Leopoldo Carlesimo
La terza parte di "Pat e il pirata"

Luce a Port Moresby

«A Port Moresby, tanta luce – annullare il buio, neutralizzarne le ombre, cancellare le differenze visive tra notte e giorno – serve al lavoro. L’impianto opera ventiquattr’ore su ventiquattro, e devono essere tutte uguali»

Riassunto delle prime due puntate: in Papua Nuova Guinea la scoperta di grandi giacimenti di gas sta rapidamente trasformando l’economia dell’Isola, attraendo con le sue opportunità di rapido arricchimento dozzine di avventurieri. Uno di loro, Malcom Kelly, per conto di una Compagnia italiana, cerca di combinare la costruzione di una diga nel cuore della jungla, lungo il fiume Purari. Malcom si fa aiutare da Patrick O’Connell, un vecchio colono irlandese, uomo ricco e potente in Papua Nuova Guinea, dove possiede aziende e terreni, e un resort-bordello, l’hotel Grand Papua, che è uno dei luoghi d’incontro più animati dell’Isola. Lì, in cerca di paceri e soldi facili, s’incontrano i vecchi e nuovi coloni e la fascia emergente, quella più intraprendente e avida, della popolazione aborigena. Malcom incontra l’opposizione di Iroka, carismatico capotribù della regione di Mount Hagen, dove dovrebbe essere costruita l’opera, e rappresentante delle popolazioni aborigene al Parlamento di Port Moresby, capitale della PNG. L’intervento di Pat sembra aprire un canale di dialogo tra Malcom e i piani della Compagnia, da una parte, e Iroka e le aspettative della popolazione indigena, dall’altra…

——

Due uomini di provenienze così lontane, che non dovrebbero avere nulla in comune, che non dovrebbero mai neppure incontrarsi – e se ciò dovesse accadere, farebbero bene a ignorarsi, a non cercare di comunicare, perché comunicare potrebbe essere pericoloso – due uomini così diversi si ritrovano per puro caso associati su una questione d’interesse. Incredibilmente, superando una fittissima selva di possibili equivoci, di diffidenze, fraintendimenti, incomunicabilità, preconcetti, avversione reciproca, arrivano a tanto così dall’intendersi, dal concludere un patto – uno di quei patti tra uomini che rendono possibile l’attuazione di un progetto. E proprio sull’ultimo metro, quando ormai hanno davanti un percorso comune, per una questione puramente umana, per un fatto da nulla, una banale rivalità tra uomini, mandano tutto in fumo. E forse uno dei due muore.

Dopo la cena al Kazuki, Malcom e Iroka si incontrano altre tre volte. A meno che non vi sia stato un quarto incontro, a Purari, e sarebbe stato l’ultimo. Possibile, ma questo nessuno può stabilirlo con certezza. Gli unici a potercelo dire sarebbero Malcom, se tornasse; e Iroka, ma tanto varrebbe chiederlo a un sasso.

Il primo dei tre incontri, dopo il Kazuki, è cordiale. Avviene a Port Moresby, il giorno dopo la cena, nell’ufficio di Iroka.

L’edificio del parlamento di Port Moresby è una costruzione moderna, un’ampia copertura inclinata, dalle forme avveniristiche – un aereo, forse, o la sagoma stilizzata di un’ala – svettante su un placido specchio d’acqua disteso ai suoi piedi. Ha una facciata parzialmente rivestita in legno, l’architettura contemporanea in voga nell’isola mescola spesso linee ultramoderne, leggere e slanciate, con materiali autoctoni naturali e pesanti – il legno, la pietra – e fa largo uso di elementi decorativi tradizionali, quelli che si ritrovano nelle loro maschere, nei loro simboli guerrieri, ne riprende temi e colori. Prova a congiungere primitività e futuro.

L’ufficio di Iroka è un bugigattolo interamente tappezzato di stuoia di palma, e per raggiungerlo Malcom deve superare le complicate inefficienze dell’apparato di sicurezza: metal detector che non funzionano, autorizzazioni che non si trovano, firme mancanti su sudici registri, accompagnatori che non arrivano. Il corpo estraneo, malfunzionante e superfluo, di un sistema burocratico inserito a forza in un contesto che non lo contempla.

Quando, dopo un’ora buona che mette a dura prova la sua scarsissima pazienza, viene a capo di tutto questo, Malcom scova Iroka semisdraiato nel suo ufficetto buio, una stanzetta dalle pareti di legno foderato di stuoia, sobriamente ammobiliato con sedie e tavoli di bamboo – una sorta di involucro vegetale, uno studiolo formato capanna – a torso nudo. S’è tolto la camicia e la cravatta, è scalzo e probabilmente s’era appisolato. Ma si riscuote subito, non appena lo vede, e pochi minuti dopo hanno i disegni aperti sul tavolo; Iroka ha chiamato due collaboratori, due giovani mediamente istruiti di Mount Hagen, con qualche cognizione d’ingegneria, di geologia o d’idraulica, o di qualcosa di simile, cui Malcom spiega opere, piani, programmi.

I giovani sono minuti, saccenti, parlano più del dovuto, sono ansiosi di mostrare quel poco che sanno. Anche con loro Malcom deve dar prova di pazienza, spiegare e rispiegare cose ovvie, rispondere a domande sceme poste con arroganza. La pazienza non è il suo forte, ma Malcom per una volta dà prova di autocontrollo, sa che deve farlo, capisce la situazione. E, se mai se ne scordasse, gli basta alzare lo sguardo sopra le teste di quei due imbecilli: c’è Iroka, arcigno, enorme, torreggiante alle spalle dei ragazzi. Iroka chiaramente non capisce nulla di ciò che Malcom dice, non sa un accidente di dighe, di costruzioni, del contenuto tecnico delle sue spiegazioni, e non gliene importa nulla. È su altro che è concentrato, è attentissimo a come lo dice, quanta pazienza, quanto rispetto ci mette, quale sia la misura della sua apertura, dell’attitudine al dialogo, della disponibilità, quali segnali avvisino se mente o se dice la verità, se la dice tutta o ne sottace una parte, se è leale – nei limiti in cui si può fare affidamento su questa parola attribuita a un uomo – o ha un disegno nascosto. Ancora il body language. Malcom questo lo capisce. Iroka non è uno sprovveduto, è anzi una persona intuitiva, intelligente, diffidente, che sa leggere tra le righe. Con un bianco, sa che deve leggere principalmente tra le righe. Al suo modo selvatico sa cogliere il non detto, è persino sottile nell’intuirlo; anche se poi reagirebbe, qualora irritato, in modo tutt’altro che sottile, con irruenza belluina. Malcom deve stare molto attento, è un dialogo impegnativo: parla ai due giovani, ma in realtà chi lo ascolta, chi valuta attentamente il senso di ciò che dice, è Iroka.

Quando la riunione finisce, due ore dopo, è esausto. È stata una presentazione del progetto molto impegnativa, molto più impegnativa, ad esempio, di quella che ha fatto poco tempo fa al Governo della PNG al gran completo, nella sala del consiglio, all’inizio dell’operazione Purari. E allora c’erano ministri e consulenti internazionali, ingegneri ed economisti, che lo ascoltavano; gente preparata, che aveva gli strumenti per valutare ciò che Malcom diceva, e badava solo al contenuto, al mero significato di parole e cifre: era semplicemente l’asettica presentazione di un progetto. E il progetto era buono, il suo portato tecnico-economico si difendeva da solo, Malcom aveva compito facile: il luogo si prestava, il contesto pure, lo schema era tecnicamente valido, l’economia funzionava, tutti i dati erano a suo favore.

Stavolta invece, con Iroka e i suoi ragazzi, è una faccenda diversa. Non si presenta alcun progetto: ci si misura, si confrontano posizioni di forza. Si cominciano a fissare i paletti di un possibile futuro rapporto. Che, se il progetto si farà, legherà per un certo tempo la gente della parte di Malcom – la Compagnia, i suoi tecnici, i suoi sistemi, i suoi metodi di lavoro industriale – alla gente della parte di Iroka, i selvatici padroni del paese. Due mondi. Il secondo dei quali verrà inevitabilmente e irreversibilmente trasformato dal primo, se i suoi capi decideranno – Iroka sta facendo questo – di costruire l’opera.

L’incontro è faticoso, ma utile; e non tocca neppure di sfuggita quel nodo ancora non sciolto, quel dettaglio. Non ne parlano affatto, lo ignorano entrambi. Saggiamente. Resta quello che è stato detto fino ad allora, quando la riunione finisce non sono ancora venuti al punto. È stata solo un’altra tappa di avvicinamento.

* * *

E allora, che succede, dopo? Perché nasce il malinteso, da quale passo falso scaturisce il fraintendimento? Cosa ha innescato la rivalità – così sorda, così ottusa – che ha portato a tali conseguenze?

Parecchio tempo dopo, quando il progetto di Purari è ormai una realtà, un fatto in corso, il contratto è firmato, la diga si farà, la Compagnia ha fissato la sua base in città a Goroka, al Grand Papua.È qui che gli uomini del cantiere fanno tappa, per andare o venire da Purari utilizzando gli elicotteri di Pat, è qui che si fermano quando hanno qualche faccenda da sbrigare in città.

La Compagnia ha stipulato un accordo commerciale con Pat, usa i suoi elicotteri per rifornire il cantiere, gli uomini alloggiano nel suo albergo, cenano nel suo ristorante. Spesso, la sera dopo cena, Pat s’intrattiene con loro. E qualche volta il discorso cade su Malcom, su quella primissima fase pionieristica, avventurosa, di avvio del progetto.

“Difficile dirlo,” fa Pat. “Ho provato a dargli consigli fino alla fine. Ho cercato di fermarlo anche all’ultimo momento… però, ecco, solo fino a un certo punto. Vedete, io ho sentito che stavamo per superare quel punto, e mi sono fermato… Ho il senso del limite. Malcom no, lui non ce l’ha.”

“Che vuoi dire?” Fa Buzzon, un carnico che si occupa di perforazioni, uno dei tecnici della Compagnia incaricati della campagna di sondaggi e investigazioni geotecniche che è in corso a Purari e fornirà i dati necessari ad affinare il progetto della diga. “Che non hai davvero cercato di impedire a Malcom di fare quella sciocchezza?”

“Oltre un certo limite, no,” dice Pat. “Che diritto avevo di farlo? Cosa volevate, che lo legassi? Gli ho rifiutato gli elicotteri, gli ho tolto l’appoggio logistico… Ha voluto provarci comunque. Non so, penso che sapesse a cosa andava incontro. Ma non poteva più tirarsi indietro, ormai, era diventato un fatto personale. Malcom era così. Anche se forse sperava davvero di spuntarla.”

“Ne parli addirittura al passato,” fa Dal Molin, un friulano che fa l’idraulico, in cantiere s’occupa delle pompe, delle tubazioni, di tenere all’asciutto gli scavi, un tipo ombroso, sulla cinquantina, “Credi che sia morto?”

“Voi cosa credete?”

Sono seduti al bar del Grand Papua, sotto la grande veranda circondata dalla folta macchia. È tardi, agli altri tavoli non c’è più nessuno. Pat ha offerto un giro, una bottiglia di Jack Daniels’ messa lì in mezzo, al centro della tavola. Tutt’attorno una mezza dozzina di ragazze ronza attorno agli uomini del cantiere. Filippine, indonesiane, cinesi. Molto giovani, vestitini succinti, magliette attillate. Qualcuna s’è già mezzo accasata con quel paio di uomini della Compagnia che, per ragioni di lavoro, fanno più spesso su e giù tra Purari e Goroka. Moret, dell’ufficio acquisti, il responsabile degli approvvigionamenti, che passa metà del suo tempo in città a curare i rifornimenti per il cantiere. Ha il suo giro di fornitori locali, e li incontra al Grand Papua, da Pat. S’è messo con una filippina di vent’anni che fa le pulizie nel resort e gli straordinari di notte con lui, ha la chiave del suo bungalow. Moret è sui quaranta, ha moglie e due figli a Dolo, sul Brenta. Poi c’è Fernando, che invece è scapolo, un magazziniere colombiano che ha una ragazza alta, di carnagione scura, una selvatica del Kalimantan, la parte indonesiana del Borneo, che lo guarda male, ma gli permette di accarezzarle spalle e fondoschiena.

“Se è successo, se l’è voluta,” dice ancora tranquillamente Pat. “Io ho fatto quello che potevo. La colpa è sua, non ha dato retta.”

Ci sono uccelli notturni, tra gli alberi. Di quando in quando si sentono dei richiami. E voli, fullìo d’ali in mezzo ai rami. Pat versa dell’altro bourbon, la bottiglia è già abbondantemente sotto la metà.

“Vedete, Malcom metteva le cose sul piano personale. Stupido. Si tratta d’affari. Perché non s’è consultato, prima?” Aggiunge ancora. “Insomma, un testone… forse non pensava di rischiare così tanto. Cos’è successo veramente, probabilmente non lo sapremo mai. Ma il fatto che non si trovi più nulla di lui, mi fa pensare…”

Di Pietro, il dirigente milanese, responsabile della Compagnia a Goroka, l’interrompe. “Le hanno rinnovato il contratto per gli elicotteri?” Chiede.

“Fino a febbraio,” fa Pat.

“Non credo che basti. Darò istruzioni che lo estendano ancora per sei mesi. Dopo, dovremmo finalmente avere una strada come si deve. Ma anche quando la strada sarà pronta, le chiederei di continuare a fornirci appoggio logistico, qui da Goroka. E anche un po’ di relazioni, conoscenze… Insomma, quello che avrebbe dovuto fare Malcom. È disponibile?”

Prima della cena, hanno discusso diversi aspetti pratici del progetto. L’indomani, sarà a bordo di uno degli elicotteri di Pat che Di Pietro e i suoi raggiungeranno l’ansa del Purari, dove s’è ormai installata una prima base operativa, c’è un piccolo campo stabile, di alloggi containerizzati, un nucleo di tecnici, lavori preliminari in corso. Tra la gente del posto sono già cominciate le assunzioni.

Ma Pat non ha smesso di ragionare sulla faccenda di Malcom. Dice a voce alta, come seguendo un suo pensiero: “Forse non è stato solo il carattere a fotterlo. Forse è stato anche quel cialtrone di cui si fidava, il govenatore di Kundiawa. I pasticci in cui l’ha invischiato.”

“Incontrerò domani il governatore,” fa Di Pietro.

“Stia attento con quel tanghero. È talmente avido, e così stupido, che può essere pericoloso.”

“Oh, ormai è innocuo. È stato un problema al principio, ha ragione. Ma abbiamo raggiunto un accordo. Non credo che darà più noie.”

“Tenetelo buono, ma non affidategli nessun compito. Non è capace, è un pasticcione. Mette nei guai se stesso e gli altri senza neanche accorgersene. Potrebbe essere stato lui a far inciampare Malcom.”

“Beh, buonanotte, Pat. La saluto. Partiamo prestissimo domattina.”

“La macchina vi aspetta dalle sei. Ho detto in cucina che preparino la colazione prima del solito, così non partite a stomaco vuoto. Serve qualche altra cosa, stasera?”

* * *

Il successivo incontro tra Malcom e Iroka avviene in un giorno di festa, sulla costa orientale dell’isola. Malcom s’è preso un week-end di riposo ed è andato a trascorrerlo con Francis in uno dei resort marittimi di Pat.

È un luogo ameno, non lontano da Lae, cento chilometri a est di Goroka. La barriera corallina protegge un tratto di costa semideserto. Alte montagne ricoperte di jungla torreggiano alle spalle del litorale. Un muro vegetale, color verde scuro, che precipita quasi in verticale sulla stretta fascia costiera. Qui la vegetazione dirada in palmeti, che si distendono sul breve tratto di pianura, coprendolo di un verde più tenue, fin sulla spiaggia di sabbia chiara dove le onde dell’oceano arrivano smorzate.

Il resort di Pat, come tutti i suoi posti, è spartano ed essenziale: una dozzina di rudimentali bungalow – poco più che capanne di bamboo – disseminati sotto le palme, una specie di ristorante su una piattaforma ricoperta di stuoia al limite del palmeto, un moletto di tronchi che la prolunga, inoltrandosi per un lungo tratto nell’acqua bassa, e porta in testa, attraccate, tre barchette da pesca. Gli inservienti del resort cuociono rozzamente sulla brace pesce appena pescato. Si beve vino australiano e neozelandeze, ci si sdraia al sole, si nuota, ci si riposa all’ombra delle palme.

Mentre fa questo, Malcom viene interrotto da Francis, che irrompe trafelato.

“C’è quel tizio,” dice. “È alla reception, chiede di te.”

Malcom squadra Francis al di sopra degli occhiali da sole molto scuri calati bassi sul naso, si tira su malvolentieri, si butta sulle spalle l’asciugamano e s’avvia corrucciato in direzione della modesta baracca in legno che Francis ha chiamato pomposamente reception.

Non è un uomo da vacanze, Malcom, non sa godere del tempo libero, non ha interessi che non siano il lavoro, realizzare gli scopi pratici sui quali, di volta in volta, la sua mente utilitaria fissa l’attenzione. Quindi non è veramente seccato dell’interruzione. Finge soltanto di esserlo, un malumore fasullo che serve magari ad affilare la sua aggressività, in previsione dell’incontro col selvaggio.

In disparte, a distanza, Francis li osserva dalla spiaggia. I due sono appoggiati al bancone. Discutono animatamente, si può dire che litigano. Enorme, con indosso una rozza blusa di tela a sacco, Iroka; seminudo Malcom, in calzoncini da bagno col telo da mare appeso al collo. Improbabile tenuta per uno scontro. Gesticolano. Dal modo che ha Malcom di ritrarsi, di mettere avanti un lembo dell’asciugamano, Francis capisce che Iroka spruzza saliva copiosamente.

Iroka ha un modo di discutere che sembra cercare immediatamente il contatto fisico. Obbliga Malcom ad arretrare, è vicinissimo, gli è quasi addosso. E allora Malcom smette di fare passi indietro, accetta il contatto, quel modo così corporeo di ingaggiare un diverbio, e sarà certamente irrorato di saliva dalla testa ai piedi. Mette giù la fronte – come un capro che vuole incornare, ultima difesa davanti alla belva che lo attacca, gli occhiali bassi, lo sguardo che viaggia sopra la montatura – fronte bianchiccia, carnagione flaccida e sudata, contrapposta a quella ben più compatta, scura, di Iroka. Si spiegano, gesticolano, certamente alzano a voce.

Quello che pare a Francis è che, a un certo momento, quando hanno i volti affrontati, vicinissimi, enorme e nero quello di Iroka, bianco-latte arrossato dal sole quello di Malcom, la mascella di Iroka possa scattare avanti all’improvviso. E Malcom rimetterci un orecchio, o un pezzo di naso… E più di una volta, e per diversi minuti, pare a Francis che la discussione sia a un passo da quell’epilogo.

Ma non succede. La mascella di Iroka non scatta, è solo la fantasia di Francis a figurarsi il morso. E anche se ormai il volto di Malcom sarà fradicio di saliva, gronda bava ovunque, tutto sommato non sembra correre, oltre a questo, altri rischi.

“Quel selvaggio,” pensa Francis. “Un cannibale.”

Ed è strano che lo pensi.

È strano, perché Francis è un suo simile, appartiene alla sua stessa razza, è molto più vicino a lui che a Malcom. È certamente un pensiero istintivo, irriflesso, arriva a Francis direttamente dall’atteggiamento aggressivo di Iroka, un pensiero-immagine senza filtri, non mediato, ed è per questo che è ancor più strano, perché è un pensiero da bianco.

E contrasta con la natura di Francis. La sua complessione fisica è aborigena, la stessa di Iroka. Stesso impianto robusto, lunghe braccia, collo tozzo, volto massiccio, ossatura forte. Stesse forme, rese forse un po’ più armoniose dall’attività sportiva (roba da bianchi) lineamenti simili, proporzioni, colori: come le foglie di uno stesso albero. Francis guarda a Iroka quasi come un animale, ma nei tratti somatici è lui, un esemplare ingentilito, civilizzato della stessa specie.

Il padre di Francis probabilmente rappresenta un anello di congiunzione intermedio. Un aborigeno intelligente, che non ha studiato, ma cui è toccato in sorte di entrare prima di Iroka in contatto coi bianchi e ha avuto l’abilità, la mancanza di scrupoli e la fortuna di far quattrini con loro. E ora suo figlio, che grazie a quei soldi ha studiato in Australia, è ingegnere, ha vissuto a Perth e Melbourne, giudica istintivamente Iroka un selvaggio. Quello specchio di appena un paio di generazioni fa.

Specchio che avrebbe la possibilità di funzionare per entrambi, e in ambedue i sensi: Iroka potrebbe vedere in Francis un disegno, una prospettiva; e, che gli piaccia o no, dovrebbe rassegnarvisi, anzi di più: gli farebbe comodo; infatti, tutto quello che sta facendo lo porta proprio in quella direzione. Forse lo capisce, forse no, ma dal momento che è ineluttabile, gli converrebbe coglierne il lato buono: gli vengono offerte delle possibilità, in fondo, Francis è una; non la peggiore.

E a Francis, viceversa, converrebbe riconoscere in Iroka un valore. Dovrebbe custodirne la memoria, ereditarne il portato profondo, primitivo, prendere a modello quell’essenzialità. È il suo retaggio. Quella fierezza, ad esempio, e quella forza. Un’identità che è peccato ripudiare, è tagliare l’anima. E trasmeterebbe, invece, forza e fierezza a Francis, se la coltivasse; doti che sicuramente Iroka possiede, e che Francis invece non ha più. Nello spazio di due generazioni, ha già perduto.

C’è mancato poco, pensa Francis, Malcom ha messo in pericolo la sua incolumità; ma così facendo ha in qualche modo tenuto la posizione, arginato il cannibale, e adesso il tono della discussione è più pacato.

Discutono ancora per un pezzo, e talvolta gesticolano, a giudicare dalla mimica il tono di voce probabilmente sale ancora, ma non arrivano più a un passo dallo scontro fisico come poco fa. E quando Iroka se ne va – senza rinunciare a un’ultima, plateale uscita di scena: sulla soglia del resort si gira verso Malcom, rimasto in piedi al banco della reception, e lo punta ripetutamente col dito, urlando qualcosa cui Malcom non risponde – quando Iroka se ne va, Malcom corrucciato si siede al bar e ordina un whisky. Francis lo raggiunge, nota che gli tremano le mani.

“Beh, c’è mancato un pelo,” dice. “Un altro po’ e ti mozzava un orecchio…”

“Quel selvaggio,” fa Malcom. “Se l’è presa a morte perché ha saputo che stiamo organizzando un’altra missione. E che ho parlato col governatore.”

“A un certo punto, credevo davvero che stesse per mordere.”

“Era furibondo. Ce ne ho messo a calmarlo. Ma c’è ancora quella faccenda in sospeso, è quella che conta, dovrò parlarne con la Compagnia…”

* * *

Da quando l’impianto LNG (Liquefied Natural Gaz) che la Exxon ha costruito a Port Moresby è entrato in funzione, una panamax al giorno salpa dalla PNG per le coste americane o per la Cina.

La panamax è la taglia-limite delle navi che possono transitare attraverso il vecchio canale di Panama. Con l’apertura del nuovo canale, poco tempo fa, questo limite è stato superato. Ora navi di stazza quasi tripla possono attraversare il più affollato pertugio commerciale del mondo. Questo ha obbligato tutti i porti di transito disseminati lungo le rotte del canale – lato Pacifico e lato Atlantico – a importanti lavori di dragaggio, per approfondire i fondali, rinforzare le banchine, prepararsi ad accogliere navi molto pù grandi.

L’impianto Exxon produce sette milioni di tonnellate di gas liquefatto all’anno. Spara ogni giorno una panamax nel Pacifico, per portarlo ai mercati di mezzo mondo, e molte navi salpate da Port Moresby fanno rotta proprio sul canale. Questo sviluppo è il risultato di un balzo tecnologico recente.

Fino a non molto tempo fa il gas naturale, pur avendo una resa energetica quasi pari a quella del petrolio, era molto meno pregiato, in tanti pozzi era addirittura bruciato come prodotto di scarto. Per un problema di trasporto. Il petrolio, che è liquido, si trasporta facilmente con le petroliere. Il gas si poteva trasportare solo coi gasdotti, che richiedono grandi investimenti, sono costruibili solo su distanze limitate, e costituiscono un mezzo di trasporto rigido, geograficamente vincolato. E il problema del trasporto è centrale, perché estraiamo gas e petrolio in Medio Oriente, Africa Occidentale, Sud America e ora anche Oceania. Ma lo consumiamo in Nord America, Europa, Cina o Giappone.

Però di recente è stata messa a punto una tecnologia che consente di liquefare in modo stabile e su scala industriale il gas naturale. È un processo che richiede impianti sofisticati e costosi, che tuttavia una volta realizzati permettono di estrarre il gas, renderlo liquido, caricarlo su navi cisterna esattamente come il petrolio, trasportarlo nei porti di destino, rigassificarlo in impianti che applicano al contrario il medesimo processo, e distribuirlo al consumo. Questi sviluppi hanno aperto immense prospettive allo sfruttamento di giacimenti di gas situati in luoghi remoti.

È una fortuna per la PNG, visto che la Exxon ha investito 16 miliardi di dollari per costruirvi un impianto gigantesco, e la Total si sta attrezzando per fare altrettanto.

L’impianto Exxon di Port Moresby è una città. Un enorme intreccio di condutture metalliche, torri d’acciaio, ciminiere, tralicci, un labirinto di tubi illuminato a giorno dalla profusione di neon disseminata lungo il percorso delle condutture e dalle numerosissime torri di liquefazione che, rivestite di luci, diffondono ovunque un’illuminazione spaziale.

Tanta luce – annullare il buio, neutralizzarne le ombre, cancellare le differenze visive tra notte e giorno – serve al lavoro. L’impianto opera ventiquattr’ore su ventiquattro, e devono essere tutte uguali. Devono consentire al processo di proseguire initerrottamente e imperturbabilmente, senza soste né sbalzi, attenuando e smorzando qualunque cambiamento di ritmo, in un continuum temporale che è uno dei miracoli di certe installazioni industriali.

L’impianto LNG di Port Moresby realizza a un livello notevole (qui, ai confini del mondo) quest’efficienza produttiva. Un paradiso artificiale del lavoro, dove tutto ciò che l’ostacola (come il buio o l’ombra) è analizzato e scientificamente rimosso.

L’impianto ha dimensioni colossali. Pare un tempio alieno, precipitato da chissà dove in quest’angolo remoto di terra, incastonato tra la costa pacifica e la jungla, e ha tutt’attorno la notte primitiva di uno dei luoghi più bui (perché meno elettrificati) del pianeta. Un’isola oscura dov’è atterrata quest’astronave.

In effetti, l’impianto LNG della Exxon ha un legame molto indiretto con questa storia. Non sarebbe nemmeno necessario menzionarlo, se non fosse che è solo perché da qualche anno la Exxon estrae sette milioni di tonnellate all’anno di gas in Papua Nuova Guinea, che il Governo della PNG ha pensato di costruire la diga di Purari.

Senza questo volano di sviluppo, non avrebbe avuto neanche lontanamente i mezzi – e quindi non avrebbe concepito l’idea – di realizzare un progetto di tali dimensioni. Un progetto fantastico, quasi visionario: portare in pochi anni la percentuale di popolazione con possibilità di accesso all’energia elettrica e all’acqua corrente dall’attuale 18 al 70 per cento. Trasformare nell’arco di una generazione un popolo che vive allo stato selvatico nella jungla – e non sa cosa siano l’acqua corrente o l’elettricità, campa mediamente meno di cinquant’anni, intesse il tipo di rapporti sociali che questo livello di sviluppo può produrre e che fino a poco tempo fa (ma si dice, in qualche sacca, ancora oggi) contemplava l’antropofagia – in gente che vive in una casa dove si può accendere una lampadina e aprire un rubinetto.

È con la sua parte dei proventi del gas, che la PNG pensa di finanziare questo sogno. Che ne contempla altri. Scuole, sanità, strade. Buone intenzioni. Che senza l’impianto LNG della Exxon non esisterebbero. Non ci sarebbe Purari, Malcom non avrebbe rivaleggiato con Iroka e non esisterebbe questa storia. Ragione del presente inciso, che termina qui.

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Fine della terza puntata (continua)

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