Marilou Rella
A proposito di “Attraversare i muri”

Marina Abramović, come una sfinge

Mentre Firenze le dedica una grande retrospettiva, è utile leggere l'autobiografia di Marina Abramović, un'artista che ha fatto della determinazione e della visionarietà il suo credo assoluto

La foto di copertina è assai eloquente. È un primo piano in bianco e nero di Marina Abramović, in tutta la sua conturbante e non canonica bellezza, e in tutta la sua fisicità statuaria estremamente solida e radicata in questo mondo (Attraversare i muri, Bompiani, 411 pagine, 19 Euro). Lo sguardo è profondo, penetrante, vigile e severo, ma al contempo accogliente. Marina non vede, guarda, e guarda oltre: sembra cogliere l’essenza più intima delle cose e delle persone, con una straordinaria empatia unita a una cifra visionaria tipica solo della grande Arte. Il suo non è mai uno sguardo distratto o narcisistico, è sempre presente a se stessa e agli altri (The artist is present è il titolo di una delle sue più recenti performance al MoMa) e questa postura è per lei una vera e propria missione. Sempre nella foto di copertina che ritrae il suo volto, il colletto rialzato della giacca ricorda una divisa militare, e sono infatti la disciplina e l’intransigenza a contraddistinguere la sua poetica in maniera spiccata. Come dichiara lei stessa nel suo Manifesto: «The artist should not have self-control about his life. The artist should have total self-control about his work».

Marina Abramović è dotata di un’inflessibilità interiore ferrea, quella degli asceti, che non è mai rigidità, bensì profonda e incondizionata apertura nei confronti di esperienze e dimensioni alternative. La sua spiritualità infatti è multiforme, una sintesi dei diversi modi di entrare in contatto viscerale con il proprio corpo e con la propria anima che ha appreso viaggiando per il mondo e incontrando le persone più variegate e lontane – dagli aborigeni australiani, ai monaci tibetani ai guru brasiliani, ecc. – si tratta di un multiculturalismo esperito sulla pelle, niente è retorico nella sua estetica, e tutto è epico. In gioco c’è sempre la sua intera esistenza, senza sconti o esitazioni. Quello che colpisce della sua vita e della sua arte (che sempre coincidono) è l’esperienza diretta, l’autenticità, la coerenza, la costanza, l’umanità profonda verso chiunque, l’immersione totale nel contesto in cui si trova, il rigore estremo, la purezza.

Leggere questo libro è come percorrere un cammino ostile e impervio, durante il quale però lei ci prende per mano, ci sostiene e ci guida, perché muore e rinasce ad ogni sua azione, trovando soluzioni creative e immaginifiche per ogni suo dolore, dal più banale e fisico a quello più profondo ed esistenziale, perché ama il mondo e lo odia anche, ma gestendo la rabbia in maniera costruttiva, saggia e sapiente.

Marina Abramović ci offre una grande lezione sulla possibilità concreta di “attraversare i muri”, una capacità umana innata e universale ma che va riportata alla memoria, e poi di nuovo appresa ed esercitata, religiosamente. Scrive ancora nel suo manifesto: «An artist should not be depressed. Depression is a disease and should be cured. Depression is not productive for an artist».

Come una sfinge, è solida e ben centrata, con le radici in terra e i suoi lunghissimi capelli corvini fluttuanti nell’aria: come una statua rappresentante una dea trasmette la forza tranquilla di una montagna. Nello stesso gesto abbraccia e supera lo stereotipo, è  femminista senza retorica. È martire e guerriera, la sua forza è la sintesi. Come lei stessa afferma: «The artist should give and receive at the same time».

Da pochi giorni è stata inaugurata a Firenze, a Palazzo Strozzi, una grande mostra retrospettiva a lei dedicata, dal titolo Marina Abramović. The cleaner (per informazioni, www.palazzostrozzi.org/mostre/marina-abramovic).

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