Francesco Improta
Un autore da rileggere

I sogni di Lanteri

La fondazione Mario Novaro dedica un quaderno di studi a Elio Lanteri, un narratore ligure molto appartato, morto nel 2010. Una grande occasione per riscoprire uno scrittore visionario intriso di dolcezza

La fondazione Mario Novaro, costituitasi nel 1983 con lo scopo di raccogliere, custodire e valorizzare materiali relativi alla cultura ligure, dedicherà il suo prossimo quaderno quadrimestrale a Elio Lanteri, singolare figura del panorama letterario ligure, nato a Dolceacqua nel 1929 e deceduto a Oneglia nel 2010, dopo una vita spesa tra i libri e l’intensa e proficua attività sindacale.

Il mio rammarico è quello di non aver conosciuto di persona Elio Lanteri, pur avendo avuto amicizie in comune, e se non me li avesse segnalati Marino Magliani probabilmente non avrei neppure letto quei due capolavori, partoriti in tarda età, che sono La ballata della piccola piazza (Transeuropa 2009) e La conca del tempo, pubblicato postumo, sempre per i tipi di Transeuropa, nel 2012. E la lettura delle sue opere ha accresciuto a dismisura il mio rammarico perché mi rendo conto di aver perso molto in termini di umanità, saggezza e cultura non avendo potuto passeggiare con lui, cosa di cui, per sua stessa ammissione, ha beneficiato Marino Magliani, condividendo letture e preferenze culturali, scambiandosi opinioni e allentando al contempo le briglie ai cavalli bizzarri della fantasia o inseguendo sogni che hanno la stessa impalpabile consistenza della spuma del mare sulla battigia o delle ragnatele, imbevute di nebbia nella stagione invernale, di cui parla lo stesso scrittore ne La ballata della piccola piazza: «I ragni, che già annusavano l’arrivo delle prime piogge, avevano iniziato a stendere le reti tra gli ulivi dei costati: catturavano la nebbia, perché in autunno i ragni si cibano di nebbia».

La qualità principale di Lanteri, uomo e artista, è la capacità di sognare, conservando, a dispetto dell’età (non ci dimentichiamo che il suo primo romanzo è stato pubblicato nel 2009, a ottant’anni), una cristallina purezza nello sguardo, una non comune lucidità intellettuale e una straordinaria freschezza nella scrittura. Leggere i suoi romanzi è un’avventura onirica, è come svegliarsi dopo un sogno di cui non si ricorda quasi nulla. Rimane in chi legge il libro l’effetto impresso dal sogno, mentre i particolari sfuggono; scompare la visione ma penetra a goccia a goccia nel più profondo del cuore la dolcezza che da quella lettura è scaturita. Si rimane stupefatti, trasognati a inseguire tonalità, sfumature, vibrazioni, la sostanza, cioè, di cui sono fatti i sogni. È un mondo magico e fantastico di cui l’autore fa rivivere brandelli, colori, suoni e odori; non è un caso che Marino Magliani nella prefazione a La ballata della piccola piazza si ricordi di quello straordinario scrittore che è stato Juan Rulfo; del grande narratore messicano, infatti, Elio Lanteri conserva il particolarissimo linguaggio che si snoda su due piani, quello immediato, colloquiale contrassegnato da un’arcaica e sapienziale patina dialettale, e quello poetico, sospeso e trascinante a metà strada tra il sogno e la realtà, la concretezza e l’indeterminatezza, la vita e la morte, non a caso a proposito di Rulfo si è parlato di realismo magico, e lo stesso potremmo dire per Elio Lanteri.

Tra i due romanzi, a ben guardare, non c’è soluzione di continuità. Damin, uno dei due bambini protagonisti de La ballata della piccola piazza, figura decisamente autobiografica, è anche l’indiscusso protagonista de La Conca del tempo. Già alla fine del primo romanzo, che si svolge durante la Seconda guerra mondiale, all’indomani dell’armistizio dell’8 settembre, Elio Lanteri ci trasporta nel 1988 quando Damin, dopo un’assenza lunga più di quarant’anni, torna in paese e ritrova, come per incanto, i sogni, le figure e le abitudini della sua infanzia e capisce che «la vita corre troppo veloce per afferrarne il senso per cui la maggior parte di noi si limita solo ad attraversarla».

Ne La Conca del tempo Damin, non più bambino anzi ormai avanti negli anni, si avventura nei territori della memoria alla ricerca del tempo perduto e di una mai rassegnata volontà di sottrarsi al “desvivere”, che non è tanto il male di vivere di montaliana memoria quanto il vivere al contrario. Lo scrittore, e ancor più il poeta (nel caso di Elio Lanteri, come nel caso di Francesco Biamonti, è difficile distinguere l’uno dall’altro in quanto entrambi dotati di un ruvido lirismo) è «un peccatore in stato di grazia», come afferma Maria Zambrano, vuole vivere il sogno e la solitudine e finisce col desvivere la storia. C’è qualcosa di Proust in questo suo riandare con la memoria al passato in seguito a improvvise folgorazioni o intermittenze del cuore e attraverso un rituale di gesti, di movimenti e di prolungati silenzi, compiuto puntualmente tutte le mattine, dal protagonista novello Sisifo, che non spinge innanzi a sé un masso, ma si porta sulle spalle uno zaino pieno di ricordi, rimpianti ed occasioni perdute, e risale il sentiero fino alla grande Balma, sotto il Casone (siamo ancora una volta a ridosso del confine con la Francia), da dove scruta la conca sotto di sé e ascolta l’ansimare del mare. Damin è convinto di non poter più reggere il peso dei ricordi senza avere la possibilità di srotolarli, di metterli a fuoco e chiarirli adeguata­mente, interrogando anche la natura circostante: la Balma come un grande orecchio in ascolto, le rocce arroventate dal sole, i pascoli del cielo, dove si muovono con lentezza greggi di nuvole, e il mare di piombo fuso. Evidente ed encomiabile il tentativo di sottrarre quel mondo, a lui così caro, al franare del tempo, velando cose, emozioni e persone per proteggerle dai tarli o per conservarle in uno scrigno di preziosi tesori che soltanto recuperando l’innocenza stupefatta dell’infanzia potrà essere riaperto.

E in uno scrigno di tesori preziosi vanno inseriti anche i due romanzi di Lanteri, contrassegnati da uno stile originalissimo, a metà strada tra la prosa e la poesia. Uno stile scabro, ruvido e poroso capace di assorbire la luce e i profumi della Liguria, soprattutto nel secondo romanzo, laddove si attenua quell’atmosfera incantata ed evocativa propria della ballata. I dialoghi sono pochi e scarnificati, ridotti agli ossi potremmo dire, andando con la memoria a Eugenio Montale e a Francesco Biamonti di cui Elio Lanteri, tra tutti quelli che hanno eletto a Nume tutelare lo scrittore di San Biagio, è senza dubbio il più qualificato e accreditato.

Ci sono, però, anche precise differenze tra La Ballata della piccola piazza e La Conca del tempo: innanzitutto il mare, che nel primo romanzo ha così poco spazio, in quanto tutti sembrano tendere verso i campi alti sopra il cielo, atteggiamento questo condiviso dalla stragrande maggioranza dei Castigliani, dei liguri, cioè, che vivono nell’entroterra lontano dalla mon­danità e dalla cementificazione selvaggia della costa. Non è un caso che la nonna di Damin e di Nicò quando vide per la prima volta il mare lo paragonò a «una grande piana senza limiti» e si chiese, terrorizzata, «come poteva il cielo sostenersi senza l’appoggio dei monti». Anche Francesco Biamonti il mare amava guardarlo da lontano, cogliendone il delirio nella stagione invernale e le striature di oro e di rosa che al crepuscolo, d’estate, salgono dalla marina e graffiano le colline. Ne La Conca del tempo il mare assume, invece, un notevole rilievo, non è un semplice sfondo, ma un elemento animato che affascina e che soggioga con il movimento continuo delle onde e con la sua musica struggente di cui Damin coglie i rantoli, i sussurri e i sospiri.

In secondo luogo mentre nel primo romanzo la narrazione ha l’andamento e il ritmo di una fiaba, in primo piano, infatti, si muovono i due cuginetti, Damin e Nicò, che vivono in un paese popolato solo da vecchi e da bambini come loro, essendo gli adulti e i giovani risucchiati dalla guerra, siamo infatti, ci pare utile ripeterlo, nel 1943, nell’entroterra ligure, al confine con la Francia. La realtà, quindi, anche quella bellica, ridotta a un rumore di fondo, viene filtrata attraverso il loro sguardo innocente e perde qualsiasi connotazione drammatica. Le loro giornate sono scandite da semplici incombenze come portare le capre al pascolo e occuparsi della zia malata, dai racconti della nonna che riesce a coniugare fatti di vita vissuta e leggende ancestrali, e dai sogni che essi fanno a occhi sia aperti che chiusi. Ne La conca del tempo la narrazione, invece, non ha un ritmo lineare; la storia, se di storia si può parlare, si snoda attraverso immagini e ricordi, colori e odori che balzano improvvisi alla memoria. Gli stessi luoghi non sono geograficamente riconoscibili; anche se ci sono alcuni riferimenti precisi il paesaggio è più onirico che reale. Il linguaggio, infine, non è più trasognato ed evocativo; le parole, che si dipanano da un gomitolo di pensieri e di ricordi, si fanno dense, corpose, ruvide fino a diventare esse stesse natura ed è lì che l’autore si rifugia quando il peso del vivere o meglio del desvivere si fa insostenibile.

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