suo genere. È la prima volta che una mostra su un fondo d’anagrafe archivistico viene esposta in una sede normalmente destinata al design, attraverso una modalità di visualizzazione intuitiva e colorata, senza nulla togliere alla drammaticità degli eventi che rappresenta e con l’intenzione di raggiungere un pubblico più ampio e nuovo.

Gli archivi possono contenere carte che raccontano storie positive, ma anche testimonianze tragiche, come si sente a essere il custode delle prove che ricordano una storia così buia per Milano e per l’Italia?

Il mio ruolo, in qualità di direttore della Cittadella degli Archivi, è quello di custodire ogni documento indipendentemente dalla sua “positività o negatività”, che peraltro tale diviene spesso a seconda dell’evolversi degli avvenimenti storici. E mi spiego: l’archivio nasce dalla necessità contingente di tradurre in atti amministrativi volontà politiche. Col trascorrere dei decenni questo mero deposito si trasforma suo malgrado in fonte storica. Ciò che mi ha impressionato particolarmente di questa mostra è stato vedere come centinaia di persone fossero al contempo commosse, emozionate ed elettrizzate dall’essere in rapporto con carte vecchie di ottant’anni e dimenticate da decenni. Il ruolo della conservazione è proprio rafforzare il legame tra le generazioni attraverso la trasmissione del sapere.

Mi racconta l’incontro con la senatrice Liliana Segre?

“Guai se non ci fossero queste ricerche profonde fatte da persone di buona volontà che consentiranno ai figli dei nostri nipoti di ritrovare un nome”, queste parole, pronunciate dalla Senatrice proprio all’inaugurazione della mostra, ci hanno ripagato di tutto il lunghissimo e paziente lavoro di questi due anni. Liliana Segre è una persona che definire incredibile è fin troppo facile. Una novantenne dalla simpatia, dall’energia e dallo spirito quasi di una adolescente, che trasmette paradossalmente una grande gioia di vivere, una grande energia, un grande entusiasmo per la vita, per nulla in contrasto con  il dramma atroce che ha vissuto e che instancabilmente testimonia. Fa venire in mente la vicenda biblica di Coré: gli inghiottiti dalla storia e dalla terra che sopravvivono per testimoniare.

Con quali altre iniziative culturali state collaborando?

Abbiamo in corso la mostra “Fontana ’72”, seconda del ciclo “In Archivio” da noi ideato e iniziato lo scorso marzo con la mostra sugli anni Trenta fatta dal Comune nel 1982 e che abbiamo realizzato grazie all’aiuto di “Collezione Iannaccone”. Si tratta di un ciclo di mostre documentali dedicato alle grandi mostre del passato, in collaborazione con la Cattedra di Storia dell’Arte Contemporanea dell’Università degli Studi di Milano. A fine mese poi presso l’Università degli Studi si terrà il convegno con mostra “Dall’Artico agli 8.000” con docenti da tutto il mondo e incentrato sul ritrovamento presso la Cittadella di documenti e fotografie inediti della pre-spedizione del Duca di Spoleto al gruppo montuoso del Karakorum.

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