Arturo Belluardo
Un racconto inedito

Apri gli occhi

«L’acqua era inesistente, puro fondale, solo una pellicola zaffiro su ricci, pesci, salicornia, corallo. Pochi bagnanti deturpavano quella chela di pietra lavica che si sporgeva sul mare, altrimenti solo nostra»

Apri gli occhi, non vedere.

Apri gli occhi, guarda solo me.

Apri gli occhi, guarda i miei occhi, guardaci riflesso il turchese del mare. E la tua faccia, la tua bella faccia piena di voglia di me.

Apri gli occhi, non vedere più gli scogli di basalto della Balata dei Turchi, non vedere più le alghe, il limo, le patelle incollate alla pietra. Non vedere più i pesci cavaliere, le castagnole, le occhiate, le salpe, le orate, le murene, le stelle marine rosso fuoco.

Il fuoco lo devi trovare solo nei miei occhi. E nel mio cazzo rosso, e duro, e venoso. Il mio cazzo che si appoggia a te e sta per entrarti dentro.

Apri gli occhi, non vedere. Non vedere più i pochi turisti di questa fine settembre, chicchi dorati di zibibbo messi ad appassire al sole ancora caldo di quest’isola, di questa quasi Africa.

Non vederli sopra di noi, sopra quest’anfratto di roccia incuneato tra gli scogli piatti e grigi, sopra questa cala morbida su cui ho appoggiato il tuo culo bruno, su questa piccola grotta di passione. Su quest’alcova di pietra, alghe e pomodori di mare, dove, da uno spacco laterale, filtrano pulviscolo rovente e accenti ruvidi del Nord. Lasciali spalmati, inutili e soli, sulle loro creme senza parabeni, all’olio di mandorle amare.

Non vederli, non ascoltarli: le loro ciarle da apericena saranno il sottofondo del nostro amplesso, ritmeranno i colpi con cui ti farò godere.

Pantelleria non li merita.

Questo è il luogo dove Venere si specchia nel verde.

Questo è il luogo dove si sudano amori.

Amori come il nostro, approdati a quest’isola per consumarlo per intero, per vederlo strinarsi sulle lenzuola vulcaniche.

Ancora ti vedo girare per il dammuso, con il tuo vestitino bianco alla Marilyn a contrasto con la pelle abbronzata da tuo marito. Sfioravi gli intarsi di pietra vulcanica, i fichi d’india, la bouganvillea, il pergolato di vite, sussurravi: “Che meraviglia”.

Ti addentravi per l’infilata di stanze, mentre il vento caldo faceva frinire le tende di lino; cercavi il letto, quello con la zanzariera a baldacchino che avevi visto in foto, ti sedevi sul bordo di noce, mi tiravi a te con le mani.

“Scopami qui, scopami adesso”.

E ti guardavo, con la bocca aperta, con le gambe aperte, con la fica aperta, con l’anima aperta.

Ti guardavo e non riuscivo. Sudore, solo sudore.

“Chiudi gli occhi, non guardare” mi dicevi “Stenditi accanto a me, rilassiamoci, facciamoci le coccole”.

Ma io ero rabbia, frenesia, tremore. Cercavo di infilarti in bocca il mio cazzo floscio, che tu mi aiutassi.

Ma tu: “Dai andiamo a fare un bagno”.

E scendevamo alla Balata dei Turchi, tu radiosa, io schiumante.

L’acqua era inesistente, puro fondale, solo una pellicola zaffiro su ricci, pesci, salicornia, corallo. Pochi bagnanti deturpavano quella chela di pietra lavica che si sporgeva sul mare, altrimenti solo nostra.

Con un risolino da bambina viziata, lasciavi scivolare l’abito bianco ai tuoi piedi, rimanevi in tanga, le natiche nere e sode, le tette arroganti, i capezzoli duri.

Si giravano a guardarti i maschi intontiti, le femmine invidiose.

Io, con la mia rabbia.

Ti tuffavi in un arco perfetto, i lunghi capelli che ti scodinzolavano sul culo.

“Tirami la maschera, vieni anche tu, è bellissimo, l’acqua è tiepida”.

Ti allontanavi a rana e io dietro a te, a spiare ogni colpo di gambe perfetto, piedi a martello, spalle che emergevano in scrosci d’argento.

E la maschera mi ampliava la visione azzurra del tuo sesso che si apriva con le tue cosce, azzurro nell’azzurro, tu nuotavi e io arrancavo, bestia, dietro di te.

A guardarti.

A vederti impossibile, e proprio perché impossibile, sentire la mia rabbia sorda montare, sentire il mio cazzo gonfiarsi, diventare metallo, nonostante l’acqua, nonostante la maschera.

Ti seguivo in questa piccola insenatura, quasi una grotta che hai scoperto nuotando: sopra di noi stavano distesi i turisti, distesi a non vederci.

E a vederti levare dall’acqua, con il mare che ti scorreva in piccoli affluenti lungo la pelle, a circumnavigare i capezzoli, a confluire sul tuo monte di Venere, a vederti schiudere la bocca come un’ostrica tintinnante di perle.

Mi sono sollevato anch’io, senza costume, dio marino, tritone, satiro, con la mia voglia dura che puntava a te.

Apri gli occhi, non vedere.

Guarda, guarda solo me, guarda il mio desiderio, guarda la voglia che ho di te.

Guarda, guarda il mio cazzo.

“Ma… cosa fai?”.

Il tuo sguardo si vela, il sorriso si chiude.

Non rispondo e ti spingo verso il fondo della grotta, dove le alghe sono morbide, con la fica in mezzo all’acqua.

“Cosa fai? Non voglio, non voglio”.

“Come non vuoi? Mi hai detto tu di scoparti”.

“Non così, non qui, non voglio, lasciami”.

Ti chiudo la bocca con la mano e ti sposto il tanga, sono dentro l’acqua, sono dentro di te, dentro la tua fica fatta d’acqua.

“Apri gli occhi, guardami”.

Ma i tuoi occhi sono inchiodati nel vuoto, come quelli di un sarago appena pescato, nell’ultimo guizzo prima di soffocare.

Ti stringo il bacino e lo spingo verso di me, l’altra mano ti divide a metà la bocca, i tuoi denti sul mio dorso. Non mi mordi però: in fondo lo volevi anche tu.

I miei colpi si fanno più violenti, tu sei diventata morbida come lattuga di mare, e io ti sto scopando, sto scopando il mare.

Mi spingi via mentre sto venendo e le castagnole, le occhiate, i pesci cavaliere si precipitano a bere il mio sperma con bocche voraci.

Ti accasci di lato piangendo.

Io mi abbandono nell’acqua tiepida, non riesco neanche a dirti: “Scusami, mi dispiace”.

Apro gli occhi e non ti vedo più.

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