Anna Camaiti Hostert
A proposito di “Melencolia”

Dürer e il Vietnam

Il romanzo di Stefano Rizzo, giornalista e americanista, mette insieme la storia e gli angeli, la malattia e Dürer in un affresco che cerca lo spirituale nelle battaglie di ogni giorno

«Ho sempre amato gli angeli. Da bambino mi aveva colpito un santino in cui un angelo dalle grandi ali e la veste ondeggiante è sospeso sopra un ponticello di legno traballante che potrebbe crollare da un momento all’altro». Cosi inizia la postfazione del romanzo Melencolia di Stefano Rizzo uscito a dicembre 2017 per la Mincione Edizioni. Da essa si potrebbe ricavare già l’anima di questo libro perché Rizzo, giornalista, americanista, studioso di relazioni internazionali e primo traduttore in Italia delle canzoni di Bob Dylan, spiega in modo molto chiaro i suoi intenti.

In questo romanzo intenso, visionario e poetico di poco più di 200 pagine, l’autore, che è laureato in filosofia e ha vissuto a lungo a New York, come si legge nella prima riga della sua biografia, manifesta nei tratti del racconto ambedue questi elementi. Rizzo scrive infatti con uno stile profondo e melancolico, come molto spesso si osserva tra i filosofi. La storia risente inoltre della sua lunga permanenza negli States sia dal punto di vista della forma in quanto c’è una scrittura asciutta e stringata, senza vezzi, sia da quello dei contenuti. Il romanzo, infatti, che si snoda su due registri temporali, racconta di un presente in ospedale a causa di una grave operazione, di cui peraltro non si parla nei dettagli e alla quale si è sottoposto il protagonista, (voce narrante in prima persona) e di un passato (in terza persona) a New York dove è vissuto alla fine degli anni ’60 durante la guerra nel Vietnam. E i piani si alternano continuamente. Per distinguerli l’autore scrive in corsivo solo gli eventi del presente.

Sul piano storico un posto particolare è occupato dall’anno 1968 quando fu ucciso Martin Luther King. In questo passato ci sono presenze e fatti reali: giovani donne, amanti, amici che con il protagonista parteciparono da studenti alle manifestazioni contro la guerra e la violenza in quei gloriosi anni ’60 che oggi ci appaiono lontani anni luce. Ma ci sono anche, raccontati sempre in terza persona, i sogni dove avvengono incontri immaginari con i personaggi di alcuni dipinti di Dürer, riportati in fondo al libro, tra i quali troneggia Melencolia I del 1514 che infatti da’ il titolo al romanzo. Questo lavoro a bulino del grande pittore tedesco ritrae un grande angelo, in foggia di figura femminile seduta e pensosa circondata da oggetti del vivere quotidiano, con accanto un piccolo putto e dietro una casa. Sullo sfondo un uccello nero che regge un’insegna con il nome del dipinto Melencolia. Non può non venirci in mente al proposito l’omaggio che il controverso regista danese Lars Von Trier, nel film omonimo, paga al grande pittore tedesco sul cui dipinto si sono scervellati durante i secoli critici e studiosi per capirne il significato più profondo senza peraltro riuscirci.

Ma, vi chiederete, che c’entrano gli angeli in un romanzo come questo? E che c’entra Dürer? Sono di fondamentale importanza. Perché a differenza dell’ambiente pesante e cupo del film del regista danese, stanno qui a rappresentare un aiuto non solo a vincere le forze del male, la violenza, ma anche quelle altrettanto potenti di una depressione esistenziale che aleggia sul racconto a cui resiste il protagonista in tutto il romanzo e nel quale invece si lascia sprofondare compiaciuto Von Trier nel film omonimo. Forse perché Rizzo è vissuto a lungo negli Stati Uniti che fanno dell’ottimismo un tratto vitale e distintivo di quella cultura o forse perché semplicemente la speranza è un suo tratto caratteriale appartenente in genere a chi molto ha sofferto e a chi, per sua fortuna, riesce a lottare e resistere allo sprofondamento nelle sabbie mobili della depressione. Perché in questo romanzo la violenza e il dolore stanno fuori, ma anche dentro il protagonista. Il ruolo di forza, di salvezza dell’angelo nell’interpretazione di Rizzo ci viene rivelato in un incontro immaginario con il protagonista. È l’angelo a parlare: «Non temere. Entra. Io sarò lì con te e sarò qui ad aspettarti. Ma se non mi dovessi vedere, non ti impensierire. Ricordati: ciò che è mistico non è come le cose sono nel mondo, perché esse possono presentarsi in tanti modi diversi che tu non conosci, ma il fatto che il mondo esiste. E qui tuttavia si ferma la mia potenza, perché di ciò di cui non si può parlare io debbo tacere».

Impariamo dalla storia che questo angelo è quello che manderà il Cavaliere con l’armatura a salvarlo ripetutamente dagli attacchi dei quattro cavalieri dell’Apocalisse cioè dalla distruzione e dalla violenza della guerra, ma anche da quella dell’autodistruzione non solo in quel letto di ospedale. La forza di questa presenza angelica si trova in tutto il romanzo ed è quell’appiglio a cui il protagonista si aggrappa per sopravvivere nella notte di veglia e dormiveglia nel letto di ospedale in cui passato e presente si fronteggiano e in cui sofferenza e morte si alternano a ricordi, pensieri e fantasie. La storia del libro è descritta dall’autore in poche righe. «Gli ritorna in mente la sua vita di poco precedente, che ha dovuto bruscamente interrompere: la donna che ha amato, i suoi studi di logica, le ingiustizie e i disordini di cui è stato spettatore, la violenza di cui lui stesso è stato protagonista; e poi all’indietro nel tempo, i ricordi dimenticati di un’infanzia ritenuta felice, terminata dallo schianto nella foresta, dall’esplosione e dall’incendio che hanno mutato il corso della sua vita. Gradualmente emergono dal passato i segni premonitori di ciò che sarebbe successo, che sarebbe dovuto succedere, e che il malato nel suo stato febbricitante interpreta come lo scontro tra opposte potenze angeliche – del bene e del male, della vita e della morte, della luce del buio – “un conflitto cosmico”… per il possesso della sua anima. Ai ricordi e alle fantasie si aggiungono confuse visioni del futuro che lo attende e che, se solo riuscisse a liberarsi dagli incubi del passato e dal timore paralizzante della morte, sente di potere, anzi di volere affrontare – almeno finché ne avrà la forza».

Ecco, in questo libro visionario l’angelo di Melencolia rappresenta un percorso iniziatico verso la salvezza. Infatti il libro è diviso in cinque capitoli i cui titoli rappresentano anche diverse fogge della melancolia e altrettante trasformazioni dello stesso protagonista. Così la melencholia artificialis riguarda «un’ascesa (o ascesi)» connessa all’ispirazione creativa ancora legata agli oggetti, che si trasforma attraverso il furor melencholicus in imaginativa e poi in rationalis per giungere alla melencholia mentalis ormai libera da condizionamenti materiali. Creazione pura. La grande storia si confonde con quella individuale che a partire dal trauma infantile di un bambino che tragicamente perde la figura paterna, si rifugia nell’angelo che poi dimentica e ritrova in un altro momento traumatico della sua vita, quando giace in un letto di ospedale e la morte e la sofferenza gli si stagliano davanti pronte ad acchiapparlo se non fosse per quell’angelo di Dürer che lo salva.

I dipinti del pittore tedesco in fondo al libro sono una guida essenziale in immagini alle passioni e alle visioni descritte nel libro. Sono quattro. Il primo è la Melencolia I che ritrae l’angelo che protegge il protagonista, il secondo sono I quatto cavalieri dell’Apocalisse dipinto nel 1498 che rappresentano il male, la violenza, la guerra; il terzo Il cavaliere, la morte il diavolo del 1513 che ispirò anche il grande Bergman e che rappresenta il bene armato mandato dall’angelo a difendere il protagonista e infine due dipinti di San Girolamo uno inciso su rame del 1514 e un olio su tela del 1521. Nel racconto di Rizzo S. Girolamo rappresenta il principio di realtà quello che riporta il nostro protagonista sulla retta via. «Eppure dovresti saperlo che non c’è nulla di mistico nel modo in cui le cose esistono nel mondo. Vediamo di rimanere lucidi e di non lasciarci andare alle fantasticherie. Tu mi sembri stanco. Devi esserti perso. Adesso ti riposi e poi te ne torni giù al villaggio e mi lasci lavorare in pace…». E più avanti, indicando il teschio che tiene vicino, prosegue: «La morte non è qualcosa che possiamo sperimentare nella vita e in un certo senso l’immortalità appartiene a chi vive nel presente… Soprattutto ricordati: il mondo dell’uomo felice è un mondo completamente diverso da quello dell’uomo infelice». Ed è proprio questo rimando al mondo reale, a quella vita nuda di Pirandello, che indica al nostro protagonista la via. Una via irta di difficoltà, che conduce alla salvezza, alla vita, comunque meritevole di essere vissuta appieno e con tutti i sensi, quegli stessi che in ospedale malato, debole e sofferente il protagonista ha imparato a valutare nella sua pienezza. La morte l’ha lambito, sfiorato e se n’è andata, allontanata dal cavaliere armato. Il re è nudo e neanche la vita come la morte può essere velata o coperta. Sono parte dell’incedere incessante del tempo in cui la morte non va demonizzata. E proprio questa consapevolezza lo salva e gli fa distinguere il mondo dell’uomo felice da quello infelice.

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