Francesco Arturo Saponaro
Al Parco della Musica di Roma

Auditorium in musical

“West Side Story” di Leonard Bernstein inaugura la stagione 2018-2019 dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia a Roma. La bacchetta di Antonio Pappano, il coro di Ciro Visco e un cast internazionale si rivelano brillanti, travolgenti e convincenti

Un musical, sia pure in forma di concerto, per inaugurare la più importante stagione sinfonica italiana? West Side Story, uno dei musical più famosi, da tempo ascritto fra i classici della modernità, e affidato stavolta alla bacchetta di Antonio Pappano, ha aperto con successo il nuovo cartellone di Santa Cecilia, nel Parco della Musica in Roma. Per celebrare il centenario della nascita di Leonard Bernstein (1918-1990) – il geniale direttore d’orchestra, compositore, pianista, divulgatore statunitense – l’Accademia ha aderito a Bernstein at 100, catena internazionale di eventi dedicati alla ricorrenza. E ne aveva ben donde. In oltre 40 anni, e soprattutto tra il 1981 e il 1989, si contano ben 25 presenze di Bernstein nelle stagioni ceciliane, sul podio di orchestra e coro. Presenze che si sono addensate nello storico periodo della presidenza di Francesco Siciliani, che così grande lustro guadagnò all’Istituzione. Tanto che Bernstein, dal 1983 alla morte, accettò volentieri la carica di presidente onorario della prestigiosa orchestra. E oggi in Auditorium una mostra fotografica, dagli originali di Galliano Passerini, illustra i molti momenti della partecipazione artistica di Lenny a Santa Cecilia.

Va ricordato che l’omaggio a questo centenario Santa Cecilia lo ha avviato già dallo scorso febbraio, con un Festival Bernstein che ha presentato, in due serie di concerti diretti anche questi da Pappano, l’esecuzione delle tre sinfonie e di altre pagine del musicista americano. Un doveroso tributo al Bernstein come degno e originale compositore “classico”, che oggi finalmente, anche per quei lavori e non soltanto per il celebre musical, è apprezzato come merita. Ma non è stato così finché egli fu in vita, almeno nel nostro paese, provinciale com’è, che lo richiedeva anzitutto come direttore d’orchestra e, con aperta sufficienza, ospitava anche le sue composizioni. Le avanguardie settarie di certa musica contemporanea, e i loro portavoce nei media, mal celavano il fastidio verso il linguaggio delle musiche di Bernstein, con la loro immediatezza e comunicabilità. E non perdonavano a Lenny il successo, il suo infischiarsene delle correnti intellettualistiche, l’eclettismo compositivo che non puniva il pubblico, al quale anzi piaceva. Tanto che, come ricordò Nicola Piovani nella presentazione dei concerti dello scorso febbraio, alla morte del grande artista il critico di un importante quotidiano radical-chic giunse addirittura a scrivere: «rimpiangiamo il grande direttore, non certo il compositore».

A rendere straordinario quest’allestimento di West Side Story c’è anche il fatto che, fino a qualche tempo fa, la Fondazione Bernstein di New York non autorizzava le esecuzioni in forma di concerto, ma soltanto il musical integrale, completo delle danze che furono coreografate da Jerome Robbins. Per le edizioni concertistiche, d’altra parte, erano disponibili ed eseguite la suite delle Danze Sinfoniche da WSS, e le riduzioni per pianoforte o due pianoforti. E invece adesso, in occasione del centenario, la Fondazione ha autorizzato solo sei orchestre al mondo – e, tra queste, quella di Santa Cecilia sotto la direzione di Pappano –  a riprendere l’attuale formula, già concessa pochi anni fa alla San Francisco Symphony Orchestra: esecuzione in veste di concerto, senza le danze, e senza i dialoghi che, in assenza di scena, avrebbero spezzato il ritmo. In sostituzione, proiezione di soprattitoli che riassumono succintamente la vicenda.

Scelta indovinata, quanto a Santa Cecilia/Pappano. Decisamente americano negli studi e nelle esperienze giovanili, quest’ultimo in effetti si avvicina a Bernstein nell’eccezionale capacità comunicativa. E, col suo straordinario talento, Pappano ha coinvolto solisti, orchestra e coro in un’esecuzione memorabile per l’energia, il perfetto accento interpretativo, la ricchezza di colori, i ritmi a volte travolgenti, i sinuosi disegni melodici. Insomma, un’immedesimazione drammaturgica che ha illuminato la musica in ogni sfumatura. E si è sentito benissimo che orchestra e coro si sentivano trascinati a pieno. Il suono dell’orchestra, senza viole come usa nel musical di Broadway, ma con uno schieramento di percussioni armato come di rado si vede, è risultato del tutto idiomatico, in linea con lo stile di questo teatro musicale. In gran forma il coro (istruito da Ciro Visco), diviso anche negli abiti, secondo la trama di West Side Story: da un lato le voci maschili dei Jets, dall’altro quelle degli Sharks, le due bande di quartiere; al centro, il coro femminile delle loro ragazze. Tanto che queste ultime, vestite con tagli anni cinquanta e colori sgargianti, come molte signore in orchestra, si sono visibilmente divertite e scatenate nei numeri di ballo, sia pure sul posto, cominciando dal celebre mambo.

Molto ben preparato il cast dei solisti, chiamati comunque a muoversi, anche in assenza di scenografia, per riprodurre in parte l’azione. I due protagonisti, epigoni di Romeo e Giulietta, erano il tenore Alek Shrader, Tony, e il soprano Nadine Sierra, Maria. Il capo dei Jets, Riff, era interpretato dal baritono Mark Stone, mentre il basso Andrea D’Amelio era Bernardo, leader degli Sharks. Molto vivaci e in ruolo Tia Architto, Anita, e Aigul Akhmetshina, Rosalia. E altrettanto lodevoli Andrea Giovannini, Action, Kris Belligh in vari personaggi, Francesca Calò, Consuelo, Marta Vulpi, Francisca. È d’uopo osservare, tuttavia, che la voce impeccabile di Nadine Sierra, splendida Maria anche nel suo physique du rôle, suonava liricamente timbrata, diversamente dagli altri interpreti che cantavano per lo più in voce naturale, essendo tutti lievemente amplificati. Al riguardo Bernstein osservò, dopo la “prima” del 1957, che era risultata giusta la scelta di cantanti non lirici e non di timbro professionale, perché si sarebbe compromesso il requisito indispensabile della gioventù e della freschezza. Il che non ha minimamente frenato l’entusiasmo del pubblico di Santa Cecilia, che ha avvolto direttore ed esecutori tutti con una lunga, unanime, meritata ovazione.

Facebooktwitterlinkedin