Pasquale Di Palmo
La voce del poeta: Sauro Albisani

Betocchi e Marilìn

Ricorda l’esercizio della poesia col Maestro toscano che sapeva ascoltare, l’autore di “Orografie”, saggista, traduttore e attivamente impegnato nel teatro. E ci regala un inedito sul sogno e Norma Jean

Sauro Albisani ha pubblicato le raccolte Terra e cenere (2002) e La valle delle visioni (2012). L’ultima sua silloge, edita da Passigli nel 2014, si intitola Orografie (130 pagine, 15 euro). Albisani alterna la sua attività poetica all’impegno sul versante teatrale ed è un valente saggista e traduttore.

Può parlarci della sua ultima raccolta?
Orografie è un titolo visionario: immagino a occhi chiusi che l’inesorabile degrado ecologico del pianeta riveli giorno dopo giorno il vero volto dei suoi abitatori, i loro debiti morali, l’inquinamento dei loro massimi sistemi, l’aridità delle loro coscienze. Nello sviluppo del libro, sotto questo paesaggio riemerge periodicamente come un fiume carsico il tema della pedagogia, che collega Orografie ai miei due libri precedenti. Questo potrebbe recare in epigrafe Dewey: «La pedagogia è l’arte di approfittarsi di chi non ha ancora imparato a difendersi». O anche l’amara saggezza di Giovenale: «Quis custodiet custodes?» Ex cathedra è facilissimo nuocere. Tanti anni d’insegnamento non sono bastati a fornirmi l’anestesia dell’abitudine: non ho mai avuto la certezza che fossi la persona giusta al posto giusto. In compenso ho capito presto che l’insegnante «dum docet discit». Che cosa ho imparato? A voler bene anche ai figli degli altri.

Può ricordarci la figura di Carlo Betocchi?
Betocchi non pretendeva che tu fossi ansioso di conoscerlo, era ansioso di conoscere te. Non bisogna dimenticare che un giovane non sa ancora chi è. Era questo il modo più schietto, per Betocchi, di insegnare il valore della dignità della persona umana. Il suo comandamento, «dimenticare sé stessi», era un esercizio quotidiano messo in pratica con chi condivideva le sue giornate. Il giovane è straniero a sé medesimo, e non osa confessarlo. Ma se trovi qualcuno che ti ascolta, a poco a poco ti nasce dentro il coraggio di aprir bocca. Un maestro non è tanto uno che ti parla, quanto piuttosto uno che ti sa ascoltare. E quando ti parla, lo fa con la semplicità di un bambino. Questa la necessaria premessa. Poi, l’esperienza condivisa dell’“opera comune”. La lettura delle poesie al tavolo di cucina, mentre bolle il the, l’emozione di sentirsi autorizzato a proporre una parola per riscrivere un verso, o un’idea che suggerita dal dialogo diventa il titolo di una sezione del libro (I resti del corpo). Uno dei grandi poeti della vecchiaia è morto giovane.

Qual è, secondo lei, la situazione poetica in Italia?
È stato già detto. A che serve ridirlo? La poesia nostrale è come la pasta: ciascuno se la fa in casa per conto suo. Il rapporto fra chi scrive e chi legge poesia è inversamente proporzionale. In sede di giudizio si dovrebbe parlare di conflitto d’interessi, se non fosse che in questo caso gli interessi sono ridotti comicamente ai minimi termini. Il pubblico della poesia sono i poeti, e questo inficia la comunicazione e il giudizio di valore. La poesia è una Cenerentola che non può ritrovare la sua scarpetta, perché è sempre andata scalza come il Valentino pascoliano.

Cosa pensa della diffusione della poesia nel web?
Il web può facilmente rendere anemiche le parole della poesia, perché i media succhiano vampirescamente l’immediatezza dalle vene di chi naviga. L’oralità, viceversa, sarebbe la terapia da prescrivere ai poeti che volessero restituire autorevolezza a un uso della parola irriducibilmente alieno rispetto alla koiné del mercato e della tribuna politica. Temo che la cacofonia del web non faccia che amplificare la solitudine. In una società nella quale tutti sono artisti, diceva Montale, nessuno è artista. Il web sta alla poesia come il taylorismo alla Ford.

Può parlarci del suo impegno in ambito teatrale?
Per me il teatro è la via della compassione. È un rito che ha un solo officiante: l’attore. L’attore gioca sulla propria pelle. L’attore è un gentiluomo: prima di entrare in scena cede il passo al personaggio. Il teatro è una cura per guarire dall’egolatria, male epocale. Per l’attore, come per l’autore, c’è da rispettare una liturgia nel far teatro. Un personaggio vive solo se è passato attraverso la convocazione e l’investitura. «Facciamo l’uomo», diceva il mio maestro Orazio Costa. Si tratta di un esperimento difficile e rischioso, del quale si è cavia e scienziato allo stesso tempo. Ho sperimentato l’inesauribile forza maieutica del teatro soprattutto facendolo con i ragazzi, che ne percepiscono d’istinto la serietà e il valore.

Lei è insegnante. Come valuta l’approccio dei ragazzi verso la poesia?
Per un adolescente la poesia è equidistante dal farmaco e dal tossico. Può far bene e può far male. Può facilmente lusingare il narcisismo, l’autocompiacimento, il culto dell’io, un approccio tolemaico al rapporto con la realtà. La pratica della poesia negli adolescenti è un fenomeno esantematico. Non va né condannata né incoraggiata. Diventa utile solo se sottoposta a una disciplina metrica e melica. Allora essa è l’iniziazione all’esperienza della libertà dentro il rispetto del limite. Nel rapporto didattico, la lettura e lo studio dei classici servono a somministrare in dosi omeopatiche la medicina, la virtù del limite. È importante suggerire ai ragazzi il valore prezioso, di oggettivazione dell’esperienza personale, che si cela dietro l’esercizio della poesia. Alla fine, nessun poeta fa dell’autobiografia perché chi legge un poeta vero, diceva Caproni, legge sé stesso.

Cosa sta preparando attualmente?
Come per uno scultore, anche per un poeta il rapporto con il proprio lavoro dovrebbe essere di sottrazione. Io cerco di non scrivere poesia. La sottrazione conduce alla decantazione. La poesia è sempre imparentata con l’inquietudine (lo sapeva Pessoa) e bisogna che questa faccia il suo corso. Ciò che dà diritto di cittadinanza a una poesia è la necessità. Diverso è il lavoro drammaturgico. Questo dev’essere preceduto da una visione. Quello che viene scritto deve prima essere stato visto. Devi sapere cosa succederà prima che succeda. Sto lavorando alla seconda versione di un dramma andato in scena quest’anno, Un bagno caldo: un incontro notturno, immaginario e tuttavia verosimile, fra Seneca e Nerone, alla vigilia del suicidio del filosofo.

Può commentare la poesia inedita presentata?
Quante volte, da svegli, viviamo come in un sogno? La poesia insiste su un fatto che si ripete quotidianamente: guardare non è ancora vedere. Noi ragazzi amavamo Marilyn come non era mai esistita, e dietro i suoi occhi non vedevamo lo sguardo di Norma Jean che si era spento dieci anni prima. Ce la siamo sognata, nella realtà: nel sogno invece la vedo, per la prima volta, vera. Nel sogno, per contrappasso, vedo Norma Jean prendere il posto di Marilyn dentro il museo delle cere. Davanti alla fragilità della creatura spogliata della sua icona erotica, nella mia esperienza onirica io mi sento assurdamente in colpa e le do un bacio, le chiedo scusa, vicino all’alba, quando i sogni dicono il vero.

***

Un bacio all’alba

Sognai che andavo al museo delle cere.

Ci fermavamo davanti a Norma Jean,

ancora pallida, con gli occhi aperti.

E dov’è Marilìn? ho sussurrato

con quell’accento che usavamo al cine,

mangiando noccioline.

Ma non usciva voce

e nel sogno temevo

l’avessimo sognata

sempre.

Perché durante… quanto tempo?

un tempo interminabile

io sognando capivo cos’è un sogno.

 

Ce la siamo inventata,

ce la siamo inventata…

 

Tutto avvenne

vicino all’alba.

– Se ti vedono, scemo, che la tocchi!

– Professoressa io ritorno a casa.

– Non puoi. Sei minorenne.

– Dài, asciùgati gli occhi.

Sauro Albisani

Questa intervista conclude la rubrica “La voce del poeta”, iniziata nel luglio 2016, su un’idea di Pasquale Di Palmo che l’ha curata. A lui e a tutti i poeti che ci hanno fatto ascoltare le loro voci, anche presentandoci testi inediti, il nostro grazie.

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