Valentina Fortichiari
Il nuovo romanzo di Paola Mastrocola

Esercizi d’inesistenza

È il libro migliore, il più maturo, ricchissimo di suggestioni, dell’autrice torinese. Che sa avvolgere il lettore nella felicità della sua scrittura, narrando, attraverso la vicenda del piccolo protagonista, un’umanità bambina, ancora capace di inventare storie, sogni e miti

La felicità dello scrivere può raggiungere a volte un tale stato di grazia, che la lettura di un libro dove le parti sono in perfetta armonia (storia, personaggi, stile) crea l’illusione di ascoltare dal vivo una voce narrante. La presenza dell’autore c’è e si sente tanto più quando i tratti identificativi sono marcati, peculiari: diventa allora una presenza concreta, reale, palpabile. È e resta con noi mentre entriamo nel libro, ovvero – a sipario aperto – nello spettacolo che prende forma sotto i nostri occhi. Percepiamo, odoriamo, guardiamo ogni sfumatura, ascoltiamo ogni conversazione, ogni dialogo, sfioriamo i volti, ci indigniamo, ci viene da sorridere oppure da ridere, ci commuoviamo a seconda dei passaggi, dei colpi di scena, persino dei trabocchetti. Ma riconosciamo ogni volta particolari che ci sono familiari: lo scrittore sa tenerci in pugno, dall’inizio alla fine, noi che vorremmo la storia procedesse lenta, non toccasse mai l’epilogo; sa dosare ironia e dolore, gioco o finzione, aggiunge pennellate di paesaggio dove ci fermiamo per un momento estasiati, queste per esempio: «tutta la luce del giorno se n’era andata. Di nuovo quel buio addosso che chiamiamo notte»; «la sera decembrina si colorava di luci intermittenti e di una nebbiolina opaca, madreperlacea, che ricopriva le case, le strade, i passanti, intrideva d’umido i cappotti e i capelli».

Paola Mastrocola usa – con gioia – la sua tavolozza ricca di colori e di tonalità, possiede la capacità di stupire o di calmarci, persino di turbarci. E poi, di colpo, ci viene alle spalle e ci sorprende; ma, anche se non la vediamo, le parole che sceglie, aggiungendo – se non bastassero – sinonimi, dettagli, puntualizzazioni, con la leggerezza di un burattinaio esperto, la svelano e rivelano, la definiscono. Ed ecco la voce, il marchio inconfondibile, la cifra doc in piccoli passaggi, apparentemente seminati a caso, in un bisbiglio, ma sono verità semplici e profonde: «Come si fa a sapere, a immaginarsi con precisione le cose che verranno o non verranno? I sogni hanno i bordi così indistinti»; «Leone con il sonno ancora tutto legato agli occhi, che non riusciva a levarselo»; «Via Palmetti 44 era una casetta di due piani alta e stretta, incastonata tra due condomini di dieci piani. Vista da lontano, sembrava il buco di una bocca a cui manca un dente». C’è grazia in queste immagini, sono lampi, metafore, modi di guardare sottilmente originali, lievi come piume.

Il nuovo romanzo di Paola Mastrocola, Leone (Einaudi, 226 pagine, 18.50 euro), è forse il suo libro migliore, maturo, ricchissimo di suggestioni. Pur racchiuso nella durata di alcune settimane (la pioggia se ne mangia tre, addirittura 21 giorni consecutivi, e l’epilogo porterà la «grande calma bianca» del Natale), le vicende di un bambino e della sua famiglia, il microcosmo di una classe scolastica, di un gruppo di umanità, paiono distendersi lungo anni, anni che noi lettori conosciamo, dal momento che nostri, anzi universali, sono i gesti minimi quotidiani, i sentimenti, i desideri, le debolezze, gli stupori dell’esistenza. Il fatto è che quasi sempre viviamo forse ignari, senza stare attenti ai pensieri che ci accompagnano, ed è in questi sottili territori dell’inconscio, o della coscienza di pochi, che Paola afferra tutto, tutto guarda e racconta.

Se Leone che ha sei anni si mette a pregare ovunque si trovi (ma chi si è accorto che le sue sono storie, non preghiere?), e la sua mamma, sempre troppo trafelata, distratta, prima lo spia, poi lo lascia pregare ma spera solo che finisca presto, che «quella cosa» duri poco, che cosa si può fare di fronte a questa strana faccenda del vivere che spiazza tutti? Prima di tutto il piccolo medesimo: quando la nonna (perché è stata lei a insegnargli a pregare!) gli raccontava di Gesù, di Giuseppe e Maria, l’asinello e i pastori, Betlemme e l’orto, e doveva ripetere all’infinito, come si fa coi bambini che vogliono intontirsi di favole sul limitare del sonno, lui «non capiva tutto, ma qualcosa gli arrivava, quel qualcosa che sta dentro le parole e va ben oltre il senso, e ha a che fare col suono, col mistero». E qui Mastrocola parla anche al lettore e rivela un segreto: dietro le parole (anche le sue) c’è molto di più, e sta a noi lettori immaginare e creare il mistero delle storie, lo stupore dei miti, la fantasia di una umanità bambina per comprendere, afferrare l’incanto del mondo, anche dove apparentemente c’è il suo contrario.

Ci tira dentro il suo libro Paola Mastrocola, delicatamente, a volte con forza, dentro e dietro le parole perché noi pure si arrivi a leggere e vedere, forse creare con lei persino il non detto. Il mistero di un bambino e della sua sofferta solitudine e diversità, lo stare al mondo in disparte, appagato da un universo interiore senza limiti, assai più felice. E se i compagni di classe, gli adulti, la maestra, la madre, e un padre che non c’è mai, lo tengono un po’ lontano, quasi lo temono, non riescono a comunicare con lui, a entrare nel suo mondo, tutto questo non ha nessuna importanza. Leone fa finta di non esserci, mette in atto il suo sistema di non esistere, o di esistere il meno possibile, e sa come salvarsi. Esercizi di inesistenza, li definisce l’autrice. Leone sa bene che, quando si prega Gesù bisogna parlare di cose serie, fare domande serie e non chiedere sciocchezze; quando si fanno gli esercizi di coscienza come gli ha insegnato la nonna, le lenzuola colorate inaugurate dalla mamma non vanno bene, distraggono, si ha bisogno di quelle candide, come i pensieri, come la neve che sta per arrivare. Il piccolo Leone vive nel suo microcosmo appartato e guarda le persone: in un pugno di anni ha imparato che adulti e coetanei fanno cose astruse, a volte insopportabili, cambiano idea di continuo e sanno ferire, ma, con la leggerezza delle nuvole, sa anche correre lontano per evitare tutti, per sottrarsi al male, ogni volta più che mai deciso, come le nuvole, e sapendo con esattezza dove andare.

L’unica che, placata infine con se stessa e con la vita, in fondo al cuore finalmente guarda e vede Leone «come se riuscisse a indovinare anche l’uomo che sarebbe diventato» sarà Katia, la sua mamma. Il perché è facile capirlo: perché solo alle madri accade di avere una specie di “visionarietà” dove si azzera il tempo e non esiste più passato né futuro. Tutto accade in un attimo, che non si chiama presente, «forse si chiama figlio e basta». Nel congedo che commuove, Paola Mastrocola avrà racchiuso ricordi, pensando a sua madre, alla quale non a caso ha dedicato il libro.

 

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