Angela Scarparo
A proposito di “Buongiorno, mezzanotte”

Il mondo di Rhys

Adelphi ristampa una raccolta di racconti della scrittrice anglo-caraibica Jean Rhys: frammenti di vita in cui «l'uomo è crudele con le donne, e le donne lo sono fra di loro»

Anche se il libro è diviso in quatto parti (Prima, Seconda, Terza, Quarta), la divisione è totalmente arbitraria: non c’è, infatti, consequenzialità nei fatti descritti, non c’è trama che li leghi. La stessa storia può essere narrata due volte (come, per esempio, quella del bambino che le è morto); così come, che ci troviamo ad Amsterdam e non a Parigi, lo capiamo solo dopo qualche riga. Il modo in cui sono assemblati gli episodi, alla fin fine non ha poi neanche troppa importanza, perché il bellissimo libro di Jean Rhys (Buongiorno, mezzanotte, traduzione di Miro Silvera, Bompiani, 1991, Adelphi, 2018) non fa altro che mostrare, egregiamente, come la narrativa non sia, a volte, che una delle tante modalità di cui l’essere umano si serve per non andare in pezzi.

Pubblicato per la prima volta nel 1939, è composto di racconti chiusi (e, a volte, riaperti qualche pagina dopo), frasi spezzate (che possono, o no, riferirsi a testi precedenti), poesiecanzoni: il tutto si somma a considerazioni (più o meno arbitrarie), brevi liriche. E se i racconti di cui parlo potrebbero essere intitolati così: La volta in cui il proprietario del negozio dove lavoravo, mi chiese di portare una busta al cassiere, e io non trovai la cassa, o, La volta in cui, dopo essere andata con un uomo, mi caddero le mutande, per strada, La volta in cui scoppiai a piangere senza nessun motivo, La volta in cui le due ragazze inglesi, a Parigi, mi presero in giro in un bar e io non riuscii a rispondere, alcune “parti” brevi vale la pena di riportarle, tanto sono belle.

Un ritornello durante la visita, a casa di un pittore, per comprare un quadro:
Malattia d’amore,
Malattia di gioventù
Va’ lontana da me,
Sta’ lontana da me,
Non ti voglio vedere,
Mai più, mai più

Una risposta, non data, alla padrona di casa: «”C’era un monsieur”, dice la padrona. C’era un monsieur, ma il monsieur non c’è più».

I fiori alla finestra, in un momento di tranquillità: C’è un po’ di vento, e i fiori alla finestra, come la loro ombra, ondeggiano come cigni che affondano il becco nell’acqua. Come l’imprevedibile rialzarsi della loro testa, inutile e violento, per un attimo prima di affondarla giù, nell’oscuro. Come teschi su lunghi colli sottili. Affondano violentemente al soffio del vento, verso l’orlo della tenda che è il loro nulla. Si contorcono, affondano (il corsivo, qui, è mio ndr). Che cosa è una bella stanza, e a cosa serve: Una bella stanza? Una stanza?… Meglio tacere sulla verità di questa faccenda delle stanze, è una verità pericolosa, potrebbe far esplodere l’intera baracca, minare il sistema sociale. Le stanze sono tutte uguali. Hanno tutte quattro pareti, una porta, una o due finestre, un letto, una sedia e alcune hanno anche un bidet. Una stanza è un posto dove stare al riparo quando i lupi impazzano per il mondo, null’altro, una stanza non è che questo, un rifugio. Perché mai dovrei preoccuparmi per le stanze, perché cercare di cambiare rifugio? (anche qui, il corsivo è mio, ndr).

Questa specificazione sull’uso che l’autrice fa dello spazio che ha a disposizione (“le pagine”, nei suoi “quaderni con la copertina nera”), l’ho fatto perché in molti e molte hanno parlato di “flusso di coscienza”, a proposito della sua scrittura. Ora, a meno che non si pensi al flusso di coscienza come a una raccolta, arbitraria, di “materiali vari” (cosa che non è), Rhys per raccontare si serve di una lingua semplice, comprensibile. Ed è, anzi, proprio attraverso il linguaggio che il reale assume una sua chiarezza. È attraverso il linguaggio che tutto si ricompone: le giornate, come gli esseri umani. Ed è solo attraverso il racconto che si trova la forza di continuare a vivere. I pensieri, non solo sono rappresentati in frasi di senso compiuto, ma tutta la narrazione, breve o lunga che sia, obbedisce a una sorta di finalità dimostrativa.

Sono storie, al di là della lunghezza, quasi sempre con una morale, le sue («l’uomo è crudele con le donne, e le donne lo sono fra di loro», è una di quelle che lega più vicende) in cui nulla viene, mai, a intralciare o a interrompere il senso di liberazione che dà il racconto. È tutto talmente tragico che la protagonista trova nell’ironia la chiave della salvezza. Certo, gli accostamenti sono arbitrari, la scelta dei soggetti non privilegia gli esseri umani, donne o uomini che siano. C’è il racconto «del gatto con gli occhi cattivi che si rifugiò da me, e poi morì sotto una macchina, pur di non tornare dalla sua padrona, che lo maltrattava». Ci sono le case, che guardano gli esseri umani come se fossero poliziotti.

C’è l’altro racconto: quello «della figlia che accompagna la madre calva a comprare un cappello»: litigheranno, naturalmente davanti a tutti. E poi, quello «delle due americane, ricchissime e mai contente» cui la protagonista è costretta, per lavoro, a fare da guida: verrà licenziata.

Sul contenuto. Rhys non inventa niente, dice la critica: è proprio la sua, quella vita da “esclusa”, da “abbandonata”, da “sfortunata”, da “rifugiata”, da “ballerina di fila”. Certo, il racconto è narrato in prima persona. Certo, anche Jean Rhys (il cui vero nome era Ella Gwendolen Rees Williams, nata ai Caraibi nel 1890, arrivata giovanissima in Inghilterra e qui morta nel 1979) è stata ballerina, ha vissuto l’infanzia in un paese caldo, ed è emigrata giovanissima: proprio come le protagoniste dei suoi romanzi. Ma nella letteratura come si sa, è il punto di vista scelto, quello che conta. Sicuramente, per lei, è solo nell’estrema chiarezza del linguaggio che si trova la vera salvezza. Al di là del contenuto, così come della forma, delle storie narrate.

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