Raoul Precht
Periscopio (globale)

Ballando con Bernstein

Cent'anni fa nasceva Leonard Bernstein, il genio musicale di "West Side Story", destinato a rimettere in collegamento musica alta e tradizione popolare. Puntando sempre sul ritmo e sull'immaginazione

Il 25 agosto di cent’anni fa, nasceva a Lawrence, nel Massachusetts, Leonard Bernstein, il musicista che forse più di chiunque altro ha tentato una difficile riconciliazione fra musica alta e popolare, due mondi sempre più contrapposti. Per nulla enfant prodige, provenendo oltre tutto da una famiglia di emigranti russi che non erano musicisti, Bernstein (all’anagrafe non Leonard, ma Louis) si avvicina al pianoforte relativamente tardi, e le prime vere lezioni non le seguirà che a quattordici anni. In seguito, studierà teoria musicale e contrappunto ad Harvard, laureandosi nel 1939 cum laude, prima di frequentare a Filadelfia, per la composizione e la direzione d’orchestra (con Fritz Reiner), quella fucina di talenti che era il Curtis Institute of Music. Il passaggio per Tanglewood, al Berkshire Music Center, dove studia con Serge Koussevitzky, di cui diventerà poi assitente, daranno il tocco finale alla sua preparazione.

Pianista, direttore d’orchestra e compositore, ma anche estroverso e infaticabile intrattenitore e divulgatore, persino in televisione – è rimasta agli annali, e fa quasi tenerezza a riguardarla dopo tanti anni, la sua presentazione al Lincoln Center di un bambinetto cinese di sette anni che era già una promessa del violoncello, tale Yo-yo Ma –, Bernstein gira il mondo dirigendo stabilmente la New York Philharmonic con la sua bacchetta di sughero tratto rigorosamente da bottiglie di champagne, ed è invitato regolarmente al Met, alla Scala, alla Fenice, all’Opera di Vienna, al Festival di Salisburgo, dai Wiener Philharmoniker, dalla Israel Philharmonic, in America Latina, Giappone, Unione Sovietica e via elencando, per non parlare dell’intensa attività di camerista, pianista e accompagnatore.

Ma c’è molto di più: alle sue numerose apparizioni pubbliche Bernstein è sempre riuscito ad affiancare, a volte con difficoltà e tormenti, istanti di creazione e composizione pura, che hanno portato all’ideazione e all’elaborazione di alcune fra le partiture più brillanti e significative – dopo quelle del suo grande amico Copland – della musica americana del Novecento.

Una menzione particolare merita la cosiddetta “Jewish Legacy”, ovvero le opere legate a temi religiosi, fra cui vanno ricordate almeno le sinfonie Jeremiah e Kaddish, un balletto, Dybbuk, e i Chichester Psalms. Non va dimenticata neanche la Mass, del 1971, commissionatagli da Jacqueline Kennedy Onassis per l’inaugurazione del Kennedy Center for the Performing Arts di Washington, alla cui cerimonia l’allora presidente Nixon rifiutò di partecipare per le evidenti allusioni, nella partitura, allo strazio della guerra nel Vietnam. (Solo l’anno prima, Tom Wolfe aveva creato il famoso epiteto satirico di radical chic proprio a proposito di una festa data da Bernstein nella sua casa di Manhattan a sostegno delle Pantere Nere, e l’impegno del Maestro a favore dei diritti civili era ben noto a tutti.) Nella Mass, come in tutta la sua produzione, in cui concilia diversi generi musicali non disdegnando nemmeno il rock, è evidente il debito verso la figura modello di Gustav Mahler, anch’egli famoso e richiestissimo direttore d’orchestra oltre che compositore, nel quale Bernstein in qualche modo giunge a identificarsi e di cui guida la riscoperta – assieme a quella di altri importanti (e all’epoca quasi ignorati) compositori del Novecento quali Sibelius e Nielsen –, imponendolo a un uditorio conservatore che ne considerava la musica troppo eterogenea e quindi volgare.

Non si può poi prescindere, naturalmente, delle partiture pensate per il teatro da un musicista che per la spettacolarizzazione aveva un vero talento. On the Town, per fare un primo esempio, commedia musicale classica e convenzionale, fu messa in scena per la prima volta nel 1944 con coreografie di Jerome Robbins. Adattato per il cinema cinque anni più tardi (Un giorno a New York, per la regia di Stanley Donen e Gene Kelly), il musical sarà ripreso varie volte fino ai giorni nostri, dotato com’è di belle melodie e di strutture ritmiche innovative. Nel film, peraltro, lo spartito originale sarà notevolmente rimaneggiato, come accadrà anche per le musiche del film Fronte del porto: e sembra essere stato questo il destino del passaggio da Broadway a Hollywood di tutte le musiche bernsteiniane.

La storia di Wonderful Town è particolarmente emblematica: Bernstein e i suoi collaboratori subentrano a un’altra équipe che non riusciva a venire a capo dell’operazione e scrivono il musical (salvo l’orchestrazione, che sarà realizzata a parte) in appena quattro settimane. Ciò nonostante, Wonderful Town è un piccolo capolavoro: divertente, misurato, corale. Bernstein dirige la prima di quasi seicento rappresentazioni a Broadway il 25 febbraio del 1953, con Rosalind Russell che nelle vesti della protagonista Ruth otterrà uno dei cinque Tony Award assegnati al musical. In seguito, l’opera è stata replicata con cast diversi a più riprese, ottenendo sempre il medesimo successo. Basato sulle memorie autobiografiche di Ruth McKenney, il musical racconta dell’arrivo nella metropoli di due ragazze di campagna di belle speranze provenienti dall’Ohio, le sorelle Ruth ed Eileen, entrambe attraenti, ma l’una timida e intellettuale, l’altra una specie di bomba erotica, e delle ripercussioni che la loro avrà soprattutto per la popolazione maschile che subito le circonda, con punte di comicità e divertimento rafforzate dalla maestria del compositore nell’appropriarsi di stili musicali diversi, dalla conga al jazz e allo swing, dalla musica tradizionale irlandese al rag (il famoso Wrong Note Rag).

Da ricordare anche Candide, operetta comica in due atti del 1956, destinata anch’essa ai teatri di Broadway, per la quale Bernstein si avvale in un primo tempo del libretto di Lillian Hellman, modificato in seguito, nella versione rivista del 1989, da Hugh Wheeler e Stephen Sondheim. (La collaborazione richiesta alla Hellman, in quegli anni perseguitata dal maccartismo, la dice lunga sulle convinzioni antiautoritarie e progressiste di Bernstein.) Da un punto di vista musicale, sebbene inizialmente criticata, la partitura è stata poi rivalutata dalla critica ed è entrata a far parte del repertorio, ottenendo anche un notevole successo di pubblico.

Ma l’autentico e incontrastato trionfo Bernstein lo otterrà l’anno successivo, con il musical West Side Story. Qui ritrova il coreografo Jerome Robbins e può avvalersi della collaborazione di Stephen Sondheim e Arthur Laurens per il libretto, vagamente ispirato alle contese shakespeariane fra Montecchi e Capuleti, famiglie qui sostituite da due gang rivali nella New York degli anni Cinquanta, i Jets, bianchi, e gli Sharks, immigrati portoricani. Il successo dell’opera, con 732 rappresentazioni a Broadway seguite da una tournée mondiale, è semplicemente travolgente. Per non parlare dell’adattamento cinematografico ad opera dello stesso Robbins e di Robert Wise, che nel 1961 otterrà dieci premi Oscar, fra cui quello per la migliore musica, e tre Golden Globe.

La partitura rappresenta la quintessenza dell’arte bernsteiniana, della sua tendenza verso un assoluto e vivace sincretismo. Ai ritmi propri delle danze latinoamericane si mescolano elementi desunti dal jazz, ma non va dimenticato, quasi come una grande parentesi che tiene insieme il tutto, neanche l’artigianato proprio del compositore “classico”, che gli consente di applicare espedienti compositivi come il cosiddetto (e medievale) “diabolus in musica” o tritono, o di riprendere in punti diversi della partitura determinati pensieri musicali significativi quale strategia formale per riunire fonti d’ispirazioni così differenti sotto un unico denominatore.

Da segnalare in quest’ottica anche la splendida suite delle Symphonic Dances from West Side Story che Bernstein ne ricaverà nell’inverno fra il 1960 e il 1961 e che sarà destinata a far parte del repertorio di tutte le maggiori orchestre. Qui, senza seguire pedissequamente l’ordine in cui comparirebbero nel musical, Bernstein inanella nove momenti musicali, dal Prologo, con il celebre schioccare delle dita ad opera degli orchestrali per sottolineare la rivalità fra le due gang, al Finale tragico in cui la protagonista Maria abbraccia il corpo ormai senza vita del suo Tony.

In un certo senso Bernstein è stato l’ombra e il rovescio di un altro suo grande predecessore, George Gershwin. Se Gershwin era un musicista popolare che ha riscosso, con la Rapsodia in blu e più ancora con il Concerto in fa, un enorme credito presso la critica “classica” più esigente, con Bernstein siamo invece di fronte a un musicista accademico, che ha saputo travalicare i generi e creare una musica a un tempo popolare e colta, facendo storcere il naso a qualche esegeta ma dimostrando che si può ottenere una qualità elevatissima anche se si divulga. Con la necessaria classe, naturalmente.

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