Lidia Lombardi
Itinerari per un giorno di festa

Museo Lotto

Da Macerata ad Ancona a Cingoli, da Mogliano a Urbino, da Recanati a Jesi, le Marche rendono omaggio al maestro veneziano che le scelse come sua seconda patria. Un cammino a tappe tra esposizioni diffuse seguendo la parabola umana e artistica del pittore che fu «il primo a essere sensibile ai sentimenti dell’animo umano»

Nel porticato della Palazzo Apostolico di Loreto – cantante perla del Rinascimento, con l’avvolgente “piazza” impreziosita dalla fontana del Maderno e protetta dalla cupola della Basilica della Santa Casa – si apriva l’ultima dimora di uno dei maestri del Cinquecento, Lorenzo Lotto. Che qui morì nel 1556, dopo un’esistenza ondivaga, in continuo trasferimento dal natio Veneto al centro dello Stivale, e molte delusioni. Il pittore che Berenson definì «il primo a essere sensibile ai sentimenti dell’animo umano» aveva fatto delle Marche la sua seconda patria: qui visse per lunghi periodi, qui ebbe numerose committenze, qui tornò dopo lo choc del soggiorno romano alla corte di Giulio II e lo scontento per vedersi anteporre a Venezia l’estro del Tiziano.

E qui sono rimasti 25 suoi capolavori, ora oggetto della coinvolgente mostra Lorenzo Lotto, il richiamo delle Marche (fino al 10 febbraio 2019), che si giova del curatore delle esposizioni al Prado di Madrid (chiusa a settembre) e alla National Gallery di Londra, Enrico Maria Dal Pozzolo. Il quale regala alla terra del Leopardi una rassegna rigorosa, con rarità e ipotesi attributive, ma anche lo spunto per un viaggio alla scoperta di paesi intatti punteggiati da gioielli architettonici. Una mostra pensata due anni fa, quando il terremoto aveva imposto la necessità di mettere in sicurezza alcuni dei dipinti lotteschi. Il resto era salvo, ma perché, si è chiesto Dal Pozzolo, non riproporre al mondo il “museo Lotto”, diffuso nella regione e unico al mondo? Eccolo allora il cammino in città gloriose per la storia, la letteratura, le arti italiane, un cammino a tappe seguendo la parabola umana e artistica del veneziano, personaggio schivo, geloso della propria ispirazione, incapace di venire a patti con le mode, il classicismo trionfante a Roma per esempio, e per questo caparbio a esprimersi fuori dai centri del potere più ingombrante, anche al prezzo di una perenne instabilità economica. Amato dai mercanti, dai nobili anche geograficamente più appartati, ma più liberi di chiedere un’arte intessuta di sentimenti. Amato dai religiosi, che si sentivano coinvolti dalla sua fede, capace di parlare ai semplici e ai dotti insieme. La rassegna si spalma – con l’attitudine ormai diffusa nel centro Italia di “consorziare” nell’impresa espositiva svariati comuni, affratellati anche dalla dolorosa contingenza del terremoto – nella provincia di Macerata, con un nucleo più consistente esposto nella città capoluogo e tappe da Ancona a Cingoli, da Mogliano a Urbino. Tra borghi, colline e mare.

L’alfa del rapporto di Lotto con le Marche è Recanati. Monaldo Leopardi – il padre-padrone dell’inimitabile Giacomo – ipotizza che già nel 1495 egli avesse frequentato i mercanti della Fiera, istituita da papa Martino nel 1421, a rimorchio del genitore probabilmente commerciante. Ma lo attira nel 1506, quand’è già famoso, il compenso di 700 fiorini offertigli dai Domenicani per realizzare un polittico nella Chiesa di San Domenico. Una cifra più che allettante, per la quale i religiosi chiedono supplicando un sussidio al Consiglio Comunale (il documento lo ritroveremo in mostra a Macerata). Il capolavoro è esposto a Villa Colloredo Mels, candida residenza nobiliare settecentesca immersa in un parco di fronte all’“ermo colle” e adesso sede dei Musei Civici. Lotto vi profonde tutta la sua maestria, attento al particolare, nelle trine delle vesti, perfino nell’anello del vescovo, un cammeo nel quale è inciso in miniatura il ritratto della Vergine. Ma nella cimasa raffigura drammaticamente la morte di Cristo, il corpo esangue, bianco, sul quale spicca il rosa della mano di Giuseppe d’Arimatea che lo sorregge. La Trasfigurazione incanta per la posa espressiva degli apostoli e forse si riunirà presto, in prestito temporaneo, alla predella conservata a San Pietroburgo ed esposta a Macerata. Ma lascia senza fiato la celeberrima “Annunciazione” (nella foto sopra), quella stanza dai dettagli quasi fiamminghi, con un gatto che occupa il centro, nella quale irrompe l’arcangelo Gabriele, tanto umanamente vibrante da disegnare sul pavimento la propria ombra, mentre una Vergine adolescente si ritrae quasi difendendosi con il palmo di entrambe le mani.

Angelo annunciante e Vergine Annunciata tornano simili nelle due tavole di un trittico (dispersa la parte centrale) che tiene banco a Jesi, la città di Pergolesi e di Spontini fiera per il suo teatro. Sono conservati a Palazzo Pianetti, sede del Museo Civico. Contenitore incantevole per la magnificenza del rococò che esplode nella galleria, una sorta di promenade invernale della nobile famiglia Pianetti affacciata con la fuga delle finestre sul giardino all’italiana e decorata con stucchi color pastello e intarsi dorati. Non basta: le sale replicano in affresco le Storie di Enea. E “proteggono” altri tre dipinti del Lotto: la Deposizione è come una sfida alla misura di Raffaello, specie in quella Madonna che si accascia scomposta mentre il pathos si accresce dal dialogo delle mani che la sorreggono; la Madonna delle Rose regala il tenerissimo dettaglio del Bambino che si protende verso il padre Giuseppe; la famosa Pala di Santa Lucia, ritratta con il dito proteso verso l’alto, verso Dio, irremovibile alla richiesta di abiura della fede da parte di Diocleziano, tanto che nelle scene della predella non riesce a smuoverla un tiro di sedici buoi.

C’è un altro imperatore “incriminato” da Lotto con la forza del pennello, in quel viluppo di rossi, verdi e azzurri che sono la sua cifra coloristica. È Tito, sistemato come carnefice insieme ai soldati pagani sul Golgota. L’anacronismo suona come condanna per la distruzione del Tempio di Gerusalemme ordinata dal regnante della famiglia Flavia. Ed è una delle chiavi di lettura politica della sensazionale “Crocifissione” (nella foto), che quasi invade per le sue dimensioni la piccola chiesa di Santa Maria in Telusiano. Siamo a Monte San Giusto, borgo adagiato su un poggio, tra due valli traversate da torrenti, operoso per le industrie delle calzature. E prezioso nelle sue architetture, su cui primeggia Palazzo Bonafede, con il suo cortile rinascimentale, una “camera picta” al pianterreno, una fascia con affreschi al piano nobile. Il nome lo deve al vescovo di Chiusi Niccolò Bonafede, che qui nacque e che volle adornare a più non posso il posto dove vide la luce. Fu lui a chiedere negli anni Venti del Cinquecento la tela al Lotto. Il quale la dipinse a Venezia e venne a Santa Maria in Telusiano per raffigurare dal vivo il committente nel frate in basso a sinistra. Mentre la composizione si sviluppa su tre piani e in forma piramidale con la disperazione di Giovanni, Maria e delle Pie Donne in basso, la turba dei soldati pagani in mezzo, Cristo e i Ladroni sulle croci in alto, sotto un cielo tragicamente nero.

A Macerata, sullo sfondo delle sale affrescate del settecentesco Palazzo Bonaccorsi – carismatico anche nel loggiato e nella terrazza che spazia lo sguardo sulla città – il corpus più consistente delle opere lottesche, (20 dipinti, cinque disegni, a confronto anche con opere grafiche di Dürer e Mantegna) preceduto dai documenti che spiegano la sua vita in fondo solitaria, a partire da quel “Libro di spese diverse”, ovvero il registro personale delle entrate e delle uscite tenuto negli ultimi anni. Spiccano le opere realizzate nelle Marche e sparse nel mondo. Tra le altre, da Berlino il San Cristoforo e San Sebastiano, due pannelli di un polittico disperso; dall’Ermitage di San Pietroburgo la Madonna delle Grazie; l’affresco staccato San Vincenzo Ferrer in gloria, da tempo non visibile a causa del terremoto che ha reso inagibile la chiesa di San Domenico a Recanati. Fino alla provocazione dell’ultima sala: una cornice vuota, quella che conteneva la “Madonna di Osimo” rubata dalla Chiesa dei minori osservanti nel 1911, lo stesso anno del furto della Gioconda. «A differenza del capolavoro leonardesco il dipinto di Lotto non fu mai recuperato, una ferita aperta nel patrimonio delle Marche», avverte Dal Pozzolo nel catalogo Skira.

Ultima tappa e omega della vita di Lotto, Loreto, la città dove, dice la tradizione, fu trasportata dagli Angeli dopo una sosta in Illiria la casa di Maria. In una sala appena riallestita del Museo Pontificio, le sette tele del Lotto che decoravano la Cappella del Coro all’interno della Basilica: tra di esse una commovente “Presentazione di Gesù al tempio”, considerata l’ultimo lavoro del grande veneto. «Opera terribilmente sola», ha scritto uno studioso. E che inquieta per i tratti enigmatici. Come misteriosa appare la grande tavola ricollocata dopo il restauro nella Basilica. Di questo “San Cristoforo con Bambino tra i santi Rocco e Sebastiano” non si conosce la committenza. Ma è suggestivo pensare che nelle figure il tormentato Lorenzo celi se stesso nelle diverse età della sua vita.

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