Nicola Fano
Una memoria fra teatro e società

Autobiografia del ’78

16 marzo 1978, Aldo Moro viene rapito e la sua scorta trucidata, Giorgio Strehler prova "La Tempesta" di Shakespeare: quando uno spettacolo può racchiudere l'incubo di un'epoca e il segno che questa lascerà sul futuro

Quarant’anni fa, quando rapirono Aldo Moro – il 16 marzo del 1978 – ero all’università, come ogni mattina. Con due o tre amici andavamo sempre a prendere il caffè al bar sotto il Rettorato, alla Sapienza di Roma: ci trovavo una ragazza che faceva la bibliotecaria all’Alessandrina che mi piaceva, così avevo convinto i miei compagni ad andare lì malgrado ci fossero altri bar più vicini alla nostra facoltà, Lettere. Non so se conoscete La Sapienza: a destra e a sinistra della celebre statua della Minerva ci sono due passaggi sotto l’edificio che ospita, appunto, il Rettorato e l’Aula Magna. La facoltà di Lettere sta all’estrema destra, quindi per andare al bar dovevamo passare nella “galleria” di destra. Lì sotto c’era, da un lato, l’ingresso per la Biblioteca Alessandrina e dall’altro una specie di garage dove il rettore e i suoi dipendenti diretti parcheggiavano le automobili: un privilegio inutile, perché allora c’era parcheggio dovunque, nella Città universitaria; al punto che anche gli studenti arrivando la mattina presto trovavano posto per la macchina nelle strade della cittadella (io andavo in vespa, era più comodo). Insomma, la mattina del 16 marzo del 1978, passando davanti a quel garage lo trovammo aperto, ed era già una cosa strana. In più, si sentiva la radio che parlava, da dentro. Il garagista che stava sentendo il notiziario, cogliendo le nostre facce interrogative, ci disse solo: «Hanno rapito Moro».

Capimmo subito che stava succedendo qualcosa di grave, di veramente grave. Certo, erano gli anni di piombo, scorrevano sangue e violenza in tutto il Paese, il conflitto tra ideologie e convenzioni era altissimo, ma quell’annuncio («Hanno rapito Moro») era più pesante di tutto ciò a cui avevamo finito quasi per fare l’abitudine. Un evento inaspettato. Come se fosse impensabile che “loro” fossero arrivati a tanto.

Quella mattina di quarant’anni fa, con gli amici rimanemmo lì, all’ingresso del garage del rettore, a sentire la radio. Ci rimanemmo per parecchio tempo perché il notiziario diventò una trasmissione di commenti, non smetteva mai: quel che era successo sembrava davvero assurdo. Non c’erano i talk show, come adesso, alla radio non si sprecavano parole inutili: non c’era tempo da perdere. Ma in quella trasmissione si alternarono in tanti (per lo più cronisti) a cercare di spiegare come e perché quelli avessero osato una cosa tanto grossa! Si diffuse la voce – anche a noi chiusi lì nel garage che piano piano si riempì di ragazzi che volevano sentire, sapere, ascoltare – che eravamo in sciopero. Sciopero spontaneo contro la violenza. Chi è poi, ‘sto Moro? Uno della Dc, ma uno bravo. Di sinistra! Quelli della Dc sono tutti… ma questo è onesto. Non pensammo subito ai cinque della scorta che erano stati ammazzati, forse non lo dissero nemmeno troppo chiaramente, alla radio. Ci ripetevamo: hanno osato l’inosabile! E non sembrava vero. Non sembrava possibile.

Dopo un po’, quando s’era fatto un gran capannello lì davanti al garage del rettore, decisi di andarmene. Presi la vespa per tornare a casa: sarei rimasto lì a sentire, a capire. Non sapevo nemmeno che cosa. Ma mi ricordo bene che avevo poca benzina e allora mi fermai a un distributore a fare rifornimento. Il benzinaio piangeva: me lo ricordo benissimo. «Che me guardi, ‘a ragazzi’! Non l’hai sentito di Moro? È finito tutto!», mi disse. «Tutto. A noi che volevamo esse’ di sinistra, adesso ci toccherà di farla finita: sennò quelli ci diranno che siamo brigatisti. Ma brigatista a chi!».

Allora forse non avevo così chiara la questione, ma da qualche parte nella mia giovane testa (avevo diciannove anni) capii che il mondo non l’avremmo più cambiato, perché lo Stato, il nostro malandato Stato italiano era permeabile a ben altre urgenze che non le nostre. E perché c’era qualcuno che aveva esagerato con le pretese: come se si fosse potuto davvero fare una rivoluzione, in pieno Occidente, in piena Guerra Fredda! Come se un piccolo paese ai confini del mondo antico non fosse terreno di ben altre contese che non le nostre e quelle – miserabili – dei terroristi. Comunque, io e molti come me capirono subito che da allora in poi avremmo dovuto chiedere scusa; e giustificarci e dire che no, noi non siamo terroristi. E dire che noi siamo di sinistra ma non vogliamo ammazzare nessuno. E dire che i servizi segreti americani non ci piacciono ma non per questo non vogliamo più vedere film o ascoltare rock. E dire che lo Stato italiano non è che ci piaccia troppo ma noi non vogliamo sparare alla gente per migliorarlo; e non serve rapire Moro per rendere il mondo più giusto. Insomma: noi non avremmo mai detto «né con lo Stato né con le Br» perché volevamo cambiarlo da dentro, quello Stato. Sicché il caso Moro sarebbe stato il nostro peccato originale: lo avremmo scontato vita natural durante. In quel momento ci trovavamo tutti – tutti noi variamente consapevoli, tutti noi variamente contrari alla confusione sociale agitata da dentro e da fuori l’Italia, tutti noi che avremmo preferito cambiare le cose facendo politica – nel cuore di una vera tempesta che non sapevamo quando sarebbe passata. Nessuno, tuttavia, supponeva quel che sarebbe successo, ossia che quella tempesta non si sarebbe placata più. Che l’orrore morale sarebbe diventato la norma.

Bisogna sapere com’era la vita, negli anni di piombo, nelle grandi città italiane. A Roma, per esempio, ogni sabato c’era una buona occasione (un corteo, uno sciopero, una manifestazione…) perché qualcuno scendesse in centro a sparare. Sparare, sì. Per le strade, ad altezza uomo. E a chi tocca, tocca. È toccato a parecchi, purtroppo. Qualcuno aveva da attaccare, tutti avevano da difendersi. Mio padre, giornalista, girava con la pistola nel cruscotto della macchina; autorizzato dalla questura, ovviamente. Non credo l’abbia mai usata, ma all’occasione sono certo che lo avrebbe fatto. Invece molti ragazzi come me cercavano in ogni modo di ostentare la propria non-violenza, ma non era facile: se avevi vent’anni e avevi la barba lunga (io l’avevo) a ogni posto di blocco ti fermavano. E c’erano posti di blocco ogni cento metri: avrebbero potuto trovare un ago in un pagliaio, e invece la galera di Moro l’hanno trovata solo a cose fatte. (Ce lo chiedemmo subito: ma davvero vogliono trovarla? Perché altri rapiti sono riusciti a liberarli?). Una sera, nel cuore di Roma, stavamo con degli amici a suonare la chitarra in un piccolo giardino sulla centralissima via Flaminia: in un niente fummo circondati da quattro volanti dalle quali scesero dieci poliziotti con i mitra puntati su di noi. Roba che se uno di noi o uno di loro fosse stato debole di nervi, ora non sarei qui a raccontarlo, probabilmente. Ciò che quegli anni hanno ucciso – oltre a Moro, i cinque poveri lavoratori che rischiavano la vita per pochi soldi al mese e tanta altra gente per bene – è stata la fiducia. La fiducia reciproca. La fiducia nel prossimo. La fiducia anche nello sconosciuto. E la paura è diventata una categoria commerciale. Tutto il peggio di oggi è cominciato lì.

Il 16 marzo del 1978 Giorgio Strehler, a Milano, stava provando La tempesta di Shakespeare al Piccolo. Ettore Gaipa, che teneva il diario delle prove, quel giorno scrisse: «Aldo Moro è stato rapito stamattina. È stato proclamato uno sciopero generale, la prova è stata sospesa. Proprio ieri Giorgio parlava dell’impotenza dell’arte, dell’impotenza del teatro a mutare e rendere migliore la società, riferendosi alla simbologia di Prospero che abiura la sua “magia”. Siamo tutti come schiacciati da questo che è il più recente di infiniti drammi che stanno travagliando la nostra società – ma è spaventoso rendersi conto che questo, come altri drammi, sembra solo sfiorare le coscienze di tanti cittadini». Più chiaro di così!

La Tempesta di Shakespeare-Strehler-Lombardo la vidi mesi dopo: andai a Milano apposta perché pareva che questo spettacolo dovesse essere di quelli che avrebbero cambiato il mondo. E noi giovani aspiranti teatranti avevamo fortemente bisogno che il mondo cambiasse, malgrado il sangue, malgrado uno Stato pagliaccio, malgrado le Br, malgrado tutto…

La Tempesta di Shakespeare è un testo sulla conoscenza: si capisce la vita vivendola. È un evento concreto (anche se magicamente procurato, appunto la tempesta del titolo) a far capire a Ferdinando, Gonzalo e gli altri che il passato contiene una frattura che nessuno ha ricomposto. È vivendo che Miranda capisce che stare al mondo non è solo mangiare, respirare e ricordare ma anche amare, sentire su di sé il desiderio. È vivendo e assemblando prodigi concreti (teatro) che Prospero capisce come la vita vera stia da un’altra parte, non su quell’isola inutile dove lo hanno fatto naufragare un fratello assetato di potere e il caso. Bisogna vivere. E il teatro ha senso solo se è vita a propria volta: questo è ciò che Shakespeare ha tentato di dire e fare (sulla scena) fino alla fine. Bisogna recitare la vita che si sta vivendo: «Vivere per raccontarla», come avrebbe precisato poi García Márquez. Solo che la conoscenza, nella Tempesta, coincide con la fine, con la morte. A che cosa penserà Prospero, una volta tornato a Milano? Non penserà mica ai nipoti; penserà che la sua vita è finita, tutta completamente consumata lì dove non c’era vita da vivere. Si giustificherà: dirà che, mentre il suo tempo si bruciava, lui stava su un’isola disabitata. Chiederà scusa per le colpe degli altri: le colpe che quei miserabili “terroristi” di Antonio, Alonso e Sebastiano hanno commesso anche per lui, mentre lui era altrove e inseguiva altri sogni e altri incubi. Dirà così, si attribuirà delle responsabilità pur sapendo di essere contemporaneamente vittima di quelle medesime colpe “condivise”. E così fino alla fine, fino alla morte: perché la vita anche per Prospero era quell’occasione sprecata da altri che hanno “osato pensare a tanto”.

La Tempesta è un capolavoro sulla fine. Vi si racconta del Duca di Milano, Prospero, che viene detronizzato dal fratello Antonio e abbandonato in mare con la figlia Miranda di tre anni. Così, alla deriva. La delicatezza di un vecchio uomo di Stato, Gonzalo, gli ha evitato morte certa e, grazie a poche provviste, gli ha consentito di sopravvivere fino a sbarcare su un’isola deserta. Della quale diventerà il padrone, avendo al suo servizio uno spirito dell’aria e un mostro, Ariel e Calibano. È con loro che Prospero raffina la sua arte magica, ciò a cui, colpevolmente?, a Milano s’era dedicato con eccessiva costanza invece di occuparsi del governo della città. Ma proprio grazie alla sua arte riesce a combinare la sua vendetta: facendo fare naufragio sulla sua isola al fratello colpevole e alla sua corte, al momento composta anche dal sodale re di Napoli Alonso, dal di lui giovane figlio Ferdinando e da alcuni altri tra cui il vecchio buon Gonzalo. Prospero non sa che pena vorrebbe davvero infliggere ai suoi vecchi usurpatori, ma quando scopre la passione della figlia Miranda per quegli esseri viventi che lei non aveva mai potuto vedere; quando riesce ad accettare che la figlia voglia vivere, conoscere e crescere, allora decide che la sua vendetta sarà rimettere le cose a posto. Ossia costruire un futuro nel quale le sue ragioni e le ragioni dei suoi nemici siano riunificate nella coppia composta da sua figlia Miranda e dal figlio di Alonso, Ferdinando. Ovviamente, non prima di aver abbandonato la magia e aver liberato il suo servo Ariel: tornando nella vita reale, quella roba non serve più.

La Tempesta è un copione che esprime la supremazia della vita sulla finzione e quindi sul teatro (viene definito il testamento poetico di Shakespeare). Prospero alla fine spezza la sua bacchetta e abbandona i libri sui quali ha studiato magia. E pronuncia la celebre, magnifica battuta: «Il nostro spettacolo è finito. Questi nostri attori erano tutti spiriti e si sono dissolti nell’aria sottile. E, come l’edificio senza fondamenta di questa visione, le torri ricoperte dalla nubi, i palazzi sontuosi, i templi solenni, lo stesso vasto globo, sì, con tutto ciò che contiene, si dissolveranno. E come questa scena sena sostanza, ora svanita, svaniranno senza lasciare traccia. Noi siamo fatti della materia di cui son fatti i sogni: e la nostra piccola vita è circondata dal sonno». Difficile non leggere in queste dolci parole la triste percezione della propria fine, del prosciugamento della propria fantasia: è come se Shakespeare qui avesse voluto chiedere perdono ai suoi spettatori perché sapeva che lui non avrebbe più avuto altro da inventare. E infatti così fu: dopo La Tempesta, Shakespeare scrisse solo poche parole. A mezzo servizio, per altro.

Tutto questo, naturalmente, era ben in vista nello spettacolo di Strehler, anche grazie alla magnifica, fedelissima traduzione di Agostino Lombardo e alla bravura dei due attori protagonisti, Tino Carraro e Giulia Lazzarini la quale, come Ariel, volteggiava in aria appesa a un filo. Ma in quello spettacolo c’era anche un’altra traccia poetica che io – oggi – chiamerei l’autobiografia del Settantotto. Il Prospero di Tino Carraro non era un uomo che serenamente tracciava il bilancio della propria vita e consegnava il futuro alla figlia e al marito di lei. No. Era un uomo sconfitto. Non era un artista che annuncia il proprio ritiro dalla scena pubblica ma era un creatore costretto a mettere in scena l’inadeguatezza della propria creatività a fronte di una realtà violenta oltre misura. Il capolavoro di Strehler erano uno spettacolo sulla sconfitta dell’arte. La stessa annotata – su suo suggerimento – da Gaipa nel diario delle prove del 16 marzo. Prove sospese causa sciopero, per altro: e anche questo è un segno. Nello spettacolo vibrava un tono nero, drammatico, preannunciato fin dalla tempesta iniziale (Shakespeare immagina un vero naufragio in scena) che, simbolicamente, si concludeva con il crollo della macchina scenica che aveva mosso le onde di seta e tenuto dritto l’albero di maestra. Che può più fare il teatro di fronte alla tragedia di una società che divora se stessa come in un immenso talk-show mentre altri sparano, tramano, violentano, uccidono? Questa, palesemente, è la domanda che sottendeva La Tempesta di Strehler che andai a vedere a Milano.

Non ricordo di averlo capito così chiaramente, allora. Per due ragioni. Da un lato, a vent’anni si è propensi all’ottimismo: a vent’anni il presente è fatto di futuro. E in futuro può succedere tutto. E poi perché sul momento non mi chiesi quale sarebbe stato il destino di Prospero dopo la fine della sua recita: probabilmente mi accontentai della gioia di Miranda e Ferdinando. È la forza del teatro che suggerisce e lancia segnali che spesso restano sotto la pelle, pervadono i pensieri ma lì per lì non necessariamente si impongono. Eppure costringono prima o poi a pensare a tutto il resto. Anche alla sconfitta che nell’immediato non volli leggere.

Ho potuto rivedere La Tempesta qualche anno dopo, a Roma, e finalmente ho iniziato a capire. Ma questa è un’altra storia: il Settantotto ormai era passato, eravamo entrati gaiamente nella stagione dell’egoismo.

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