Raoul Precht
Periscopio (globale)

Misurato Arbasino

A rileggere il libro-monstre di Alberto Arbasino (“Fratelli d'Italia”), oggi se ne apprezza soprattutto l'aderenza a paese perso nella sua doppiezza: “È come un asparago: dipende da che parte lo mangi”

Le estati migliori sono quasi sempre quelle legate a un libro specifico, il più delle volte di dimensioni ragguardevoli, che viene rinviato di mese in mese fino al momento fatidico della cosiddetta vacanza, del tempo ritrovato, di quando ci si potrà sgombrare a sufficienza la mente. Si tratti d’un tomo di Joyce, di Proust, di Tolstoj, di Musil o, come in questo caso, di Arbasino, se tutto va bene la lettura diventa allora immersione in un testo-universo e si fa davvero totalizzante.

L’estate 2018 passa quindi alla mia piccola storia personale per avermi finalmente regalato appunto il tempo e l’inestimabile agio di dedicarmi a un libro-monstre di più di 1300 pagine che mi attendeva al varco, acquattato su uno scaffale della mia libreria, già da tempo. Parlo di Fratelli d’Italia di Alberto Arbasino, pubblicato dall’autore a più riprese, e passando per tre editori (Feltrinelli, Einaudi e Adelphi) una prima volta nel 1963, una seconda nel 1976 e una terza, per ora l’ultima, nel 1993 (ma il tomo cui rimando qui è quello del 2000), ogni volta in un’edizione riveduta, corretta e soprattutto di molto accresciuta e sviluppata, non tanto nel plot (quasi) inesistente, quanto per l’accumulo di materiali e l’aggiornamento dei bersagli della vis polemica arbasiniana.

Una volta tanto si può dare fiducia alla quarta di copertina, che giustamente segnala un libro smisurato e scatenato, e un autore al tempo stesso insolente, leggero e mobile. Tutto vero, sacrosanto; aggiungerei solo, se non fosse un termine purtroppo abusato, che Arbasino è anche uno scrittore geniale, e inoltre, checché se ne possa pensare a prima vista, misurato: misurato anche nella sua smisuratezza.

In questo romanzo-saggio totale, opera aperta e interminabile, più che un cerchio Arbasino descrive una spirale, con un andamento irregolare e arbitrario tale da suscitare continue sorprese e un senso di dinamismo. Non entrerò nel merito delle singole parti del libro, che fin dalla sua prima edizione si articola intorno a un viaggio dei giovani protagonisti per la penisola, con qualche puntata oltreconfine in grado di dare un’ulteriore spessore alla scarna vicenda e di precisare ancora meglio gli ideali estetici che Arbasino pesca nella sua sterminata cultura e le intense deplorazioni per lo stato delle cose e delle arti che questi stessi ideali gli ispirano. Quel che conta, del resto, non è la trama, ma semmai le chiacchiere e la chiacchiera di Arbasino, la sua capacità di rendere attraverso la scrittura un’oralità colta, quasi il residuo della conversazione d’antan (che è poi una sineddoche della vita vissuta) di cui oggi non siamo più capaci; non aveva torto insomma Giorgio Manganelli quando, con icastica ma esatta formula, lo definiva “conversatore scritto”. E questa conversazione, in buona parte, verte intorno alle cose della vita, appunto, al buono e cattivo gusto, alle scelte razionali o istintive, al kitsch cui non riusciamo a sottrarci, ai vezzi e alle pessime abitudini d’un paese sempre in ritardo e paradossalmente sempre all’avanguardia, soprattutto nel far trionfare l’idiozia. In questo senso la riscrittura senza fine, e interminabile, di Arbasino, il ritornare ossessivamente sul proprio testo per aggiornarlo, è quasi un atto dovuto, tante sono le forme nuove d’imbecillità e gli inediti cliché che è lecito e giusto catalogare e sanzionare letterariamente, partendo da un pulpito di colta frivolezza e d’ironico anticonformismo.

Prendendo le mosse dai suoi numi tutelari – Gadda su tutti, cui dedicherà L’Ingegnere in blu, e poi Palazzeschi, Longhi, Contini, Praz, tutti nomi di un Gotha alternativo rispetto al canone che impazza da decenni – e dalla loro prosa innovativa e scintillante, Arbasino parte all’attacco dei vecchi e nuovi soloni della letteratura, di coloro che nel Novecento hanno avvilito la lingua italiana espungendone ogni possibilità ludica, ogni fuoco d’artificio: “Qui viene fuori”, scrive già all’inizio (si fa per dire, il passo è a p. 117!), “la differenza fra scrittori e letterati!… Per chi inventa, e ha un’originalità, ha uno stile, è una festa!… sul testo!… Per chi traffica sulle opere altrui, o esegue lavori su ricetta, è impiego, è bottega, è confezione, è cucina… Altro che désir… Altro che edonismo e plaisir…” E alla fine del romanzo ribadisce, quasi a chiudere il cerchio: “Romanzieri e critici che paiono sempre sul punto di ammonire: non siamo mica qui per divertirci!” (p. 1348). Letterati immersi in un linguaggio notarile, burocratico, ripetitivo, triste, al quale gli italiani reagiscono prendendo giustamente a odiare la letteratura, tanto che certe sue forme, fra cui anche il povero romanzo, da noi proprio non attecchiscono: “Gli italiani rifuggono! Il Bildungsroman non si fa anche perché “formazione” o “educazione” o “insegnamento” fanno venire in mente soprattutto stronzate da cui liberarsi per sopravvivere…” (p. 808). Intanto, le anime belle dell’industria culturale si fanno tanti complimenti l’un l’altro, si spartiscono posti e prebende, collaborazioni e incarichi, “…all’ombra del racket dei premi letterari, che in Italia non servono davvero a segnalare o lanciare qualche novità… Sono ricompense per buona condotta, riconoscimento di servigi, contraccambio di favori, soccorsi ai bisognosi, coronamenti di carriere, estreme unzioni ai moribondi, parchi della rimembranza, musei di figure di cera…” (p. 1035). Ma mescolata all’acidità della necessaria polemica ecco che sotto sotto si fa strada, e finisce per imporsi, una certa malinconia per uno stato di cose che tale non dovrebbe proprio essere: “…giacché alla fine è poi la letteratura che conta, e rimane, e rallegra le domeniche della vita, mentre l’industria pesante e la burocrazia di partito opprimono le giornate feriali e corrompono ogni qualità dell’esistenza…” (p. 81).

Ma che letteratura può mai avere una nazione come la nostra, sembra chiedersi Arbasino, cosa possiamo pretendere da un paese pieno di contraddizioni, fantastico e catastrofico al tempo stesso, che “è come un asparago: dipende da che parte lo mangi”? (p. 546) Un paese in cui tutto, dalla politica alla vita di tutti i giorni, sembra essere perennemente votato a svolgere una funzione tragicomica, con degli accessi ed eccessi di grandeur che tentano vanamente di nascondere il nostro eterno senso d’inadeguatezza: “A me piace molto quando gli italiani si addossano tutte le colpe dell’imperialismo e del colonialismo e del capitalismo, come se discendessero da conquistatori e magnati, invece di aver perso tutte le guerre e aver vuotato orinali per i padroni da Numa Pompilio in poi…” (p. 383). Non ci prendiamo per i fondelli, ammonisce Arbasino, oppure se non abbiamo scelta facciamolo almeno in modo creativo, consapevoli di quanto stiamo dicendo e facendo e pronti, sempre, all’autoironia, a rifuggire i soliti luoghi comuni, ad attingere alle risorse della fantasia per superare una realtà intrinsecamente e gravemente malata.

Certo, in tutti i suoi libri – si pensi anche alle sue Interviste impossibili e perfino agli incontri con i contemporanei degli spesso dissacranti Ritratti italiani – Arbasino provoca, deborda, è un ironico e brillante affastellatore, un moralista che non predica ma s’indigna con misura; a volte, concediamolo, è anche prolisso e cede a un pizzico di retorica; altre l’umorismo corrosivo e il divertissement sembrano un po’ fini a se stessi. La sua prosa vive della commistione di generi, tanto da parere a volte più l’adattamento di un reportage giornalistico o magari d’una recensione, sia pure d’alta scuola, che non una forma davvero nuova e promettente di narrativa. L’altro difetto, a ben vedere, è l’assenza di una trama, ridotta a spina dorsale e niente di più, e di una dinamica vera fra le figure (più funzioni o finzioni narrative che veri e propri personaggi) che in fondo si limitano a conversare, in un dialogo che andando avanti assomiglia sempre più a un avventuroso monologo. Ma il tutto si inquadra in una scelta ben precisa, già accennata in prove precedenti e più brevi come ad esempio La narcisata e La controra, di abbandono del romanzo, tanto tradizionale quanto sperimentale, in favore di una forma ibrida, qui il romanzo-saggio-divagazione (colta, s’intende), che negli ultimi trent’anni va affermandosi sempre di più, e non solo da noi, e che forse è davvero la strada da percorrere, in tempi di morte del romanzo, se si vuole salvare quel che di buono dello stesso, malgrado tutto, resta. Di tutto questo Arbasino, sebbene la parola potrà farlo trasalire, è un vero maestro, uno dei pochi “padri” letterari che la mia generazione può annoverare e che di paterno ha peraltro pochissimo: non mette paletti, non dà esempi virtuosi, non fa discorsi illuminanti. Consapevole dei suoi (e dei nostri) limiti, supplisce semmai con l’abilità artigiana, con la fantasia, con il lampo di genio, con il rifiuto dei divieti. Per dirla con Palazzeschi, insomma, lasciatemi divertire…

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