Giuliano Capecelatro
Una storia campestre di città

Un pollo è un pollo

Qualche cenno sul nostro protagonista. Ismaele, o Deodato, non è né bello né brutto; né alto né basso; né grasso né smilzo; né giovane né particolarmente anziano. Diciamo che è un perfetto interprete della medietà

Chiamatelo Ismaele. O Asmodeo. O Deodato. Insomma, fate un po’ voi, poco importa. Lui non voleva essere tirato in ballo; mi aveva scongiurato di non coinvolgerlo nelle mie peripezie letterarie. Ha in orrore la letteratura: una diabolica finzione la definisce- i miei maldestri tentativi li bolla come immondizia-, e chissà dove avrà pescato tanta sicumera di giudizio. E qui temeva di essere riconosciuto, mostrato a dito, beccarsi una specie di marchio.

Perché il nostro eroe si macera. Be’, macera! Diciamo che Deodato, o Asmodeo, da qualche tempo si interroga con una punta di apprensione. Ritto davanti allo specchio, occhi negli occhi, sguardo che percorre sulla superficie riflettente ogni angolo, ogni anfratto di quella inoppugnabile replica delle proprie fattezze. Nel tentativo di accalappiare finalmente la risposta al quesito che lo assedia: ho proprio l’aspetto di un pollo? Pollo, intendiamoci, non in senso zoologico. Ma in quello metaforico di persona alquanto credulona, ingenua oltre misura, facile a gabbarsi, a cadere nelle panie di individui smaliziati, dalla morale duttile, che sa il cielo se ne esistono.

Il dubbio è sorto, prepotente, quando Asmodeo, o Ismaele, si è finalmente accorto di essere bersaglio privilegiato di una fauna multicolore dai mille tentacoli, che sciama nelle nostre città caciarone, occhio vigile, loquela sciolta pronta all’uso, labbra addestrate a mille interpretazioni emotive, pacchi di dubbia provenienza sotto un braccio, da cui cavano una mercanzia che con mille appelli lusinghe e preghiere tentano di affibbiarti. Quasi sempre napoletani. Il che lo manda in bestia; per una sorta di riflesso campanilistico.

Lui a Napoli c’è nato. E sangue partenopeo scorre copioso nelle sue vene. Però il suo soggiorno napoletano s’era fermato a pochi mesi. Il papà, un impiegato statale non proprio ligio, anzi piuttosto versato nell’arte di arrangiarsi, aveva combinato qualche pasticcio; se l’era cavata con l’esilio nella capitale, eludendo guai peggiori, per l’intercessione di uno zio, pezzo grosso del ministero che era riuscito a metterci una toppa e a salvaguardare l’onore della famiglia.

Certo, poi a Napoli, dalla pubertà in poi, era tornato svariate volte. Festosamente accolto da torme di zii che gareggiavano nel conferirgli un’onoraria cittadinanza. Imbastivano frasi nel più stretto e impervio dialetto; imbandivano la tavola di pastasciutte cariche di pummarole, susamielli e quant’altro la barocca gastronomia locale può offrire, ricorrevano incessantemente al vasto repertorio gestuale della città, dalle corna apotropaiche alle dita riunite e quasi amalgamate in forma di carciofo, che sbattevano contro la fronte per indicare mancanza di raziocinio. I cugini, poi! Si facevano un dovere di interpretare il cliché consueto dell’abitante di quella fantastica città. Sembravano tutti concepiti in quelle commedie sdrucite dove napoletano è l’ovvio sinonimo di primordiale epicureismo, voci anelanti l’amore tra panni stesi, maschere allegre tra piramidi rosse e fumanti di spaghetti e note carezzevoli di mandolini in volo su glauche onde gentili.

A Napoli le prime avvisaglie. Bloccato sui marciapiedi di Toledo, in Galleria, nel brulicante dedalo di cardi e decumani, da petulanti offerte di caramelle e ciuingàm dai colori surreali; uomini dall’andatura trasandata, spesso con un accenno di zoppia, la barba di tre giorni, lo sguardo languido cui associavano un campionario di sciagure familiari: ‘e criature, ‘a mamma, ‘o pate, tutti bisognosi di cure che nessun servizio nazionale poteva assicurare senza spese ingentissime.

A Napoli la fatidica prima volta, l’epifania, l’archetipo cui ogni altra esperienza si riconduceva. Con un cugino, che non poteva non chiamarsi Gennaro – napoletanità oblige –, era sceso dai contrafforti borghesi del Vomero verso la città nobilissima e raggiunto il lungomare, la maestosa via Caracciolo, dove troneggiavano banchi e banchetti di ogni tipo che ostinatamente precludevano la vista del mare. Un’allegra miscellanea di frutti di mare sedusse i due adolescenti; un accorto venditore li introdusse al rito: favorite, signuri’, favorite. Non si tirarono indietro, sotto lo sguardo compiaciuto dell’ostricaro; favorirono a quattro palmenti. Conclusa l’ingestione, da cittadini modello chiesero il conto. Doimila lir’, signuri’, li servì con un lampo negli occhi, che un osservatore prevenuto avrebbe scambiato per avidità, il venditore.

Si consultarono sbigottiti. Frugarono nelle tasche. Racimolarono, tra pezzi da cento e monetine da cinque e dieci, novecentoventi lire, ma dovevano ancora comprare i biglietti della funicolare per il ritorno. Il venditore mutò espressione in un baleno; accigliato, indignato, risentito. Agguantò lesto il gruzzolo e li congedò con un’ulteriore occhiata di riprovazione, bofonchiando qualcosa su ‘sti guagliuncelli che vonno fa’ ‘e signuri. Inerpicandosi di gradone in gradone, di rampa in rampa, di gradino in gradino, rientrarono all’ovile, dove li accolse la rivelazione, per bocca di uno zio che la sapeva lunga, che cinque seicento lire sarebbero state un corrispettivo più che onesto per quel banchetto.

Qualche cenno sul nostro protagonista. Ismaele, o Deodato, non è né bello né brutto; né alto né basso; né grasso né smilzo; né giovane né particolarmente anziano. Diciamo che è un perfetto interprete della medietà. Quanto alle facoltà intellettuali, lui di certo non si classifica pollo. Anzi, benché si astenga dal declinarlo in pubblico, parla di sé, tra sé e sé, come di un esemplare umano callido. Parolone altisonante che lo aveva conquistato dai quadratini della Settimana enigmistica, frutto verticale dell’incrocio tra un “caleidoscopio”, un “Livorno” e una “donzella” orizzontali.

Una passione, i cruciverba. Vocazione sorta nell’adolescenza. Smarrito di fronte a termini indecifrabili che piombavano dall’alto di cattedre, o nei discorsi tra adulti, troppo timido per invocare ogni volta una spiegazione, si era convinto che quella pubblicazione settimanale era lo strumento più adatto e piacevole per una consistente erudizione linguistica. Questo gli consentiva di sfoggiare, all’occorrenza, un lessico che lasciava esterrefatto chi lo ascoltava, da “acribia” a “ebdomadario”. Non era diventato per questo meno timido, ma almeno gongolava di orgoglio all’idea di possedere quel sapere da iniziati.

La passione non si era sopita con il passare degli anni. La rivista era un vangelo, sempre squadernato sotto gli occhi. Non tanto a casa, dove Efisia, la moglie, lo richiamava di continuo all’ordine delle incombenze domestiche, ma nelle ore di ufficio- anche lui si era statalizzato come il padre-, tra una pratica e un’altra, trovava sempre il tempo di combattere con quelle definizioni spesso traditrici. Il cruciverba della prima pagina era un gioco da ragazzi; gli bastavano un paio di minuti, anche meno. Poi, pagina dopo pagina, le difficoltà crescevano, ma quasi sempre portava a termine la missione; di rado si poteva notare qualche spazio bianco nella griglia delle parole.

Nel confronto con i colleghi riteneva di primeggiare. Bene o male, era uscito dal liceo classico; ricordava ancora qualche verbo greco e citava a profusione la formula che un uso scriteriato ha ridotto a massima da bacio perugina di Ludwig Feuerbach: l‘uomo è ciò che mangia. Senza patemi e senza voli pindarici aveva raggiunto una laurea in giurisprudenza, che gli consentiva di accomodarsi tra i ranghi dirigenziali, sia pure ai piani meno alti. Poteva vantare la lettura di qualche buon libro- niente romanzi o poesie, bensì succosi saggi che tenevano sveglie le meningi: Alberoni era il suo faro; una volta si era avventurato addirittura con Foucault, ma dopo mezza pagina aveva deciso che si trattava di un parolaio: i francesi….; per Freud si era accontentato di uno di quei libriccini che si incaricano di riassumere in circa cento pagine vita opere e pensiero dei grandi intellettuali. Se sul giornale trovava scritte mirabilie di un film o di una mostra, non se li lasciava sfuggire. Si considerava, quindi, senza esitazioni un uomo di buona cultura. Quanti, tra i suoi conoscenti, avrebbero saputo dire di primo acchito cosa sta a significare “essoterico”?

E quanto al callido, vogliamo dire? Ne aveva la riprova puntuale nei certami dialettici tra colleghi. Si disputasse sulle beghe politiche, sulla crisi dei valori nelle nuove generazioni o, acme della tensione argomentativa, sull’influenza degli arbitri nella lotta per lo scudetto, non gli sfuggiva l’ammirazione degli astanti per l’acume con cui girava e rigirava ogni tipo di frittata. Se poi c’era da architettare una scusa per svignarsela anzitempo dal lavoro, be’, non c’era nessuno che lo battesse.

Ma il pollo, il sospetto di pollaggine, a dispetto di tanta scienza, incombeva. Un giorno, questa volta a Roma, la città eterna in cui viveva, si trovava in un parcheggio, in attesa di un amico. Sentì una vettura inchiodare e la vide tornare a marcia indietro. Ne scese un ragazzotto bruno, sorridente e cordiale, che lo avvicinò. “I capelli, ti ho riconosciuto dai capelli”. Non si può negare che i suoi capelli possedessero caratteristiche singolari. Ricci, arruffati, gonfi come quelli di una Pantera nera della prima ora; costituivano senz’altro quel segno particolare, come recitano i passaporti, che consentiva di riconoscerlo tra mille.

So’ er fijo de Proietti”, lo informò il ragazzotto nello stringergli vigorosamente la mano. Vattelapesca! Al ministero di Proietti, a testimonianza di un’indefessa quanto eterodossa attività prolificatrice nei secoli, ce n’erano non meno di quattro o cinque; con tutti aveva sempre mantenuto rapporti formalmente cordiali. Non voleva apparire un rimbambito e replicò con un anodino “ah!”. Al che il ragazzotto srotolò per intero il suo curriculum vitae. S’era trasferito in Germania, a Berlino, dove stava appunto tornando. In Italia non c’era lavoro per i giovani; lì, invece, tutto funzionava e lui procedeva a gonfie vele. S’era fatto un nome nel mondo dell’abbigliamento di lusso.

Anzi, guarda, te vojo fa’ ‘n regalo”. Tirò fuori dalla macchina un completo che gli fece venire in mente i gangster americani anni Trenta. “E cio’ pure quaccosa pe’ ttu moje”. E associò al completo un giaccone irto di pelliccia che Efisia, castigata insegnante delle medie senza grilli per il capo, non avrebbe indossato neppure sotto la minaccia delle armi. Glieli schiaffò tra le braccia. “So’ capi de classe. Nun vojo gniente. Famo cosi’, me dai giusto i sordi p’ aa benzina”. Costernato, Deodato, o Asmodeo, dovette confessare di non avere contanti né assegni. La cordialità del ragazzotto si attenuò. Recuperò rapidamente i capi, salutò con un secco cenno del capo, e sparì. Tornando a casa, Asmodeo, o Ismaele, passò in rassegna i Proietti disseminati nel dicastero, ma nessuno presentava almeno una vaga affinità col simpatico alfiere della moda. Concluse con ferrea logica che il giovane rappresentante di un’illustre prosapia (ancora una volta grato alla Settimana enigmistica, che con immutabile cadenza da decenni rimpinguava di termini scelti il suo bagaglio lessicale) aveva tentato di raggirarlo. Per sua fortuna, di solito andava in giro con pochi spiccioli: l’amministrazione del ménage familiare l’aveva affidata per intero all’avvedutissima consorte, che non si trovava a proprio agio con le parole crociate ma era un portento con i conti.

Ma i napoletani, i napoletani; sembrava ne seguissero le orme. Sbucavano tra i similcenturioni del Colosseo; si appostavano sotto le fontane del Bernini; tendevano agguati tra i leoni di piazza del Popolo e persino all’ombra del pio colonnato di san Pietro. Maestri dell’approccio caloroso, dottori dell’insistenza, professori emeriti della lamentazione.

Tra le masse di piazza di Spagna ne era spuntato un altro. “Dottore bellissimo, guardi qua”. Sorrideva come se avesse ritrovato il fratello dato per disperso in una campagna militare. Tra cento volti cosmopoliti aveva individuato a colpo sicuro il suo. Non ne aveva però indovinato le ascendenze partenopee, pertanto si ingegnava a parlare italiano, in fondo con risultati neppure disprezzabili, a parte qualche consonante raddoppiata e qualche vocale in libera uscita. Sul braccio sinistro sciorinava una filastrocca di cravatte dai colori sgargianti.

“Dotto’, è robba buona. Proprio per lei. Marinella”, sottolineò con occhiata d’intesa, come conviene tra conoscitori, e con la mano destra gliene srotolò una sotto il naso. Per quanto campione della medietà, Ismaele, o Asmodeo, nell’adolescenza aveva assimilato la lezione di uno zio che si atteggiava a poeta e vestiva secondo dettami propri a lui soltanto. La cravatta, ripeteva, dev’essere una carta d’identità, non può affogare nell’anonimato, ma dire al mondo chi sei. Lui, infatti, mentre aspettava che qualcuno pubblicasse i suoi versi, esibiva cravatte senza alcun dubbio originali per temi e colori, quasi mai debitamente apprezzate. Deodato, o Ismaele, anche per l‘affetto che portava a quell’individuo che usciva dai canoni della normalità, sempre si era attenuto a quei precetti. Non indossava quasi mai cravatte; ma quando si trovava a metterne una, si poteva stare certi che avrebbe lasciato a bocca aperta il colto e l’inclita.

Fu questo, oltre al fatto che in tasca gli giravano non più di due, tre euro e soltanto una malinconica banconota da venti alloggiava nel portafoglio, a salvarlo dell’assedio. “Grazie, ma non sono un ammiratore di Marinella, preferisco un genere diverso”. Altro occorreva per smontare l’intraprendente tycoon da strada. “Una persona come voi! Jamme, dotto’, una ve la regalo io”. Si ricordò che, sia pure, approssimativamente, anche lui poteva considerarsi napoletanofono. “Ohi ni’, nun tengo ‘na lira!”. L’altro fece un sorriso di complicità. “Dotto’, un prezzo buonissimo e una in regalo. Marinella, eh”. Il dottore aveva scorto un piccolo varco tra una truppa di accento inglese e una schiamazzante compagine asiatica. Si fiondò in mezzo, intonando un epitaffio: “Si’ troppo buon’, guaglio’ ”, seguito dal sorriso del venditore che svaniva come quello del gatto del Cheshire.

La folla si chiuse attorno a lui. Una babele di lingue gli rintronava la testa. Sentì un urto. Si voltò. Un viso dai tratti asiatici lo guardava, sorrideva e si inchinava: “Io scusa, io scusa”, mormorava e non cessava di inchinarsi. “Niente male, niente male”, concluse l’affabile pellegrino per rassicurare in primo luogo se stesso mentre si allontanava, inghiottito da una massa di connazionali che a passo spedito si inoltrava giuliva nel suq di lusso di via dei Condotti.

Gli dedicò mentalmente una sapida (ah, quel gioiellino enigmistico!) invettiva: che aveva da sorridere? Però, osservò ammirato, quanta civiltà, quanto rispetto! E per un urto innocente, in quella calca. Altro che quei lazzaroni che la sua città natale sguinzagliava per il mondo a spacciare merce taroccata. In due passi era già al Traforo. Pochi minuti dopo Asmodeo, o Deodato, raggiunse il ministero. Volle consolarsi con un buon caffè. Entrò nel bar che rappresentava l’approdo naturale della pausa pranzo e dei momenti di relax, che in perfetta unità di intenti gli impiegati si industriavano a incrementare. Davanti alla cassa, infilò la mano nella tasca interna della giacca, in cerca del portafoglio. La mano affondò nel vuoto. Scosso, perplesso, poi l’illuminazione: ma già, l’asiatico sorridente e compito; la civiltà, il rispetto; sì, proprio! Benedì ancora una volta la sua previdente metà, che mai lo lasciava uscire di casa con piu’ di qualche decina di euro; quanto ai documenti, li portava in fotocopia in una tasca esterna: un’altra precauzione della lungimirante consorte.

Salì in ufficio, dopo aver distribuito parsimoniosi saluti a destra e manca. Una nuvola nera gli incombeva sulla testa: la perdita era insignificante- venti euro e un portafoglio slabbrato-, ma gli bruciava il modo in cui quel brutto muso l’aveva turlupinato, preso in giro con tutte quelle mossettine e inchini. Sospirò. Argutamente sentenziò: tutto il mondo è paese. Con gesto pacato e diligente prese dalla scrivania un fascio di cartellette che posò davanti a sé. Ne aprì una intestata AN025965/RO. All’interno occhieggiava l’ultimo numero della Settimana enigmistica; nulla di meglio per rilassarsi. A metà del fascicolo trovò un cruciverba intonso.

Tolse il coperchio alla stilografica, sistemò gli occhiali. Si accinse all’opera, e già il malumore dileguava. Il cruciverba lo guardava benevolo con quell’invitante fuga di caselle bianche, ritmate da minuscoli isolotti neri. Momento agognato, parentesi distensiva. Tributo, gradevole, alla cultura. Si fregò le mani e lesse la prima definizione, una parola di cinque lettere: 2 orizzontale, “pennuto cui la si dà facilmente a bere”.

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Accanto al titolo: “Le coq”, di Pablo Picasso, 1938

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