Giordana Marsilio
Visto al Teatro Vascello di Roma

Il gabbiano ferito

Manuela Kustermann riporta in scena il “Gabbiano” di Cechov diretto da Giancarlo Nanni nel 1998. Non è solo un omaggio al "teatro immagine", è anche la dimostrazione che quella sperimentazione era molto avanti. Più avanti di quella di oggi?

Manuela Kustermann riporta in scena al Teatro Vascello di Roma, di cui è direttrice artistica, Il Gabbiano di Cechov, per la regia del suo storico compagno di scena Giancarlo Nanni, scomparso nel 2010. Lo spettacolo, che debuttò nel 1998, torna ancora una volta sul palco per l’anniversario dei cinquanta anni della compagnia La Fabbrica dell’Attore, che Manuela Kustermann e Nanni fondarono. A permettere allo spettatore una completa immersione nel 1998 si riunisce il cast dell’epoca per rendere omaggio al regista e alla compagnia, eccezion fatta per i giovani personaggi di Kostya e Nina, che sono stati sostituiti per motivi anagrafici.

L’opera di Cechov del 1897 risulta più moderna che mai, infatti Il Gabbiano dà vita ad una riflessione che esprime quel concetto di teatro che rispecchia quanto sosteneva Brecht: «Il teatro non è il servitore del poeta, ma della società». Certamente Cechov non aveva la coscienza politica né il desiderio di cambiare la società nella quale viveva come lo intenderà poi Brecht, però parafrasando l’autore tedesco, Cechov vedeva nel teatro un mezzo per rappresentare, con storie all’apparenza semplici, il profondo disagio esistenziale della sua epoca e della società in cui viveva; per lui, dunque, il teatro diventa un mezzo per rappresentare, forse, quello che si osserva. Riguardo proprio al ruolo del teatro, qui Irina (Manuela Kustermann) afferma: «Del teatro non si può fare a meno» e a turno tutti gli interpreti ripeteranno una frase, fulcro di tutta l’opera. «Non bisogna rappresentare la vita come è, né come dovrebbe essere, ma come ci appare nei sogni».

Il Gabbiano di Cechov ha come perno centrale la riflessione sul teatro e sull’arte in generale: il vecchio modo di scrivere e recitare si confronta con il nuovo. Il giovane Kostya (Lorenzo Frediani) infatti è ossessionato dalla ricerca di nuove forme di scrittura e detesta il maturo Trigorin (Paolo Lorimer), scrittore di successo e suo rivale in amore.

L’apertura dello spettacolo porta il pubblico in un ambiente intimistico, come se la compagnia avesse aperto le porte dei propri ricordi per condividerli con la platea e per rivivere ancora una volta l’arte di Giancarlo Nanni. Lo spettacolo si apre con un video in cui si vedono foto del regista e la voce della Kustermann spiega il motivo di questa messa in scena. Infine, prima che gli attori salgano sul palco, viene mostrato un video di Nanni che termina bruscamente con la sua frase «l’arte è nostra e ci facciamo quello che ci pare», poi lentamente entra in scena la Kustermann sulle note di Il mio canto libero di Lucio Battisti (la musica pop, specie quella di Lucio Battisti, negli anni Settanta era una specie di marchio di fabbrica della coppia Nanni/Kustermann), seguita gradualmente dal resto dell’ensemble. Questa apertura fa riflettere su tutto quello che sarà lo spettacolo. Un teatro d’immagine, che vuole fare dello spettacolo una forma nuova e moderna, che si stacca dalla classica interpretazione del testo cechoviano. La recitazione, impeccabile e molto sentita da parte di tutti gli interpreti, alterna a momenti di racconto, momenti di estraniamento, come quando ad esempio i personaggi dànno le spalle allo spettatore mentre recitano o dialogano senza guardarsi, come se stessero parlando da molto lontano, anche se sono l’uno accanto all’altra. Qui ritorna Brecht, nella voglia di uscire dagli schemi di un teatro borghese e risvegliare le coscienze del suo pubblico: con Nanni e Kustermann, quindi, rivive il teatro d’immagine, quello in cui le luci, i minimi gesti degli interpreti – alle volte coordinati quasi a voler realizzare una coreografia – assumono un ruolo fondamentale alla fine della mise en scène: dunque un teatro nel quale anche oggetti quotidiani prendono nuova vita e assumono così un nuovo sentimento, e il palco de Il Gabbiano diventa un ring in cui il vecchio e il moderno del teatro si confrontano. Ciò che stupisce, vedendo questa messa in scena, fedele a quella del 1998, è capire come sia estremamente attuale, nell’uso delle luci e nella scenografia semplice eppure straordinaria (all’epoca firmata dallo stesso Nanni), un’opera che sembra concepita oggi. In questa cornice il gabbiano diventa simbolo di libertà, di tutto quello che vorremmo essere, il nostro alter ego. E infatti il gabbiano (interpretato da Anna Sozzani) è l’alter ego di Nina (Eleonora De Luca), la Nina che vorrebbe essere, ma non è.

Sotto il suo intreccio drammaturgico, il tema del desiderio èpreponderante: non solo quello meramente sessuale, ma anche quello di raggiungere qualcosa, e il vuoto che ne può restare una volta raggiunto. Jacques Lacan riconosceva nell’oggetto piccolo a il motivo del desiderio. L’oggetto piccolo a, però, non è lo scopo del desiderio, ma la sua causa, ciò che mette in motore il sentimento del desiderio, come succede nell’opera cechoviana. In quest’opera tutti sono insoddisfatti, desiderano qualcosa e qualcuno, e forse quello che più intriga i personaggi è proprio il non poter raggiungere l’oggetto del loro desiderio. Poiché il raggiungimento di una meta significa, da una parte, anche smettere di sognare, e per alcuni dei personaggi – che dalla vita non hanno altri stimoli o ambizioni – vorrebbe significare smettere di vivere o semplicemente di sognare. Infatti il gabbiano muore: anche se Nina è diventata attrice, il suo più grande desiderio, continua la sua storia con Trigorin, ma in realtà è profondamente infelice. Kostya, d’altro canto, è diventato scrittore come desiderava, ma ha perso per sempre la sua Nina e l’arte non lo appaga realmente.

La Fabbrica dell’Attore nacque negli anni ’70, periodo in cui a Roma iniziò a svilupparsi il teatro delle “cantine”, quello che contava tra i maggiori esponenti Mario Ricci e Carmelo Bene, con il quale la Kustermann lavorò a lungo. Quel nuovo modo di vivere il teatro creò nuove forme di rappresentazione, oltrepassando i confini della performance teatrale ed è lo stile che ha segnato e influenzato tutti i lavori della compagnia di Nanni e della Kustermann, come ne Il Gabbiano. In questa messa in scena, quindi, che dà ampio spazio alle immagini e allo straniamento, il suicidio di Kostya simboleggia in qualche modo la rivendicazione di un nuovo teatro che tenta di trovare posto nel mondo, senza riuscirci. A distanza di venti anni questa rappresentazione è più attuale che mai e ci si chiede se il teatro dalle nuove forme abbia davvero trovato il suo giusto e meritato posto nel mondo delle arti.

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