Pierre Chiartano
A quarant'anni dal rapimento

Il Moro di gomma

Una Paese a sovranità limitata, l ritorno della guerra fredda (che in Italia manovrava i due maggiori partiti), il lavorio dei servizi e i terroristi eterodiretti: è il momento di rileggere tutti i documenti del Caso Moro

Sono passati 40 anni dal rapimento e dall’esecuzione di Aldo Moro e della sua scorta. Centinaia di documenti sono stati desecretati, da quelli del Dipartimento di stato Usa a quelli di Kew Gardens in Inghilterra, il lavoro della commissione d’inchiesta parlamentare (di solito produttrice di carte inutili) ha consegnato una quantità di informazioni, dove la verità si percepisce chiaramente, per chi abbia voglia di scorgerla. Eppure nessuno, a livello istituzionale, si è ancora preso la responsabilità di prendere atto della realtà. Vedremo se nel campo giornalistico riusciremo ad uscire dalle vecchie logiche di schieramento che inspiegabilmente hanno resistito per quasi 30 dopo la caduta del muro di Berlino. L’impressione è che si arriverà a scoprire molte verità sulle trame italiane del dopo guerra solo quando politica e istituzioni verranno totalmente liberate dalla presenza di una progenie di politici sostanzialmente codardi e legati gli uni agli altri da una fitta rete di interessi e ricatti incrociati sedimentati nei decenni. Una verità necessaria per far rinascere l’identità del nostro paese.

Proviamo a fare una concisa premessa storica e un breve, limitato esercizio di analisi, basandoci principalmente sul documento ufficiale della Commissione parlamentare sul rapimento e l’assassinio di Moro (istituita il 30 maggio 2014) con la relazione finale del dicembre 2017. E di ciò che abbiamo letto negli ultimi 30 anni e scritto. In Italia le commissioni parlamentari hanno sempre avuto una pessima nomea: verità e mediazioni politiche sono incompatibili. Ma loro malgrado le istituzioni hanno il potere di essere un pozzo di documentazioni ufficiali cui attingere, quanto meno per farsi un’idea. Quello che ci ha sempre colpito è la quantità di “perle” che si possono trovare nelle carte giudiziarie ed investigative, spesso ignorate dai media ufficiali per le più disparate ragioni, ma sicuramente in dispregio del lavoro che dovrebbero svolgere i media nell’informare i cittadini. Nell’Italia della Prima Repubblica il cosiddetto “pluralismo” garantiva un certo numero di fonti legate a tribù politiche e ideologiche. Per potersi fare un’idea si doveva leggere un po’ di tutto, fare la tara sull’50 per cento di propaganda e rassegnarsi a non conoscere ciò che gli accordi “consociativi” non volevano che si sapesse. Ma per capire bene le nebbie che hanno avvolto il caso Moro come la cosiddetta “strategia della tensione”, fra propaganda di parte e realtà, serve capire l’origine di una grande malinteso storico. Malinteso che serviva – prendiamo la versione più benevola – per legittimare una classe politica volutamente debole e costretta a giocare con un braccio e un piede legati. Legati da cosa? Basterebbe leggere l’articolo 16 del trattato di pace di Parigi del 1947 per capire ciò che per mezzo secolo abbiamo fatto finta di non vedere, credendo noi stessi alla narrativa della Repubblica fondata su Resistenza e anti-fascismo. Evidentemente era una “forzatura”, qualcuno potrebbe usare anche un termine più incisivo. Ma questo è un campo minato dove ancora oggi scattano reazioni più emotive che razionali. Perché “militarmente” questo fatto non ha avuto alcuna ricaduta nei rapporti tra vincitori e vinti? L’Italia era ed è rimasta una “nazione sconfitta” senza se e senza ma, nonostante la Resistenza e l’antifascismo. Con pesanti conseguenze in termini di sovranità nazionale. Eravamo relegati ad un ruolo ancor meno importante della vera sconfitta della Seconda guerra mondiale: la Germania. «Mai le porte di casa nostra furono così spalancate e mai le nostre possibilità di difesa così limitate», le parole di Alcide De Gasperi alla conferenza di Parigi del 1946.

L’articolo 16 del trattato di pace del 1947 prevedeva che Roma non potesse esercitare autonomamente alcuna politica estera, economica e di sicurezza. E dove Gran Bretagna e Francia hanno esercitato a lungo un controllo occhiuto e invadente su tutto ciò che succedeva in Italia, in ogni campo, la supervisione USA cui importavano per lo più le logiche strategiche di schieramento, utilizzava il Dipartimento di Stato con una funzione di controllo e “protettiva” nei confronti italiani, nel difenderla dalle pulsioni neocoloniali dei nostri nuovi alleati/vincitori e dalle pulsioni oltranziste endogene ed esogene. Questo permise un certo margine di manovra alla politica Mediterranea di Roma ai tempi di Mattei e dopo, irritando non poco Londra e Parigi, che mantenevano un atteggiamento “neo-coloniale” rispetto ai loro interessi Mediterranei e verso le “pretese” italiane che cercava di eludere i limiti del trattato del 1947. Gli USA, dai tempi di Francis Delano Roosevelt, aveva deciso che il suo alleato di ferro inglese, avrebbe dovuto abbandonare ogni velleità coloniale nel dopo guerra, ancor di più la Francia di Charles De Gaulle, inviso a FDR ma assurto a un ruolo politico importante grazie alle strategie di Winston Churchill che già dal 1942 pensava agli assetti postbellici e agli interessi inglesi. Con l’arrivo di Richard Nixon alla Casa Bianca e del suo consigliere per la sicurezza nazionale Kissinger, le preoccupazioni inglesi avrebbero però contagiato anche parte dell’amministrazione americana. Kissinger considerava l’avvicinamento tra DC e PCI “pericoloso” a prescindere dall’allontanamento o meno dei comunisti italiani dall’ortodossia moscovita. Anzi. Sono numerosi i documenti ufficiali a proposito di questo punto. L’Eurocomunismo era più insidioso dei partiti apertamente filo-sovietici come quello del portoghese Alvaro Cunhal, secondo Kissinger, che vedeva gli inglesi sempre pronti ad un “intervento” in Italia.

Dal “compromesso” tra De Gasperi e Togliatti: tu non fai la rivoluzione (come già garantito dagli accordi di Yalta) io non ti metto fuorilegge (come accaduto in Grecia con la repressione dei partigiani comunisti per mano inglese), al cosiddetto “compromesso storico” cioè il tentativo di trovare una via italiana all’interesse nazionale da parte di un paese con mille vincoli internazionali e sostanzialmente spaccato al suo interno, il contesto bipolare era cambiato. Al tempo in cui Enrico Mattei fondò l’Eni (1953), con l’appoggio di De Gasperi, gli USA ancora influenzati dalle correnti rooseveltiane del passato lasciavano fare perché probabilmente si fidavano ancora di chi aveva gestito i soldi dell’OSS per resistenza italiana e contribuito alla creazione della rete Stay-Behind: Mattei. L’Italia era utile per Washington nel ridimensionare le pulsioni neocolonialiste di Francia ed Inghilterra in Nord Africa e Medioriente, anche se in alcuni ambienti economici USA c’era preoccupazione. Il presidente dell’ENI aveva pestato i piedi agli interessi britannici in Nord Africa e Medio Oriente con una politica energetica brillante e “spregiudicata”. Londra la vedeva come il fumo negli occhi, anche Parigi a causa dell’Algeria. Ma c’era ancora John F. Kennedy alla Casa Bianca che aveva aperto al primo centrosinistra italiano. Poi, dopo l’assassinio di JFK e l’anno dopo (1964) l’uscita di scena di Krushev si instaurò una sorta di “restaurazione” in seno alla guerra fredda. Breznev (dal 1964) da un lato e poi Nixon (dal 1968), sul fronte atlantico, avevano bisogno di serrare le file nel proprio campo. La guerra nel Vietnam per gli Usa e le invasioni di Ungheria prima e Cecoslovacchia poi per l’URSS, avevano minato fortemente il prestigio della leadership di Washington e Mosca. “Distensione” all’epoca voleva dire mano libera nel proprio campo d’influenza.

Il sentiero impervio del compromesso storico si fece spazio in quel clima ostile, probabilmente non del tutto compreso dai due protagonisti, Aldo Moro ed Enrico Berlinguer. E le norme vessatorie (ma comprensibili) del trattato di Parigi giustificavano l’eterodirezione dei nostri apparati di sicurezza, anche se nel tempo i vincoli si erano modificati, restavano come il “fermo” di una porta: più di tanto non si poteva aprire. La terminologia “servizi deviati” nasceva a causa di questa doppia fedeltà dei nostri apparati, le cui nomine di vertice passavano dal vaglio di Washington, i “cugini” americani (nel primo dopoguerra era invece competenza di Londra). Apparati poi messi nel tritacarne della politica nazionale: qualche volta sacrificati per ragioni di real politik, a volte comprensibilmente colpiti per eccesso di zelo. Il risultato fu un depotenziamento generale, perché ogni governo che si avvicendava, anche dopo la fine della guerra fredda, non aveva voglia di prendere il toro per le corna. Nei primi anni 2000 poteva essere un problema per un agente del Sisde (l’allora servizio civile interno) anche solo controllare l’identità di un cittadino italiano.

Comunque le istituzioni italiane, a causa delle norme del trattato e per la natura volutamente “debole” della nostra classe dirigente, risultavano assai fragili e influenzabili da ogni genere di interessi. Questa era, per sommi capi, la situazione dell’Italia ai tempi del rapimento Moro. Una realtà ben lontana dalla narrativa ufficiale che non lasciava trasparire nulla all’opinione pubblica e che – incredibilmente – ha resistito per molti anni ancora dopo la caduta del Muro di Berlino, quando sarebbe stato auspicabile costruire una vera pacificazione nazionale, partendo da verità storiche, per ricostruire un paese normale. Nulla di tutto questo è stato fatto. E all’epoca pochissimi italiani erano consapevoli di questa situazione: nella politica solo i vertici istituzionali e in misura parziale. L’anomalia di un paese NATO con il più forte Partito Comunista in Parlamento poteva essere paragonata, fatte le debite eccezioni, al quella dell’Indonesia che aveva il Partito comunista più forte al di fuori di URSS e Cina. Se guardiamo all’epilogo in quel paese – decomunistizzato fisicamente – dobbiamo dare atto a una parte della classe politica della Prima Repubblica di aver evitato un bagno di sangue. E in quel periodo lo scontro ideologico era senza quartiere da entrambe le parti.

L’infiltrazione di gruppi terroristici è una delle attività principe dei servizi. Per intenderci, un apparato di law enforcement arresta i terroristi, un “servizio” li arruola. L’elenco nominale di tutti coloro che parteciparono alla riunione a Costaferrata, nelle colline reggiane, avvenuta nell’agosto del 1970 dopo pochi giorni era nelle mani del Ministero degli Interni (che aveva l’elenco nominale di tutti partecipanti), della segreteria del PCI (Peppino Catelani ne aveva un resoconto “stenografico”), e più tardi le “schede psicologiche” di molti membri delle BR finirono ai Comitati di Resistenza Democratica di Edgardo Sogno e dei servizi di vari paesi alleati e no, grazie a un passaggio di carte tra Corrado Simioni, Dotti e Sogno. Simioni era il molto chiaccherato leader di una “setta” interna delle BR, ma di grande influenza nell’indottrinamento di molti brigatisti; Dotti fu per molti anni direttore della Terrazza Martini a Milano, ex membro di una brigata partigiana garibaldina, finì poi per collaborare con i servizi occidentali. Su Sogno è stato detto e scritto di tutto: sostanzialmente era stato un partigiano anti-comunista con rapporti con i SOE (Special operations executive) inglesi durante la guerra. Parecchio irruento e troppo decisionista per i delicati equilibri italiani. Ma cosa era successo nella trattoria da Gianni a Costaferrata? Erano nate le Brigate Rosse.

Il 16 marzo 1978 – il giorno del rapimento di Aldo Moro – in Parlamento sarebbe dovuto nascere un governo Andreotti IV con l’appoggio esterno del PCI (durò 374 giorni). Il primo passo concreto verso il compromesso storico. E che venne varato con una schiacciante maggioranza, grazie al clima d’emergenza causato dal rapimento. Un fatto che non era digerito da un’infinità di ambienti. Non piaceva al duo Nixon-Kissinger, specialmente dopo la presa di distanza di Berlinguer da Mosca a seguito dell’invasione sovietica della Cecoslovacchia nel 1968. L’entrata di un Pci dal volto “umano” in un governo di paese membro della NATO avrebbe potuto creare un effetto contagio in Europa e altrove. Un pericolo da un punto di vista di ortodossia politica. Erano comunisti ancora più insidiosi. Non piaceva a Brezhnev che vedeva l’immagine del comunismo moscovita appannata dai morti in piazza a Praga (come già era successo in Ungheria). Un Tito italiano, mutatis mutandi, era l’ultima cosa auspicabile. Ci fu anche un tentativo di uccidere Berlinguer durante la sua visita in Bulgaria. Pare il segretario del PCI sospettasse che l’incidente d’auto (3 ottobre 1973) che lo coinvolse sulla via dell’aeroporto a Sofia, non fosse il prodotto della cattiva sorte. Non piaceva alle ali oltranziste atlantiche e comuniste italiane che lo vedevano come un “tradimento”, ovviamente per ragioni opposte. Il progetto era comunque visto come una scelta quasi obbligata per far uscire il paese da uno stallo interno causato dalle prime grosse crepe di un sistema “democratico” nato, come abbiamo detto, pieno di limitazioni, e che faceva già acqua. L’uccisione di Moro portò al tramonto di questo progetto e prese piede un suo sottoprodotto: il consociativismo. Riguardo alle ali oltranziste di entrambi i fronti è utile ricordare le parole di Francesco Cossiga: “La nostra è stata una storia di odio ideologico feroce che ha prodotto anche dei mostri dall’una e dall’altra parte (…) Credo ci sia stato un momento in cui parte dell’apparato dello Stato abbia ritenuto opportuno che si mettesse al sicuro l’atlantismo del nostro paese. Questo à avvenuto durante gli anni di avvicinamento tra Dc e PCI».

Ma veniamo alle incongruenze nelle ricostruzioni ufficiali fatte dai brigatisti sul rapimento Moro e l’esecuzione della sua scorta. Il numero dei componenti del gruppo di fuoco, vedette e stand by secondo Valerio Morucci era di nove persone – nel 1997 ne aggiungerà un’altra, Rita Algranati. Alberto Franceschini mette in dubbio questa ricostruzioni, davanti alla Commissione. «Nel rapimento Sossi (che non era scortato) furono impiegate dalle BR complessivamente diciotto persone (sei eseguirono materialmente il rapimento, altre tre che presero in consegna l’ostaggio per trasportarlo nel luogo di prigionia e le rimanenti nove erano nei dintorni pronte ad intervenire. Pertanto il numero di persone coinvolte nell’agguato di via Fani – secondo la versione di Morucci – appare evidentemente molto esiguo».

Vi è un altro punto colpevolmente non approfondito come meriterebbe anche a livello giornalistico. La soffiata su via Gradoli. La finta seduta spiritica in casa Prodi che portò ad una prima grottesca interpretazione: si andò a cercare nel paese di Gradoli. Quindi visto che chi doveva recepire quel messaggio o era “stupido” o faceva orecchie da mercante, si mandò qualcuno in via Gradoli a lasciare aperta l’acqua di un doccino in direzione di una mattonella rotta, secondo ciò che videro i Vigili del Fuoco intervenuti dopo una chiamata. Perché? Chi sapeva, voleva colpire Moretti, cioè il capo delle nuove BR, dopo gli arresti di Curcio e Franceschini, che si riteneva non avrebbe fatto uscire vivo Moro dalla prigionia. Ma questa è una nostra ipotesi giornalistica. Alcuni BR avrebbero poi retto il bordone sulla tesi della “sbadataggine” di Barbara Balzerani che condivideva l’alloggio con Moretti durante il sequestro Moro. Una tesi recentemente ribadita da Adriana Faranda intervistata da Ezio Mauro. È la conferma che le BR catturate qualche patto con lo Stato lo hanno fatto. Probabilmente perché la narrativa ufficiale non uscisse dal seminato del dicibile, visto che la tenuta delle istituzioni italiane si fondava su basi molto fragili. Un frangente che supporta la tesi di Francesco Cossiga che ventilava la possibilità che fossero in tanti negli ambienti delle sinistra extraparlamentare, parlamentare e istituzionale a conoscere molto sul rapimento Moro. Il caso Ruffilli, il costituzionalista, stretto collaboratore di Ciriaco De Mita, assassinato il 16 aprile del 1988 – ben 10 anni dopo Moro – perché coinvolto in un progetto di riforma costituzionale in accordo col PCI. Un altro tentativo di “compromesso storico” utile a rilanciare il paese, ma sentito come “cambio delle regole del gioco” dall’ortodossia comunista. Il problema è che, visti i precedenti, il lavoro che stava svolgendo Roberto Ruffilli era coperto dal massimo riserbo. Qualche personaggio influente nel PCI passò la notizia alle BR? Che le BR si prestassero a lavoretti al di fuori della pura e semplice “pianificazione strategica” si vocifera da tempo. E i legami fra alcuni ambienti politici e i gruppi armati gemmati dalla sinistra armata sono durati almeno fino ai primi anni del 2000. E il filo rosso arriva fino all’omicidio di Massimo D’Antona (20 maggio 1999) e di Marco Biagi (19 marzo 2002).

Portare alla luce senza filtri tutti gli aspetti del caso Moro potrebbe essere l’occasione per rifondare il paese su basi più solide: sulla verità. E quali sarebbero le fragilità dell’Italia post-bellica? Il fatto che fino al 1944 fosse ancora profondamente fascista in larghe fasce della popolazione, che le crepe del regime già presenti, vennero alla luce solo dopo l’operazione “Husky”: lo sbarco alleato in Sicilia. Che l’antifascismo attivo nacque dopo quella data e che non fu militarmente determinante, se non in alcuni passaggi. Peggio, si divise subito in antifascismo nazionalista, che voleva ricostruire un paese nella sua integrità e un antifascismo anti-nazionalista che non riteneva l’Italia degna di una seconda chance e vedeva la resistenza come l’inizio della rivoluzione “socialista”. Un approccio politico che nel dopoguerra portò a sinistra alla nascita dell’ideologia della “rivoluzione tradita” che aveva i suoi mentori politici nel PCI di Secchia e i suoi commissari politici in Vittorio Vidali (diventato anche parlamentare), sarebbe a dire un comunista italiano agente del GRU, l’agenzia di intelligence militare dell’URSS, con un curriculum che non lo farebbe sfigurare in un racconto di Le Carré. Una narrativa che le BR raccolsero come testimone nell’agosto del 1970. E che fu alimentata ad arte, con ignavia politica, generando un senso di frustrazione reale in chi ci aveva creduto. L’aver militato nella Resistenza diventò presto un passaporto per carriere politiche e nelle alte cariche dello stato – un po’ come un Phd in una università prestigiosa – e come succede anche oggi, fioccarono le millanterie. Leggendo i cv di molti politici della Prima Repubblica la dicitura “capo partigiano” cozzava spesso con l’anagrafe. I partigiani e gli anti-fascisti della 25ma ora divennero la maggioranza. Offendendo chi la Resistenza l’aveva fatta veramente e generalmente era rientrato nella vita normale senza fanfare, come succede spesso per i veri combattenti di ogni bandiera. Si era così creato un clima in Italia che rendeva la ricerca di un accordo politico di governo tra DC e PCI un percorso ad ostacoli tra nemici interni ed esterni. E dove l’identità nazionale non era semplicemente fragile: non esisteva. Per capire il clima di quegli anni è utile sapere che a Torino, ad esempio, un funzionario nazionale del PCI poteva incontrare in trattoria due BR come Curcio e Franceschini, già in clandestinità, seduti a tavola con un funzionario locale del PCI delegato per Mirafiori. E che tutti facessero finta di niente. Dopo l’accordo Dalla Chiesa-PCI il clima cambiò, come ammise lo stesso Franceschini «avvertimmo che intorno a noi il clima non era più lo stesso». Ed era ora.

Un elemento positivo e di chiarezza viene infatti dal ruolo svolto proprio dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e dalla magistrale gestione “politica” del suo ruolo. Quando nel 1974 gli venne dato incarico di “sgominare le Br” la prima mossa fu di incontrare Giancarlo Pajetta e Ugo Pecchioli del PCI, elementi chiave dei rapporti internazionali e della sicurezza. I risultati arrivarono presto. Fu inviato a Praga un funzionario del PCI (Salvatore Cacciapuoti) per dire ai Cecoslovacchi di piantarla con l’addestramento dei terroristi italiani. Non solo, ma il PCI fornì a Dalla Chiesa uomini da usare per infiltrare le BR. Numerosi funzionari locali del partito e della CGIL avvicinarono i brigatisti proponendo un accordo – di cui si faceva garante l’avvocato Alberto Malagugini, uomo di Pecchioli e padre di Silvia, compagna del BR Duccio Berio. Abbandonare la lotta armata mettendosi nella mani di “magistrati amici” e un non luogo a procedere per uscirne puliti. Solo Corrado Simioni e pochi altri accettarono e trasmigrarono a Parigi, fondando l’Hyperion, che divenne un’attività di copertura di un pool di servizi occidentali dedicati alla lotta al terrorismo di marca ideologica in Europa. O come disse un testimone con le stellette in commissione “una camera di compensazione di vari servizi». Anche se è possibile che la defezione di Simioni sia avvenuta prima del 1974. Occorre segnalare che il nucleo anti-terrorismo di Dalla Chiesa fu sciolto nel 1976 e il generale ascoltato dalle precedenti commissioni nel 1980 e ’82 ripeteva «le BR erano una cosa. Le BR più Moretti un’altra cosa». Il generale era inoltre convinto che il cervello strategico delle BR fosse fuori dall’Italia.

Oggi col volume di informazioni ottenute, i documenti desecretati e una pubblicistica attenta (consiglio Il Puzzle Moro, di Giovanni Fasanella, una cronaca molto informata e storicamente bene inquadrata) possiamo abbandonare il campo del denso fumus della controinformazione, sparsa a piene mani da entrambi i fronti durante la guerra fredda, per entrare nel campo delle ipotesi probabili e verosimili. Per la verità servirebbe un passo ulteriore.

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