Raffaella Resch
Futurismo (e altro) alla Fondazione Prada

Il “grado zero” di Germano Celant

Con la scelta di presentare le opere calate nell’atmosfera dell’epoca della loro creazione, il critico curatore ha orchestrato un imponente affresco con l’intento di “ripulire” la nostra memoria storica da successive stratificazioni. In “Post Zang Tumb Tuuum. Art Life Politics: Italia 1918-1943”

Se i titoli hanno un senso compendiario e sinottico, quello utilizzato per la mostra della Fondazione Prada, mutuato dalla celeberrima parolibera di Marinetti – Post Zang Tumb Tuuum. Art Life Politics: Italia 1918-1943 (fino al 25 giugno) – ci suggerisce un’interpretazione preferenziale dell’imponente affresco orchestrato da Germano Celant sull’Italia della prima metà del ‘900. Definita da Gramsci l’innovazione più rivoluzionaria del Futurismo, la parolibera irrompe nella letteratura e nelle arti plastiche degli anni ’10 del secolo scorso con una deflagrazione sintetica che squaderna la tradizionale visione delle discipline artistiche. Con le parole in libertà non viene solo cancellata la sintassi e la scrittura tipografica del linguaggio, ma si apre la strada a una fusione tra scrittura, pittura e musica con delle invenzioni visuali che racchiudono significati e implicano una sonorizzazione, un’armonizzazione di partiture delle varie arti. Megafono del regime, il movimento segnerà diverse invenzioni di straordinaria portata, sia nella sua fase avanguardistica che nel cosiddetto secondo futurismo. Per l’arco temporale preso in considerazione, l’esposizione ricostruisce i contesti in cui operarono i diversi artisti e i diversi movimenti del ‘900, oltre al Futurismo, quindi, anche Valori Plastici, Novecento, Scuola romana, gli astrattisti, Corrente e i cosiddetti Italiens de Paris, in relazione al background sociale e politico, che coincide con gli anni che vedono la crisi dello stato liberale e l’affermazione del fascismo.

La lettura complessiva delle mostra mette in luce un aspetto a mio parere paradossale, ovvero il ruolo del Futurismo, la più ancillare delle arti di regime, eppure quella maggiormente innovativa. Attraverso la documentazione puntuale degli ambienti espositivi di allora, ricomponendo in uno sguardo d’insieme la qualità delle opere e delle commissioni pubbliche, riprendono vita quadri da cavalletto o sculture, quartieri, edifici, decorazioni murali e pitture monumentali che furono realizzati sotto l’afflato dell’incoraggiamento propagandistico alle arti, sotto cui si allineano, per la maggior parte ma non solo, i futuristi – tra le cui file militano artisti di varia formazione, architetti e scultori – e anche artisti dalle poetiche diverse, come Novecento e Valori Plastici. Così, se è evidente l’emersione di un’“arte” o “stile” fascista, soprattutto causata dal capillare meccanismo di propaganda del Fascismo, dall’altro lato non può che sbalordire la vitalità delle sperimentazioni di vario genere che vengono attuate e che rispondono a ideali di rinnovamento e di compenetrazione delle arti, dei quali principalmente il Futurismo si fa promotore. Singolare è anche il rapporto che viene evidenziato tra le varie forme d’arte e la cultura ostensiva che si afferma nelle grandi esposizioni realizzate durante gli anni Trenta, come la Mostra della Rivoluzione Fascista (1932), l’Esposizione dell’Aeronautica Italiana (1934), la Mostra Nazionale dello Sport (1935) e il visionario disegno architettonico dell’E42 (1935). Proiezioni di grandi dimensioni illustrano quegli eventi espositivi che riscossero grande successo di pubblico e costituirono strumento di strategie di propaganda politica.

La ricostruzione storiografica operata in mostra prende le mosse dal documento per ritrovare e riposizionare quadri e oggetti nello stesso modo in cui erano esposti a quel tempo, nei saloni delle Esposizioni, e negli ambienti più ristretti delle gallerie e delle case. L’obiettivo è presentare l’opera d’arte calata nell’atmosfera in cui è stata prodotta e recepita dal pubblico e dalla critica nell’epoca della sua creazione, riportandoci indietro a un “grado zero” della nostra memoria storica che non è poi così lontana, ma che è per così dire offuscata dalla somma di trattazioni teoriche compiute negli anni successivi. Il progetto espositivo è stato a questo scopo decisivo: il visitatore accede a 24 aree dove con un suggestivo effetto flou vengono riproposti in scala 1:1 ambienti d’epoca. Alle pareti sono appese alcune opere originali, e accanto a esse emergono come ombre i profili in bianco e nero sfumato di altri quadri o sculture che vi erano affiancati nell’allestimento di allora, documentato da una fotografia coeva. Il riconoscimento con gli ambienti storici è garantito dalla perfetta ricostruzione dello scorcio, cosicché chi veda queste opere per la prima volta possa quasi fisicamente percepire l’aura espositiva in cui furono presentate. Il particolare utilizzo di questi ectoplasmi stampati a muro sembra inoltre alludere a una sorta di procedimento mnemonico, in cui chi invece abbia già potuto vedere questi capolavori dell’arte italiana del XX secolo (alcuni dei quali per altro già presentati da Celant a Venezia a Palazzo Grassi del 1989 e a Milano in Triennale nel 2015), possa ora ricontestualizzarli in maniera nuova. Il principio espositivo congegnato da Celant risponde all’esigenza di rendere evidente il ruolo dell’oggetto d’arte, che è quello di «apparire a un’audience allargata, in determinate situazioni sociali e politiche». Riproporre le condizioni materiali e fisiche della sua rappresentazione significa mettere in discussione ciò che il curatore chiama «idealismo espositivo» di allestimenti in cui «le opere d’arte sono messe in scena in una situazione anonima e monocroma, generalmente su una superficie bianca».

Chiudo con una nota storica, che con pazienza si potrebbe evincere anche dagli oltre 800 documenti presentati in mostra, e che può essere criticamente traslata alla nostra epoca presente. A partire dalla seconda metà degli anni Venti in Italia viene creato il Sindacato fascista degli artisti, a cui è necessario essere iscritti pena l’esclusione dalle manifestazioni espositive nazionali o locali; vengono istituite o riavviate le grandi mostre come la Biennale di Venezia, la Triennale a Monza e a Milano, la Quadriennale a Roma; nel 1940 viene varato per volere di Bottai l’Ufficio per l’arte contemporanea inteso come «mezzo col quale lo Stato si propone di tutelare il patrimonio artistico dell’arte contemporanea e di esprimere tutto il contenuto educativo utile alla Nazione (…) L’artista deve poter vivere del proprio lavoro. Lo Stato deve saper organizzare all’artista una possibilità di smercio della produzione artistica» (dall’intervista di Giuseppe Bottai al Corriere della Sera, 24 gennaio 1940). I sindacati locali, ma anche i grandi concorsi per opere pubbliche a partire dal 1933, provvedono a far stanziare fondi appositi agli artisti e alle mostre che li ospitano. Il fascismo si impossessa dell’intera macchina della cultura, delle strutture espositive come musei e accademie, fino alle figure professionali che vi gravitano, come autori, critici, giornalisti, inserendo personaggi della politica nazionale e locale con funzioni censorie. Dopo due circolari degli anni Trenta e una legge del 1942, viene varata nel luglio 1949 la Legge 717/49 (meglio conosciuta come “Legge del 2%”) che prevede l’obbligo di «abbellimenti artistici» per tutta l’edilizia pubblica di nuova realizzazione (con la specifica estensione a Regioni, Province e Comuni) con l’ulteriore obbligo di accantonamento di somme non inferiori al 2% del costo totale dell’intervento per opere d’arte. Nell’immediato dopoguerra si recepisce tale disciplina, la cui normativa viene modificata fino al 2014, ma sostanzialmente poco applicata.

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