Adriano Napoli
Ancora su “La compagnia delle anime finte”

La suprema finzione

Nel suo nuovo romanzo Wanda Marasco ha attinto a tutta la sua sensibilità poetica per comporre uno scenario che appartiene al teatro dell’eterno divenire, primitivo e attuale. In un racconto popolato di personaggi sospesi sulla soglia dell’attesa tra la vita e la morte

Come in un dormiveglia della vita affacciata sulla morte, Rosa veglia la madre Vincenzina appena scomparsa; ma è il corpo materno apparentemente immoto, con echi e sussulti, a suscitare in lei un lento risveglio della coscienza, a sprigionare il racconto. E come il mistero della vita, rispecchiantesi nel mistero della morte, il filo del racconto (un racconto che si dovrebbe leggere, come un antico cantare, con voce alta, furente e intenerita) si snoda incoerente, arbitrario e un po’ folle, fluendo dalla memoria tra intermittenze segrete e squarci del cuore. E forse per appressarsi al centro misterioso di questa storia intrisa di favola e crudezza, per lasciarsi compenetrare tra i tufi e le ombre spesse di una Napoli sotterranea e ctonia che cova sotto la luce della superficie e all’improvviso la ricopre come un sudario, occorre abbandonarsi alla musica, grave e impalpabile del linguaggio. Una lingua inventata (e quindi autentica), liquida e capillare che scava e disvela abissi di sogno e di vuoto sotto la patina cinerina del visibile. Parole pittoriche che rimandano echi sonori; parole musicali, indorate o abbruttite da un dialetto ruvido e ventrale, che suscitano sensazioni cromatiche: un programma sinestetico di rispondenze attraversa le pagine del racconto rastremate a un’essenza pulviscolare, sciogliendo le parole in pianto, e in canto.

Si potrebbe dire che Wanda Marasco (nella foto) in La compagnia delle anime finte, Neri Pozza, 240 pagine, 16,50 euro, clicca qui per leggere la recensione di Pier Mario Fasanotti) abbia attinto a tutta la sua sensibilità poetica e canora per comporre un disegno musicale, e costruirvi uno scenario, una quinta teatrale torva e policroma di ombre contrastanti per creare lo spazio rituale e catartico in cui la storia possa raccontarsi e ogni elemento di essa, figura o spettro creaturale, denudarsi nel suo peso, nel suo volume, nella consistenza e varietà delle sue forme. E del resto pertiene al Teatro il talento del molteplice e del metamorfico. Ecco dunque: questo libro che si presenta al lettore nella forma di un romanzo, sotto lo stemma di Apuleio e di Basile (e senza tacere, tra gli antigrafi più prossimi, il Domenico Rea di Ninfa plebea e soprattutto di Una vampata di rossore, dove la malattia diventa il sismografo delle crepe e fenditure che lentamente prosciugano la vita), è in realtà un abbacinante teatro dell’eterno divenire, un sipario proiettato sulla Storia e radicato nel mito, primitivo e pur tuttavia attuale; luogo supremo di mimesi e di finzione, trasudante di immanenza e brividante di trascendenza. Rosa, corteggiando la morte della madre, esce e rientra nella vita mediante l’attrito della memoria e del passato, scontrandosi con l’inerzia del corpo materno, con una sostanza acetosa e drammatica che la riporta al centro di sé; riscopre nel contrasto e nella ripulsa la radice viscerale di una compassione e di un destino, e con esso il tempo inscalfibile del dolore e della pazienza in cui la vita si ripete, identica e difforme. La compagnia delle anime finte, dunque: un titolo meravigliosamente evocativo fondato sull’antifrasi e la polisemia. Ché compagnia richiama una solitudine molteplice: una somma di esistenze gravitanti intorno alla protagonista e sfocianti in un unico sperdimento: Iolanda e il suo vestito sfilacciato come il sogno della vita; Mariomaria e le sue preghiere rovesciate; il padre seduttore che ritorna coronato da una luce di tramonto già sedotto da una malattia mortale; il cacciatore Sepe e la sua preda invisibile.

Vite che si addizionano, slegate e compartecipi, a comporre un totale che è la cifra di una solitudine irrevocabile. Anime che si sporgono alla vita per guardare di sbieco la morte, per rifletterne un pensiero già infinite volte pensato. Ma è soltanto l’immagine riflessa da uno specchio. Quello che muore resta; quello che vive è già passato. Che grandioso chiasmo la vita, la suprema finzione che intride di sé ogni sua fattura. E quindi, “Anime finte”, perché è finzione riaprire, come fa Vincenzina Umbriello, il sipario delle storie, ripetendo al cospetto di una platea distante come può essere una figlia dalla madre, lo spettacolo dell’esistenza con le sue lividure frammiste ai sogni, consapevoli che ciò che veramente accade è nascosto sotto la superficie (della città, dell’anima, del più fondo dei sentimenti) nel già che ci attende finché non ne ritroviamo la strada. Da qualche parte una monaca santa opera miracoli, ma non per noi. Gli altri si ostinano in una ricerca, levigati dalla solitudine. Come Psiche vegliamo il sonno altrui cercandovi un segreto e una carezza. Che è passata. Soltanto il mito resta, rattrappito a una consistenza di icona, di minuscole fotografie da custodire tra mutande e bigiotterie, sovrapposte e sospese come i sogni. Non resta che lasciarle passare, sospirando in sogno di afferrarle. Ma: finzione è anche plasmare, è costruire («io nel pensier mi fingo», Leopardi), solo che qui il “fingere” è declinato al passivo, è passato, è degradato ad aggettivo. È una forma condannata all’indistinto. Non è più un verbo, non muove nulla, non è neanche un nome che rimandi all’identità. È poco più di una maschera, per giustificare il dramma, il divenire impersonale delle cose che con una parola esaustiva e fallace chiamiamo Realtà. Anime finte dunque perché illudendosi di creare si lasciano plasmare: da un dolore, un’ingiustizia, una violenza brutale, una crepa nell’edificio pericolante di ciascuna esistenza. Non è forse paragonandola alle screpolature di un palazzo cadente che Vincenzina, ancora giovane e miss, comincia a rincorrere la forma del desiderio che la renderà, come un’anomalia, come una lenta agonia, donna e madre sospesa? Una Psiche popolana intenta a scrutare al lume notturno, sulla soglia dell’attesa, tra la vita e la morte, il dolore e il riscatto, la sazietà e la fame?

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