Roberto Verrastro
A proposito de “The spy and the traitor”

Il tempo delle spie

Grazie a una lunga intervista, Ben Macintyre racconta la storia di Oleg Gordievsky, agente del Kgb affiliato, in segreto, dagli inglesi. Una pezzo di storia della Guerra fredda che sembra un romanzo d'appendice

«Nel paranoico stato di polizia di Stalin, denunciare qualcun altro era il modo più sicuro di garantirsi la sopravvivenza». In quello stato, Oleg Gordievsky nacque il 10 ottobre 1938 per fare tesoro di un simile principio, come racconta lo storico britannico ed editorialista del Times Ben Macintyre nel suo The spy and the traitor (Penguin, 384 pag., 14,53 euro, ebook 9,56 euro), pubblicato dopo più di venti incontri e oltre cento ore di conversazioni registrate che, negli ultimi tre anni, hanno messo l’autore di fronte al protagonista del volume, che ha da poco compiuto 80 anni e vive sotto falso nome in un luogo protetto nel Regno Unito. Il padre di Oleg Gordievsky, Anton, lavorò tutta la vita per il Kgb, «la più complessa e articolata agenzia d’intelligence mai creata» che, al culmine del potere, disponeva di oltre un milione tra agenti e informatori impegnati ovunque nel mondo a raccogliere, comprare o rubare segreti militari, politici e scientifici.

Come per il padre, anche per Oleg farne parte fu una questione di ammirazione e di orgoglio, procurati dall’appartenenza a un club esclusivo di guardiani del comunismo. Ma nella sua famiglia, che risiedeva a Mosca, Oleg intuì per la prima volta la possibilità di una doppia vita. Anton Gordievsky, scrive Macintyre, «era dentro di sé un uomo piccolo e terrorizzato, che era stato testimone di eventi terribili», come le grandi purghe che dal 1936 al 1938 liquidarono i presunti nemici dello stato, che morivano sotto il fuoco incrociato delle denunce necessarie a sviare da sé il sospetto di non essere convinti sostenitori del regime, in cui era illegale qualsiasi culto religioso. Divieto che costrinse la nonna materna a fare battezzare segretamente dalla chiesa ortodossa russa il fratello maggiore di Oleg, Vasili, nato nel 1932, così come avrebbe fatto anche con Oleg, se Anton non lo avesse impedito. Nel 1953 Stalin morì e quando tre anni dopo, al XX congresso del Pcus, il suo successore Nikita Kruscëv ne denunciò i crimini, ad Anton Gordievsky non piacque il modo in cui l’Unione Sovietica stava cambiando. «Ma a suo figlio sì», sottolinea Macintyre.

All’epoca di quel congresso, il diciassettenne Oleg Gordievsky studiava a Mosca all’Istituto per le relazioni internazionali, la più elitaria delle università sovietiche, definita da Henry Kissinger «la Harvard russa», dove venivano insegnate ben 56 lingue straniere: la preparazione perfetta per gli agenti del Kgb e per Oleg, che fin da piccolo si era cimentato ottimamente con il tedesco. Il fratello Vasili, che era già nel Kgb, gli consigliò:«Studia lo svedese, è la porta per il resto della Scandinavia». Grazie a Vasili, Oleg fu arruolato dal Kgb nel 1961 e inviato a Berlino Est il 12 agosto di quell’anno, rimanendo impressionato sfavorevolmente tanto dal Muro di Berlino in costruzione, quanto dalla sua prima missione di ragazzo appena 22enne, ingenuamente convinto che nel mondo dello spionaggio esistano gli amici. Gli fu chiesto di recarsi da una donna tedesca, ex informatrice del Kgb, per scoprire se fosse ancora disponibile a collaborare. Oleg si presentò alla sua porta con un mazzo di fiori e, sorseggiando con lei una tazza di tè, verificò che la donna era di nuovo della partita. Impiegò mesi a capire cosa fosse successo: «Ero stato messo io alla prova, non lei». Una trappola per svelare se lontano da Mosca il «fidato» agente Gordievsky dichiarasse a qualcuno potenzialmente disilluso la sua vera opinione sul comunismo.

Il libro di Macintyre è la puntuale narrazione di un’opinione taciuta che Oleg Gordievsky lasciò trapelare dai fatti. All’università a Mosca, Oleg aveva fatto amicizia con il cecoslovacco Stanislaw Kaplan, che aveva un anno più di lui e divenne un agente segreto del suo Paese, pur condividendo con Oleg lo scetticismo sul comunismo. Nel 1968, dopo la Primavera di Praga, Kaplan sparì dalla Cecoslovacchia e riapparve in Francia, mettendosi al servizio dell’intelligence transalpina prima di stabilirsi in Canada. La sua storia finì in un dossier dal nome in codice «Danicek» sulla scrivania di Geoffrey Guscott, pseudonimo dell’ufficiale dell’MI6 britannico addetto al reclutamento di spie cecoslovacche. I servizi segreti canadesi, che informarono della vicenda Kaplan anche la CIA, avevano strette relazioni con l’MI6, che da Londra inviò un agente per interrogarlo. Fu il vaso di Pandora della guerra fredda: Kaplan fece circa cento nomi di agenti interessanti per i servizi segreti occidentali. Erano quasi tutti cecoslovacchi, tranne cinque russi, tra i quali il suo vecchio amico Oleg Gordievsky. Un nome già noto a Guscott, informato dall’intelligence danese dell’arrivo di Gordievsky a Copenaghen nel 1966, in veste di diplomatico. Una microspia piazzata nel suo appartamento rivelò che il matrimonio di Oleg con la prima moglie, Yelena, era talmente in crisi da indurlo all’acquisto di riviste pornografiche di genere gay, esponendosi così all’arruolamento coatto da parte dei danesi con un maldestro tentativo di ricatto che andò a vuoto.

Nel gennaio 1970, Gordievsky rientrò a Mosca. Guscott lo giudicò persona d’interesse nel caso di un suo ritorno in Occidente. Che avvenne nel 1972. Il 24 settembre 1971, il governo britannico espulse 105 agenti sovietici. Come i danesi, gli inglesi monitoravano diplomatici, giornalisti e agenti di commercio stranieri, per distinguere quelli autentici dalle spie. Mosca fu colta di sorpresa e rimediò nominando quale nuovo responsabile del Kgb per il Regno Unito e la Scandinavia il rude Dmitri Yakushin, che rispedì Gordievsky in Danimarca, dopo il funerale di suo fratello Vasili, nel frattempo morto alcolizzato a 39 anni. L’MI6 lo avvicinò a Copenaghen dapprima tramite il suo amico Stanislaw Kaplan, che accertò che Gordievsky non avrebbe riferito al Kgb il suo incontro imprevisto con un traditore anticomunista: il segnale più atteso dall’MI6. L’astuzia di Gordievsky fu invece di riferire a Yakushin la sua riluttanza a incontrare in seguito un certo Richard Bromhead, pseudonimo di un agente dell’MI6 da cui era stato invitato a pranzo. Yakushin cadde nel tranello e autorizzò l’incontro, aprendo la falla utile a Gordievsky per passare al servizio dell’MI6 senza che Mosca dubitasse della sua fedeltà.

Da allora, Gordievsky fornì all’Occidente per una dozzina d’anni un’immensa quantità di segreti sulle strategie del Cremlino e sulla dislocazione delle sue reti spionistiche, diventando capo stazione del Kgb a Londra. Nemmeno Ronald Reagan e Margaret Thatcher, che lo chiamava «Mister Collins», per quanto informati delle sue imprese, conoscevano la sua vera identità. La CIA quindi, curiosa di sapere chi fosse la talpa dell’MI6 tra i sovietici, fece un errore marchiano affidando nel 1985 il compito ad Aldrich Ames, il traditore del titolo del libro, un agente che si era venduto per 4,6 milioni di dollari proprio al Kgb e aveva anche trascorso un periodo a Roma (oggi sconta l’ergastolo in un carcere dell’Indiana). Gordievsky, che secondo Macintyre agiva per convinzione ideologica, fu richiamato a Mosca e il 14 novembre 1985 un tribunale militare lo condannò a morte in contumacia: il leggendario MI6 era riuscito a esfiltrarlo in tempo attraverso il confine finlandese.

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