Francesco Improta
A proposito di "Mancanza"

Poesia dell’azzardo

I versi di Ilaria Palomba descrivono un panorama di macerie dove la solitudine campeggia sovrana e finisce col nutrirsi di se stessa e dell’inquietudine che reca con sé

Mai come oggi, in ambito letterario, i confini tra prosa e poesia sono sempre più labili e spesso assistiamo a scambi di strutture, ritmi ed immagini tra questi due macro generi; ciò non toglie che in un’epoca in cui il profitto e la volgarità soffocano sensibilità e senso estetico, nell’acce­zione più ampia e comprensiva del termine, scrivere versi sia un atto di coraggio e di fede, forse addirittura un azzardo, mi viene in mente la poesia visiva di Mallarmé (Un coup de dés n’abolira jamais le Hasard).

Da più parti si sente dire che la poesia è morta e che coloro che si ostinano a praticarla sono condannati a rimanere un’esigua minoranza e a muoversi in spazi angusti e umbratili in cerca di uno sprazzo di luce e di un minimo di riconoscibilità. Si tratta, a mio avviso, di una generalizzazione schematica e indifferenziata che come tutte le generalizzazioni riesce a trasmetterci una visione d’insieme, a volo di uccello, del bosco letterario ma non i singoli alberi che lo compongono e vivono di vita propria, per non parlare del sottobosco altrettanto rigoglioso e prolifico. Senza contare che, nei più, la poesia è un’esigenza insopprimibile e anche se ha smarrito una funzione salvifica o consolatoria, diventa un’ossessione monomaniaca, fuoco liquido che scorre nelle vene e che brucia non solo il corpo ma anche e soprattutto lo spirito: come nei versi di Ilaria Palomba (Mancanza, Augh! Edizioni, 2017). Non è caso che l’illustrazione di Cristiano Quagliozzi che apre la silloge dei versi mi abbia richiamato alla mente Vasilij Vasil’evič Kandinskij che con la sua pittura mira all’effetto psichico dovuto alla vibrazione spirituale attraverso cui il colore raggiunge l’anima.

Al centro della raccolta c’è, come giustamente osserva il prefatore Antonio Veneziani, l’io dell’autrice, che implode o esplode a seconda dei casi, e che talvolta tende a farsi personaggio. Il titolo, già di per sé significativo, Mancanza, rimanda a una poesia inquietante, funerea e dolorosa ed allude alla perdita di senso, di punti di riferimento e di coordinate spazio-temporali. «… l’unico spazio possibile è lontano, // l’unico tempo possibile è mai, // quando sono con loro non esiste nient’altro, // la mia mente è labile…».

Desertificazione del senso o senso di desertificazione che la spinge come una rabdomante a cercare l’acqua per la sua gola riarsa, per la sua anima svuotata attraverso i ricordi verminosi del passato, come dice negli stupendi versi di pagina 40 che si concludono con un’affermazione che è insieme un grido di rivalsa e di voglia di vivere, di furia vitale. “Io sono tempesta”. Subito dopo ritorna il senso d’ina­deguatezza che impedisce il confronto, l’amore e la vita stessa. Riaffiorano altri ricordi dolorosi sui bordi laceri delle periferie armate in attesa di un’iniziazione alla vita, all’amore, all’oblio. Dai bordi delle periferie ai bordi dei palazzi di Parigi dove, per reagire al senso di vuoto e alla mancanza di spazio si vagheggia l’ubiquità (vorrei essere ovunque, negli anfratti oscuri del divenire) tra linee di strade che separano l’imbrunire nei grovigli del cielo.

In alcune poesie Ilaria riprende il filo di un discorso interrotto con un interlocutore che a volte appare saccente e presuntuoso e altre un mentore affidabile e agognato ed è a costui, probabilmente, che si rivolge, a pagina 67, in cerca di un perché (dimmi perché splendida anafora che connota questi 12 struggenti interrogativi) che dia un senso alla sua vita, alle sue contraddizioni, alle lacerazioni della carne e ai graffi dell’anima e so­prattutto ai turbamenti di una mente speculativa e teoretica come la sua. Dare un senso alla vita può condurre a follia ma una vita senza senso è come una barca che anela al mare e non lo raggiunge in quanto è ormai irrimediabilmente amarrata. Nell’ultima parte della raccolta si concentrano i versi d’amore, un amore forte, feroce, assoluto, eroico, almeno nei desideri e nei vagheggiamenti ma che si rivela fragile (granelli nella bora // mossa da spettri), contraddittorio (Ti cerco // e ti fuggo // e ti aspetto), fatto di sussurri e baluginii destinato a spegnersi, un amore anonimo senza domani che per continuare deve assumere le movenze di una danza macabra.

Alla fine, dopo tutto ciò, rimane un panorama di macerie dove la solitudine campeggia sovrana e finisce col nutrirsi di se stessa e dell’inquietudine che reca con sé. C’è comunque, in fondo, un pallido raggio di luce, la volontà di risorgere dalle macerie fumanti come un’araba fenice e il desiderio di riparare, dopo aver ribadito, alla maniera di Montale (da notare la sequenza di non che si susseguono in un’altra efficacissima anafora) la propria negatività: «In una strada forse // una vecchia strada lacera di periferia // un giardino di gatti e albicocchi, // in quel giardino credo, come se sotto la terra vi fosse un concerto di violini // e ancora posso sentirne gli acuti rintoccare a festa».

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