Pier Mario Fasanotti
Consigli per gli acquisti

Vecchi & Romanzi

L'amore dei vecchi secondo Kent Aruf (da cui il film con Robert Redford e Jane Fonda), la malattia dei vecchi secondo maria Rosaria Valentini e la Tokio senza più identità di Furukawa Hideo

In due. Emotivamente toccante, stilisticamente affascinante: ecco quel che si può dire dell’americano Kent Aruf, poco noto al pubblico italiano. Tra i lettori cosiddetti forti dovrebbe aumentare il passaparola. Il suo ultimo, e breve, romanzo, s’intitola Le nostre anime di notte (NN editore, 162 pag., 17 euro). Testo che ha ispirato l’omonimo film con Robert Redford e Jane Fonda (eccellenti, mi hanno riferito, nell’interpretazione della vecchiaia fragile, tenera e ostinatamente vitale). La storia si svolge in una cittadina del Colorado, Holt. Che non è reale, ma immaginata dall’autore (morto nel 2014). Nelle pagine finali del libro c’è anche la mappa.

Una sera di maggio Addie Moore bussa alla porta di Louis Waters, insegnante di liceo in pensione. Abitano a un isolato di distanza, sono entrambi vedovi. Le solitudini s’attenuano fino a coprire regolarmente un solo spazio, di notte. Si conoscono da tanto tempo. La svolta accade quando Addie propone di condividere un letto matrimoniale allo scopo di innestare una intima confidenza di parole. Involontariamente segreta, la loro story (non automaticamente love-story) dilaga come pettegolezzo, scivolando poi nella normalità sociale: lo vengono a sapere tutti e tutti alla fine, grazie alla loro disinvoltura e naturalezza («Non c’è nulla da nascondere», insiste lei; e lui: «Ormai siamo una notizia vecchia») di due profughi di un’esistenza che mai è stata facile. Sono i parenti a disapprovare e allora il mondo inizialmente notturno, e infine anche diurno, viene alterato da pregiudizi, da malintesi, da falsi moralismi. Per una concatenazione di fatti, Addie e Louis continueranno a sentirsi, ma a distanza (e questa deve bastare). Lo stile piano e arguto di Aruf intreccia la dolcezza con la spontaneità propria di due anziani che s’interrogano sul passato e guardano al futuro, a volte con coraggiosa speranza, a volte con la paura che il tardiv filo si spezzi.

Città tossica. Non è un cambiamento, ma uno stravolgimento. Se prima Tokyo era terra incantevole, dopo, e per colpa dell’uomo, tutto si surriscalda e smarrisce il baricentro. L’evoluzione si tinge di impazzimento sociale, e interessa anche la natura i cui ritmi rotolano verso un obbrobrio vegetale capace di trasmettere malattie tropicali. Non è esente dalla catastrofe il clima politico, per colpa anche di una forte immigrazione clandestina con l’inevitabile scontro razzistico. Un clima generale che a qualcuno potrebbe far venire in mente la tetraggine e l’angoscia del film Blade Runner. Questo quadro drammaticamente diverso e instabile racchiude le vicende narrate da Furukawa Hideo in Tokyo Soundtrack (Sellerio, 764 pag., 18 euro). Un’assurdità resa narrazione? No. Semmai l’amplificazione, certamente immaginifica, di quello che quotidianamente circonda e connota le nostre città. Se cambiano palcoscenici e contesti, non cambiano le reazioni emotive dei giovani coinvolti in questa vicenda. Questi sono i sopravvissuti, con alle spalle un eccezionale passato dipinto da chiunque come “straordinario“, quasi un Eden. C’è un lui, introverso e solitario, c’è una lei dotata di tanto carisma e trascinata da un innato ribellismo. Insieme sono alla ricerca di un cammino inconsueto, con l’ambizione di imporre la loro diversità a una sterminata folla che è dolorosamente consapevole di un inarrestabile declino. L’autore, partendo da questo “intoppo“, come direbbe Shakespeare, getta una luce abbagliante su temi attualissimi: l’identità sessuale, le migrazioni, il rapporto tra natura e tecnologia. Nell’intreccio tra realtà e fantasia si nasconde il seme, che è anche strumento, di una libertà massima.

Abbandono. Sentirsi totalmente incompreso, in un letto d’ospedale, avvertire nitidamente il fatto che nessuno lo aiuta. Andrea, apparentemente senza memoria, comprende immediatamente di non avere altro che se stesso come strumento per la propria auto-ricostruzione. Questo imprigionamento nel presente è il tema del nuovo romanzo di Maria Rosaria Valentini, autrice de Il tempo di Andrea (Sellerio, 191 pag., 16 euro). In sé il paziente scorge vecchi amori, ma ancora inestirpabili. Palpa quotidianamente un dolore confuso ma non per questo meno aspro, ma non riesce a farlo proprio. Non parla, né con medici né con infermiere, ma solo con se stesso. I curanti non si accorgono di una sua progressiva guarigione, e lui si domanda come sia possibile non creare un profilo di un uomo che ha un nome, che ha una moglie, che ha figli, che ha una professione. Andrea allora scrive di nascosto, fa riaffiorare ricordi vividi. Magari domani rivelo tutto ai medici, invece rimanda questa decisione. L’autrice, che nulla concede alla retorica, descrive il cammino difficile scavando in una psicologia contorta e mai banale.

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