Luca Fortis
Un incontro tra spettacolo e attivismo

Tammorre in fabbrica

Marcello Colasurdo e l'attore "CiroCiretta" presentano a Torre Annunziata uno spettacolo di musica, teatro popolare e impegno: Sciò, Sciò, Femminielle, Tombola e Tammorre“. Ecco come ce lo raccontano

Sabato prossimo, 24 febbraio alle ore otto al porto di Torre Annunziata, nella Darsena dei Pescatori, si terrà in un circo, lo spettacolo Sciò, Sciò, Femminielle, Tombola e Tammorre. Lo spettacolo è organizzato dall’Associazione delle Femminielle Antiche Napoletane (Afan) e dal Caffè Letterario Nuove Voci, con il patrocinio morale del Comune di Torre Annunziata. Vi parteciperanno il cantore Marcello Colasurdo, il gruppo degli Ars Nova, Poppea, Angelo Scarpati, Bruno Buoninconti, la musicista e attrice H.E.R e CiroCiretta. Succedeoggi ha incontrato il cantore Marcello Colasurdo e l’attivista dell’Afan e attore CiroCiretta.

Marcello Colasurdo, com’è nato il tuo rapporto con la Tammurriata?

Io sono un figlio della tradizione, del mondo dei “cortili” di Pomigliano d’Arco. Luogo dove sono stato cresciuto in mondo contadino. C’era il canto della gallina, si andava ad Acerra per coltivare la terra. Da sempre ho sentito i contadini cantare mentre lavoravano. Sono nato con le sonorità di questa cultura del cortile e legata alla terra. Erano le donne che comandavano, ma lavoravano anch’esse. Si cantava, si rideva e si piangeva insieme. Era una piccola comunità, anche se già nascevano le prime industrie e qualcuno andava in fabbrica. Vivevamo una contraddizione sonora, il gallo cantava ma verso le sei del mattino sentivi anche la sirena della fabbrica dell’Alfa Romeo. La tammurriata era presente in ogni aspetto della vita. Quando morivano gli anziani, i capostipiti, le persone piangevano i propri morti con i canti a “fronna”, chiamati tecnicamente a distesa. Si trattava di un canto acre, in cui si raccontava la vita del defunto. Si riempivano le bare di vino, pane e grano, erano quasi delle barche per un viaggio verso l’eternità. Quando cantavano queste donne parlavano con il morto: “Me lo dicesti con la bocca tuia”. Cantando a fronna raccontavano di quando il marito gli propose di fare la “fuitina”. “Me lo dicesti con la bocca tua – dicevano – di scappare insieme prendendo il treno Pomigliano-Baiano”. Definivano il defunto “un traditore” perché passato dall’altra parte cioè nell’aldià. La morte non era un evento triste, era una festa. C’erano le coefore che cantavano la vita del morto con tanto di libagioni, come nel mondo greco. Nel cortile permaneva una grande sacralità.

Hai lavorato per molti anni in fabbrica

All’Alfa Romero lavoravano ex contadini, la fabbrica li aveva presi, ma non li aveva cambiati. Se questo fosse avvenuto, oggi non ci sarebbero più le tammurriate, i riti religiosi, il mondo dei femminielli. Quando lavoravo in fabbrica facevo l’operatore ecologico. Ogni tanto mi mettevo a cantare e gli operai che stavano alle macchine numeriche mi rispondevano cantando anch’essi. Le tammurriate convivevano insieme ai rumori frenetici della fabbrica. Siamo figli di queste radici, siamo passati dal cortile alla fabbrica. Oggi gli operai rimasti vengono ancora al Santuario di Montevergine per venerare la Mamma schiavona, la Madonna che protegge i femminielli.

Il mondo rurale di Pomigliano, le paranze di tammorra e anche i femminielli sono legati anche alle Mater Matutae?

Certamente, le Mater Matutae sono le madonne dell’epoca romana. Hanno tanti figli tra le braccia per rappresentare la fertilità.  Raffigurano la madre terra fertile che partorisce. I femminielli sono molto legati al mondo di Cibele e delle Mater Matutae,  perché come la natura è sia maschile che femminile, lo siamo anche noi. Come il sole e la luna. È la madre terra che ci ha creato e concimato così. In fondo i sacerdoti di Cibele si auto eviravano probabilmente proprio per ricordare questo concetto. Oggi laddove vi erano culti legati a Cibele o alle Mater Matutae, vi sono santuari legati alla Madonna. Luoghi in cui avvengono procession, in cui si suonano le tammorre e in cui vanno in processione i femminielli. La terra è generatrice. I contadini non hanno la consapevolezza degli antropologi, semplicemente perpetuano questi riti antichissimi. Ancora oggi ai funerali alcuni anziani mettono una monetina nella bara e dicono: “Se non dai la monetina, quello nun te fa passare”. Non sanno che parlano di Caronte.  Raccontavano che il canto era per far festa perché la persona tornava da dove era venuta. Era un mondo circolare.

Questo rapporto ha influenzato anche la musica?

Anche le tammorre recano ancora molte tracce del culto di Cibele. Per rappresentare la creazione spesso nei canti si toccano le parti intime, come se si spargesse il seme. Si indicano i genitali maschili e anche femminili. Anche il vero Pulcinella, quello della tradizione, è diverso da quello goldoniano. Rappresenta il seminatore che fertilizza Cibele per far rinascere la vita. Noi ancora lo rappresentiamo con questo significato nel carnevale. Anche quando facciamo il matrimonio della “Zezza” vi è traccia di Cibele. L’anziano è il vecchio anno che non vuole andare via. La Zezza, che è la natura, è la moglie e rappresenta la madre terra che è ruffiana. Lo caccia perché deve arrivare il nuovo marito, la primavera. Lei deve vedere tutti e quattro mariti che rappresentano le stagioni.

Al Santuario di Montevergine durante la Candelora sei il sacerdote che sale la scala santa e viene ammesso davanti alla Mamma Schiavona per conto della comunità dei femminielli.

Durante la candelora la Mamma Schiavona, che è la Madonna di Montevergine invoca l’arrivo della primavera che fertilizza. In quel luogo hai un rapporto diretto con la Madonna, con la madre terra. Diventi quasi un sacerdote, dici cose tue che nessuno ti insegna. Sono preghiere, salmi che ti nascono dal cuore, arrivi direttamente alla divinità. Le persone attorno ti delegano a farlo, diventa quasi un mantra. Si tratta di un urlo millenario che nessuno può fermare, nemmeno la chiesa che tante volte ha provato fermarci e che oggi invece è tornata ad accoglierci come ha fatto per secoli.

La fabbrica dell’Alfa Romeo rimane però una parte importante della storia di Pomigliano d’Arco.

La fabbrica si è fusa con il nostro mondo, ma non lo ha cambiato. Negli anni 70 fondai il gruppo degli “È Zezi”. Scrivemmo un canto di denuncia, la “Tammuriata dell’Alfa Sud”. “Mi hanno detto vai, mi hanno detto vai in fabbrica – si cantava – e io ci sono andato”. La fabbrica creò uno strappo violento. Il contadino prima lavorava più ore ma i tempi se li dava lui. La fabbrica diede uno stipendio fisso, ma tolse la gestione del tempo. Si stava ore dietro la pressa.

“Quando c’entrai – cantavamo – pagai la camorra per il posto di lavoro e una volta dentro scoprii la pressa”. La canzone proseguiva con l’operaio che un giorno sognava che si ribaltasse la situazione, quelli che erano i padroni andavano un giorno alle presse a fare i pistoni”. La tradizione ci ha permesso di salvarci dalla fabbrica e di non essere risucchiati nel vortice della meccanizzazione.

Sia nel mondo delle tammorre, che in quello dei femminielli, l’ironia e le battute, anche esplicite, giocano un ruolo fondamentale

Certamente, l’ironia, il ridere e anche le battute a doppio senso, anche sessuale, convivono con la religione. Perché la Madre Terra, come la Madonna sanno ridere e accettano la battuta. Nel “funerale del carnevale” noi piangiamo il morto che rappresenta l’anno che va via. Lo sfottiamo, parliamo anche delle sue doti sessuali. Si ride e si piange insieme perché sono due sensazioni salvifiche e liberatorie. Nel nostro mondo l’invisibile è ancora importante. Io in casa ho ancora pane e acqua che lascio sopra gli armadi della cucina perché per tradizione si lasciano per le anime del “creatorio” che vengono a mangiarle. Mia madre mi diceva di non pulire le briciole la sera, perché di notte sarebbero potute venire le anime del “creatorio” a mangiarsele. Noi questo mondo ce lo siamo portati in fabbrica.

CiroCiretta, perché avete deciso di creare lo spettacolo “Sciò Sciò” e di portalo nei teatri?

L’Afan vuole restituire un album fotografico a un gruppo culturale che lo ha perduto. Soprattutto negli anni del fascismo, ma anche dopo, si è fatto di tutto per far scomparire la figura dei femminielli. Oggi sono di nuovo integrati nella società, ma mancano le foto del passato. I femminielli di oggi sentono l’assenza di queste immagini che nel passato furono distrutte. Noi vogliamo restituirle. Ecco perché ci rivolgiamo alle famiglie per chiedergli di darci le foto, le lettere e i documenti dei loro parenti femminielli per archiviarle. Noi siamo come delle zie o delle mamme che vogliono restituire queste foto alla collettività. Ecco perché abbiamo privilegiato la forma degli incontri faccia a faccia, invece di quelli virtuali. Abbiamo creato degli incontri in cui il teatro o il circo diventa come un cortile in cui incontrare le persone della comunità. Gli amici che ci sostengono regalano ai partecipanti un po’ della loro arte, tammorre, tombole, teatro e molto altro. In questo caso si tratta di teatro popolare, che vive di quella stessa teatralità che il popolo ha nei cortili. La stessa arte del carnevale, che per convenzione alleggerisce le regole sociali come uno sfiatatoio. Un momento per alleggerire l’aria che permette di capovolgere tutto. I nostri incontri hanno una loro ritualità di cortile.

Perché quest’anno avete scelto un circo?

Il circense lavora in un ambiente circolare e popolare. La cultura popolare è spesso più libera, perché diventa quasi opportunista per motivi di sopravvivenza. Inoltre, l’uomo ha i primi impulsi emotivi già nel ventre materno, non è nato in un quadrato, ma in un cerchio in cui c’è la relazione con la madre. Non è diviso dalla madre e non c’è divisione tra cosciente e incosciente. È uno spazio in cui non c’è ancora una definizione. Solo con la nascita indossiamo gli abiti sociali imposti da un mondo in cui assumiamo ruoli. Il circo vuole ridare questa circolarità e questa non definizione. Perché è lo spazio perfetto per raccontare che l’uomo è più cose. Ecco che il circo diventa il luogo della sacralità.

Perché avete scelto “Sciò Sciò” come titolo dello spettacolo?

All’inizio lo spettacolo si faceva a Capodanno e si chiamava “Sciò sciò ciucciuè”. Una frase che veniva pronunciata da persone che nella tradizione interpretavano dei maghetti che cacciavano via delle civette, uccelli che nella cultura popolare porterebbero male. Era un rito che si faceva per cacciare via le negatività del vecchio anno. Poi abbiamo voluto innovare perché le povere civette non sono consapevoli di questa brutta fama. Abbiamo quindi lasciato Sciò Sciò che da solo ci sembra perfetto perché contiene un doppio significato. Sciò Sciò da una parte ricorda l’antico detto, ma dall’altro ha anche lo stesso suono di Show Show, che vuol dire spettacolo in inglese. Il femminiello è una figura doppia che mantiene il femminile e il maschile insieme in modo circolare, così lo spettacolo è un doppio che contiene passato e presente, anch’esso circolare.

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