Riccardo Bravi
Cartolina dall'Estremo Oriente

Ombre del Vietnam

Il Vietnam è il luogo dell'attesa: un paese che sembra senza passato e che "aspetta" un futuro migliore. Mescolando tradizioni europee a meraviglie asiatiche. Ma qui il colonialismo è morto definitivamente

Il fiume rosso che bagna la città di Hanoi, capitale del Vietnam, è anche il colore della bandiera dello Stato asiatico. Il “colore del sangue” come lo definiscono gli stessi vietnamiti, quel sangue versato dagli antenati per combattere a lungo l’indesiderato invasore. Dell’“etichetta” di paese coloniale, infatti, il Vietnam non se n’è mai distaccato: i numerosi francesi che lo visitano ogni anno, soprattutto nel periodo estivo, si chiedono perché mai nessuno sappia ancora parlare la loro bella lingua qui, in Estremo Oriente. Occupato inizialmente proprio dalla Francia, con l’occupazione della città meridionale di Saigon (oggi ribattezzata in maniera non di certo originale Ho Chi Minh City), il Vietnam entra a far parte dell’OIF (l’Organisation Internationale de la Francophonie), istituzione che raggruppa tutti i principali paesi che utilizzano la lingua francese per fini politici o di cooperazione internazionale. Il colonialismo termina nell’Indocina francese nel 1954 lasciando posto prima ai giapponesi e in seguito ai violenti attacchi americani che spaccano il paese in due producendo una feroce guerra civile guidata dall’ideologia imperialista americana.

Dopo la storia che tutti sappiamo (e che alcuni, ahimè, hanno vissuto), non viene riservato alcun rancore verso lo straniero, come si potrebbe pensare inversamente, visti gli enormi massacri perpetrati ai danni della popolazione locale a quei tempi tacciata, per dirla con Marx, di essere in “sub umanità” e di voler fomentare l’avanzata del comunismo nel Sud-est asiatico seguendo l’esperimento maoista cinese.

Più di una persona qui ad Hanoi mi ha ribadito l’intenzione (e la convinzione) di voler “guardare al futuro” e non al passato: ed è una linea di perdono, quella espressa dai vietnamiti, che cerca nella lontananza degli accadimenti un suo cambiamento, una volontà di ritornare a quella vita di cui non è stato possibile fruire (recentemente su questo tema, il concetto di subversion, cioè l’impossibilità da parte della popolazione di vivere una vita normale durante gli anni del colonialismo, è stata organizzata una mostra proprio all’Institut Français di Hanoi) per aver subìto la colpa di essere stati posti “fuori dalla Storia”, anche se la Storia, come ci insegna Camus, la fanno i popoli oppressi.

La lingua attuale, una sorta di pastiche con radici indoeuropee ed austro-asiatiche voluto prima da alcuni missionari portoghesi poi dai francesi insediatisi in Indocina dal 1859, si compone di un alfabeto latino (quốc ngữ) introdotto dall’amministrazione dell’esagono per facilitare la scrittura delle leggi durante il periodo coloniale: al contrario dell’antica lingua vietnamita, composta da logogrammi alla maniera di quella cinese, l’introduzione dell’alfabeto latino avrebbe meglio permesso il controllo dell’apparato burocratico vietnamita da parte dei funzionari occidentali. Sono presenti sei toni che si alzano e si abbassano in base al significato della parola e che è necessario modulare con la voce in maniera decisa: occorre dunque pronunciare le vocali (attorniate da simboli non di facile riproduzione) con la giusta intonazione altrimenti si creerebbero dei malintesi di significato nell’interpretazione del messaggio.

Delle tradizioni occidentali, il Vietnam non ha alcunché, vista anche la permanenza dei cinesi e dei giapponesi su questo suolo: e dove il mito europeo finisce inizia lo spettacolo di un Oriente che fonda la sua poetica nel gesto e nel gioco delle ombre. Il gesto – come quello delle tradizionali marionette sull’acqua – si carica di uno spessore ermeneutico a volte languido nel suo farsi, con tutta una ritualità che l’Occidente non può neanche immaginarsi. I numerosi templi e le pagode sparse su tutta la nazione trasmettono altresì quella dose di tranquillità e di armonia impossibili da trovare nel nostro emisfero, che si è fatto riconoscere nel corso dei secoli per l’ampio uso della parola.

Qui, invece, si medita all’ombra dei numerosi bonsai che si amalgamano con la realtà circostante, e vicino ai quali bambini e anziani condividono, al calar del sole, le antiche arti marziali del Thai Chi e del Vo Viet Ho-Song, pratiche squisitamente autoctone che cercano di coinvolgere mente e corpo fondendoli in un tutt’uno dandone un aspetto mistico e ieratico. Ma il Vietnam simboleggia soprattutto attesa, cosa che si intravede nei volti pacifici, puri, candidi, e talvolta quasi spaventati della gente, la quale sembra avere un qualcosa di simile al popolo indiano, come Pier Paolo Pasolini aveva fatto notare in alcune pagine indimenticabili del suo intenso viaggio con Alberto Moravia: l’attesa nel cambiamento di una società ancora imbalsamata nel canone socialista e terzomondista, dentro il quale poca è ancora la libertà di espressione e di emancipazione sociale, e dove prevale una concezione prettamente rurale e proletaria.

Tuttavia è vero che, se il proletariato portava con sé la distruzione di un’altra classe, quella borghese, bisogna ringraziare di certo il popolo vietnamita, il quale, succube della dicotomia colonizzatore/colonizzato, è riuscito a far condurre il colonialismo alla propria atroce agonia.

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