Francesco Improta
A proposito di "Geografia liquida"

La poesia liquida

I versi di Maria Pia Romano, senza retorica né gabbie metriche, ricostruiscono la luce e quasi l'essenza del mare. Come un elemento primario che continuamente pervade le nostre vite

La nuova raccolta di versi di Maria Pia Romano – arricchita in calce da tre prose auto­biografiche che non solo giustificano il titolo dell’opera, Geografie minime (Il GRILLO editore, 10 euro), ma indicano soprattutto in maniera chiara e inequivocabile le tappe del suo percorso umano e artistico, i luoghi della sua anima, paesaggi interiori profon­damente radicati tanto da non poter neppure concepire un altrove – esce a 10 anni di distanza dal suo ultimo libro di poesie, La settima stella. Un decennio ricco di fatti e di situazioni pubbliche e private che ha segnato, per lei come per tutti noi, le cose e le coscienze e che ha inghiottito speranze e aspirazioni, prosciugato energie fisiche e psicologiche ma certo non la voglia di Maria Pia Romano di continuare a sognare e affidare alle parole le proprie emozioni per dare un senso all’andare o semplicemente per non morire dentro.

Non è un caso che i versi di Ada Merini scelti come esergo alludano alla funzione di sostegno (gruccia) propria della poesia. Io credo, però, che nei versi di Maria Pia Romano ci sia molto di più di un banale ed effimero tentativo di consolazione, c‘è, come dice giustamente nella sua bellissima e viscerale prefazione Giuseppe Cristaldi, una traslazione funesta dentro/fuori tra stagioni dell’anno e stagioni del cuore. Le prime si alternano lente, cadenzate dalle opere e i giorni di una cultura ancora prevalentemente contadina nel Salento e in tutto il Mezzogiorno o scandite rumorosamente, sulla costa saccheggiata dai palazzinari, dai decibel della musica ad alto volume nei bar e nei locali notturni invasi da turisti perlopiù arroganti e incivili, in quella che può essere considerata l’industria del divertimento che apre i battenti due/tre mesi all’anno. Le stagioni del cuore, invece, silenti ma febbrili non sempre riescono a dispiegarsi contrassegnate come sono da inquietudini profonde; assenze inaccettabili; mondi sgangherati; collere inespresse e finiscono con l’implodere o con aprire le ali (vele d’inchiostro) verso approdi di carta.

In questo paesaggio interiore, liquido e intriso di salsedine, trovano posto e rilevanza anche alcuni miti dell’antichità: alle corde della lira di Saffo (Leucade), mosse dal vento, fanno riscontro, infatti, i dolcissimi e struggenti versi di Itaca, che rimandano a Omero e a Konstantinos Kavafis: Itaca oggi sembra più vicina che mai // Buon vento a chi ha il coraggio di tornare // dopo l’infinito viaggiare. // A chi ha tessuto la tela nella cura dell’attesa. // A chi ha sogni di mare, sempre e comunque. // In ogni Odissea della vita. Da notare nei versi appena citati il tema del viaggio, i cui diari sono ricami d’inchiostro // sulle vele del tempo, e il vezzo dell’auto­citazione (La cura dell’attesa, titolo di un romanzo di successo pubblicato da Maria Pia Romano nel 2012) che è inseparabile dal sano e legittimo narcisismo di ogni autentico artista. I miti però non sono prerogativa esclusiva della Grecia, antica o moderna che sia, ci sono nei versi di Maria Pia personaggi che appartengono alla mitologia locale: Idrusa e Colangelo, personaggi a metà strada tra la storia e la leggenda che hanno trovato ospitalità in un bel romanzo di Maria Corti del 1962, L’ora di tutti, e Talos che pur essendo originario di Creta si trova raffigurato nel bellissimo Cratere Apulo di Ruvo di Puglia a cui Maria Pia Romano, che vi ha sog­giornato, dedica un commosso omaggio: Sul basolato // compaiono spartiti // a segnare l’ora // dell’improvvisazione…Il sentimento delle cose // è grazia che si posa // sui volti scarmigliati // di chi conosce il ritmo // dei recinti di campagna.

In una poesia materiata di assenze, lontananze, sussurri e trasparenze, qual è quella di Maria Pia, la tonalità dominante è la malinconia che si fa misura di tutte le cose e che nasce ora dalla mancanza di persone sottratte prematuramente all’affetto dei loro cari: La tua sposa è ferma sulla porta di casa // a rimestare incredulità e strazio // aspetta di sentire ancora la tua voce // perché non si accetta mai l’assenza // di chi amiamo ora dalla dolorosa consapevolezza della propria sterilità (?) o, comunque, della impossibilità di assaporare le gioie della maternità: Sono madre mancata // di figli immaginati // rimasti sputi d’inchiostro ora, infine, da paure tatuate sulla pelle o sulla corteccia nodosa di ulivi vecchi e storpi che riempiono le nostre veglie notturne. Non sempre, però, l’insonnia genera mostri o incubi, talvolta nel respiro della notte affiorano ricordi di un passato lontano e di un’infanzia felice, in una terra, il Sannio, abitata da streghe impertinenti; non ci dimentichiamo che Maria Pia Romano è nata a Benevento. Una vecchia palazzina, un orto con un antico noce (luogo deputato per riti orgiastici o demoniaci sabba) e una nonna sognata // che impasta polpette // e cuoce cantando. Una malinconia che si stempera nella natura circostante, nei campi spalmati di luce, nelle nuvole, simili a greggi di pecore, condotte dal vento lungo i tratturi del cielo, nelle ubriacature di sole e soprattutto nel mare che lascia trine di spuma sulla battigia, mentre la risacca di Settembre // inventa giochi innocenti // di musica ondosa. È il mare il vero confidente di Maria Pia Romano, quel mare che affascina e soggioga con il perenne movimento delle onde, con la sua capacità invasiva e pervasiva di riempire ogni spazio del corpo e della mente, a cui Maria Pia Romano affida le sue pene, le delusioni, i sogni infranti e anche le speranze che non vogliono morire, le cose di sé che non ha detto a nessuno, e i suoi amori segreti; quel mare su cui volano come gabbiani i suoi pensieri più reconditi. Bellissima e struggente a tal proposito la poesia Amore (pag. 45).

L’amore è una voglia // intinta di mare, // sciabordante nel ventre delle ore. // Scava il tempo // lento del distacco, // per ritornare schiuma // su battigie segrete, // rimescolando // vicinanze audaci // nel tramestio // del consueto.

Una poesia, quella di Maria Pia Romano, che non ha bisogno di rigide strutture metriche né di una ricca e sofisticata strumentazione retorica, che si affida quasi esclusivamente a una raffinata e non comune elezione lessicale e alla collocazione o meglio giustap­posizione delle parole all’interno dei versi in modo che scaturiscano scintille, baluginii e una mesta sinfonia liquida, intrisa di suoni e di salsedine.

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