Adriano Napoli
Un libro di Pasquale Di Palmo

Venezia è un angelo

L’autore descrive la sua città natale nelle sue più segrete stratificazioni, legate alle memorie di altri libri, di altri passi tra sottoporteghi e campielli, di altre suggestioni. Che rimandano alla sua poesia, a quella di Brodskij e di altri irregolari. Per lui, fondamentale, è l'esperienza della luce

Ognuno di noi ha serbato un ricordo, una fascinazione di Venezia, piccola e immensa città-palcoscenico, immergendola nelle torbide acque della curiosità o dell’attesa; situandovi nel lontanare o sfumare di quel ricordo la radice di una fatuità o malinconia che continua ad albergare in noi. Per un’ora o l’istante di un incontro, abbiamo tutti creduto di abitare Venezia come nobili attestati nei saloni e le araldiche di un castello splendido in rovina. Venezia. Nel labirinto di Brodskij e altri irregolari (Unicopli, “Le città letterarie”, 172 pagine, 14 euro) di Pasquale Di Palmo, studioso e poeta, con la sua trama divagante in apparenza, ma ricchissima e profonda nella libertà e nel rigore della composizione, ci offre una visuale mossa e svariante di Venezia, restituendone dietro l’aspetto ingannevole della trasognatezza le più segrete stratificazioni, i mille volti di una allegoria sfuggente di acque e pietre, che una politica accorta soltanto al tornaconto di una sconsiderata promozione del turismo di massa ha appiattito alla dimensione di una bellezza fascinosa ricostruita in laboratorio.

Alla mortuaria bellezza dei depliants turistici, Di Palmo contrappone invece l’incontro flagrante con una “città dei morti”, iniziando il suo viaggio pedestre e memoriale dall’isola di San Michele, da tombe e sacrari illustri e familiari, ricercando nel silenzio dei morti la scintilla remota che attiva il ricordo e spinge più avanti l’ansia di frequentare, in una città, la vita. Evitando intonazioni retoriche e programmatiche, pur cambiando angolazione e ritmo narrativo a seconda degli argomenti, Di Palmo fa di Venezia l’infinita “soglia” (si intenda nell’accezione di Genette) di una visione ininterrotta, fissando nella scrittura una serie di impressioni, sensazioni cromatiche e plastiche, personaggi e vicende ordinarie e straordinarie viste attraverso la lastra fotografica di una memoria involontaria tanto più esatta quanto più ingannevole.

Ciò che colpisce della Venezia di Di Palmo è la qualità della luce che nelle sue vibrazioni, lacerazioni ed espansioni, sedimentandosi nelle cose come nei pensieri, conferisce una spazialità materica a una sostanza equorea e fluida, e quindi fatalmente destinata a svanire nel momento in cui appare. La luce è essa stessa memoria; e la memoria è forma, dunque durata. «Il ricordo è un ricordo della luce, una cascata luminosa che spiove sul mio risveglio di bambino in un letto matrimoniale. Una luce che non era come tutte le altre, ma aveva qualcosa di indefinibile e celestiale. (…) Non esisteva più niente, soltanto quella luce inverosimile, invadente, che in sé accorpava tutti i contorni della stanza, avvolgendoli e al tempo stesso annientandoli. Un angelo probabilmente si manifesta così».

Venezia è dunque un Angelo per Di Palmo; mentre invece per Brodskij un pesce, nella sua conformazione geo-litologica, e persino nei gesti elementari dei suoi abitanti, memoria dei nostri «progenitori cordati» e «dell’ichtys stesso che ha dato inizio a questa civiltà» (Fondamenta degli incurabili). Ciò che conta alla fine è che Venezia, città simbolica e ineffabile, sia stata ritratta da tanti poeti; per phantasmata et sensibilia nello scrigno eterno e cangiante dell’Allegoria. Per i poeti la memoria è un libro; e quello di Di Palmo nasce e si sviluppa dalla memoria di altri libri con cui intesse un dialogo nutritivo; ecco dunque che le passeggiate dell’autore tra sottoporteghi e campielli si intrecciano con escursioni in altri libri: celebri o meno; pagine proustiane sulla città lagunare e rari cataloghi d’arte; poesie e racconti, realistici o fantastici, di classici della letteratura e scrittori dimenticati. Ma la rilegatura che intesse le pagine (persino nella scelta minimalista di ordinare la magmatica materia dei capitoli in sequenze numeriche progressive) di questo libro materico e memoriale è fatta soprattutto dalle prose e i versi del poeta russo che visitava la città dal suo lungo esilio soltanto nella stagione invernale, in cui la realtà si manifesta nella sua crudezza e in cui «alle basse temperature la bellezza ‘è’ bellezza».

Per i poeti descrivere una città può essere l’occasione di recuperare l’esperienza (supremamente poetica) della verginità. Si leggano le pagine dedicate a un ex libris di Brodskij che l’autore intravede per caso nella vetrina di una disadorna tipografia di Castello. Il poetico si soffonde d’impoetico, di luoghi poveri, quasi banali. Nella ricerca successiva del prezioso oggetto, e della tipografia di cui (casualmente?) aveva dimenticato l’indirizzo, Di Palmo sperimenta l’esperienza di un’altra (e alta) forma di amore, affidata al Caso, in cui consiste appunto il sentimento della verginità: amare qualcosa al di là del suo possesso, al punto di rischiare di lasciarla lì dove è sempre stata, nell’invisibile che esiste solo per noi.

Forse occorre uno sguardo vergine per cogliere un’apparizione fragile e misteriosa (che è poi l’unica possibile apparizione di Venezia) di una città, e chissà della vita stessa. Ed è un’apparizione, per l’appunto, che suggella l’ultima pagina di questo libro: «Mi viene in mente che, all’incirca un decennio fa, durante un bagno a Jesolo, un enorme branco di cefali si era riversato alla riva andando a sfiorare i bagnanti, tra cui il sottoscritto. Io ero immerso fino al petto nell’acqua e potevo toccare queste enormi concentrazioni di pesci che si dirigevano in massa verso una determinata direzione, procedendo all’unisono, a scatti. Mi sentii quasi felice».

Nelle immagini: Venezia vista da Monet (vicino al titolo) e da Turner (nel testo)

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