Elisa Torsiello
La kermesse hollywoodiana

Il tempo delle favole

Dopo anni di “impegno” (per come può impegnarsi il cinema Usa), gli Oscar tornano alle favole. La vittoria, inattesa, della "Forma dell'Acqua" di Guillermo del Toro è un segno dei tempi

La forma dell’acqua non è né rettangolare né circolare; è quella che abbraccia, congiungendosi, all’immaginazione di Guillermo del Toro. La mente del regista messicano si fa contenitore creativo, grembo materno portatore di storie e fantasia. Cinefilo, sognatore, idealista, Guillermo del Toro diventa uno degli ultimi grandi racconta-storie cinematografici e la sua produzione filmica una raccolta di fiabe dove mostri che amano diventano umani, e umani che odiano si trasformano in mostri. Amalgamando in giuste dosi cinefilia e scenari da romanzi gotici, con la sua più recente creatura, La Forma dell’Acqua, Guillermo del Toro dunque ha dominato quest’ultima edizione dei premi Oscar, portandosi a casa le statuette per la colonna sonora (andata a Alexandre Desplat), la scenografia, la regia e quella per il miglior film. Se la vittoria per la regia era già cosa prevedibile, soprattutto a seguito del suo trionfo alla Mostra del cinema di Venezia, quella per la migliore pellicola è riuscita a imprimere sullo spettatore una sollevata smorfia di sorpresa.

La sorpresa che ha destato il  successo di del Toro, infatti, non deriva da una inadeguatezza della pellicola rispetto al prestigio del premio che la relega definitivamente alla storia del cinema, quanto da una constatazione del tutto storica e statistica. Più che celebrare il cinema e i suoi massimi esponenti, negli ultimi anni i premi Oscar si erano fatti portavoce del sentimento di sconforto e delusione della società americana nei confronti di istituzioni governative incapaci di ascoltarla, ma soprattutto, rappresentarla. Lo dimostra la vittoria di Il caso Spotlight in un periodo (il 2016) in cui ritornò sulle pagine di cronaca, in tutta la sua macabra prepotenza, lo scandalo dei sacerdoti pedofili; senza dimenticare il trionfo, in tempi ancor più recenti (2017) di Moonlight. Un trionfo cinematograficamente inaspettato, capace perfino di battere un film osannato come La La Land, ma che se letto sotto la lente sociale e politico, rivela tutta la sua potenza. L’Oscar al Miglior Film di Moonlight combacia cronologicamente con l’insediamento alla Casa Bianca di una personalità come Donald Trump, da sempre paladino dell’inutile crociata omofoba e razzista ingaggiata contro gli omosessuali e neri in America. Sono temi, questi, trattati con eleganza e cruda onestà da Barry Jenskins proprio nel suo film e che probabilmente lo hanno facilitato nella sua corsa trionfale all’Oscar.

Il fatto che ad affermarsi quest’anno sia stato il film Guillermo del Toro è forse sintomo di un ritorno al potere della forza onirica del cinema. Bombardata da immagini di guerra e terrorismo, la popolazione sente nuovamente nascere in sé la necessità di sognare e lasciarsi trascinare dal mondo delle favole. Vuole tornare a volare alto, oltre il limite della paura, fluttuando libera nel cielo dell’immaginazione. E Guillermo del Toro, con la sua Forma dell’Acqua, un po’ Bella e la Bestia, un po’ Mostro della Laguna Nera, offre il perfetto lasciapassare a questo nuovo sospirato universo fiabesco. Se è vero che il cinema è dunque proiezione verosimile della realtà, quello che ci ha dimostrato la vittoria di del Toro è che nell’immaginario collettivo (ma soprattutto americano) la realtà che prevale al momento è quella edulcorata dalla sfera del sogno.

Ecco allora spiegato perché un horror basato sul concetto mai superato della paura del diverso come Scappa- Get Out si debba accontentare di un Oscar alla “Migliore sceneggiatura originale”. Lo stesso vale per Tre manifesti a Ebbing, Missouri (storia di vendetta per un omicidio inascoltato e di poliziotti razzisti), fino a ieri favorito alla vittoria finale nella categoria miglior film, rivelatosi invece trionfatore quasi assoluto nelle sole categorie attoriali (Frances McDormand e Sam Rockwell).

Se quello portato sullo schermo da del Toro è dunque un mondo fantastico e pieno di immaginazione, lo stesso non si può dire dell’evento stesso. La cerimonia degli Oscar è stata privata di quella ilarità e spensieratezza tipica degli anni passati. Sono lontani gli opening danzerini di Hugh Jackman e Neil Patrick Harris, o le imitazioni piene di sarcasmo e acume di Whoopy Goldberg e Billy Crystal. Sterile, compatta, seriosa, ma soprattutto imprigionata nei confini di un politically correct sempre troppo ostentato: ecco che cosa è stata la cerimonia degli Oscar 2018. Se è giusto parlare di certi argomenti e associazioni come Time’s Up, un evento nato per premiare il meglio del sogno tradotto in immagini in movimento non è il luogo e momento più adatto. E la vittoria di del Toro ne è la giusta testimonianza.

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