Lina Sanserini
Le memorie di un "tätowierer"

Storie dal Lager

Ludwig “Lale” Eisenberg era costretto a tatuare i numeri sull'avambraccio dei prigionieri di Auschwitz. Per oltre mezzo secolo ha mantenuto il suo segreto. Solo prima di morire lo ha rivelato in una lunga intervista appena uscita in Gran Bretagna

Ha trascorso tre anni nell’inferno di Auschwitz, dove era stato deportato nell’aprile del 1942, all’età di 26 anni. La storia di Ludwig “Lale” Eisenberg, nato in Slovacchia nel 1916 da genitori ebrei, inizia proprio nel campo di sterminio che più di ogni altro è il simbolo dell’Olocausto. Lale era il “tätowierer”, il tatuatore di Auschwitz, l’uomo scelto dai nazisti, benché lui stesso ebreo, per incidere sull’avambraccio dei deportati il numero che avrebbe sostituito il loro nome. Per tutto il tempo in cui è rimasto nel campo di concentramento, Lale ha trasformato in matricole le persone destinate alle camere a gas e questo compito, per quanto ingrato e crudele, gli ha salvato la vita. È morto nel 2006 a Melbourne, dove era andato a vivere all’inizio degli anni 60, con l’amatissima moglie Gita, conosciuta proprio ad Auschwitz, perduta e ritrovata in Cecoslovacchia dopo la liberazione.

Ha vissuto per oltre 50 anni nel rimorso, convinto di avere qualcosa da nascondere, e nel senso di colpa per non essere anche lui morto in quell’inferno. Nel 2003, alla scomparsa della moglie, Lale, che nel 1945 aveva cambiato il cognome in Solkov, ha deciso di liberarsi dei propri terribili ricordi e li ha affidati alla scrittrice e giornalista australiana Heather Morris, scelta perché non ebrea e quindi libera da ogni possibile condizionamento nel ricevere e riscrivere il suo racconto. La sua storia di sofferenza, ma anche di amore e riscatto, oggi è un libro: in Italia lo ha appena pubblicato Garzanti con il titolo Il tatuatore di Auschwitz, la prima testimonianza sulla figura del tätowierer e un altro tassello che si aggiunge alla storia dell’Olocausto.

Lale era il prigioniero numero 32407, all’inizio costruiva baracche e nuovi blocchi man mano che il campo si espandeva. Poi si ammalò di tifo e fu affidato a un medico francese, Pepen, lo stesso che aveva fatto a lui il tatuaggio. Fu proprio Pepen a insegnargli il mestiere del tatuatore, ma soprattutto a tenere la bocca chiusa, la testa bassa e a lavorare in silenzio. Dopo la scomparsa del francese, di cui Lale non seppe più nulla, fu a lui che le SS affidarono il compito di incidere i numeri sulle braccia dei prigionieri, grazie anche alla sua abilità con le lingue (conosceva slovacco, tedesco, russo, francese, ungherese e polacco).

Questo gli garantì protezione, pasti caldi, il riparo di un vero tetto e il tempo libero quando non doveva lavorare. Lale soffriva di questa posizione di privilegio rispetto agli altri prigionieri, «ma non si sentiva un collaborazionista», ci tiene a spiegare Heather Morris, perché la morte era sempre a un passo, la crudeltà con cui venivano trattati i prigionieri da un momento all’altro poteva essere riservata anche a lui. Spesso si trovava accanto al boia Mengele, il medico della morte, che sceglieva i prigionieri su cui condurre i suoi esprimenti, li mandava a Lale e gli gridava «un giorno, tätowierer, prenderò anche te».

Centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini sono stati tatuati da Solkov, tutti quelli di Auschwitz, Birkenau e Monowitz, ad eccezione di coloro che venivano inviati direttamente alle camere a gas. Cercava di non guardarli in faccia, si concentrava sull’avambraccio, per vincere il dolore, il rimorso e la paura. Paura che gli leggessero negli occhi quale sarebbe stata la loro terribile fine, dopo essere stati “disumanizzati” da un numero a cinque cifre. Ma come gli aveva insegnato Pepen, rifiutarsi, esitare, dimostrare pietà sarebbe stato condannarsi a morte. Così Lale abbassava gli occhi e tatuava numeri.

Fino a quel 34902 da incidere sull’avambraccio di una ragazza che lo aveva guardato con due grandi occhi luminosi e terrorizzati. Come avrebbe raccontato quasi mezzo secolo dopo a Heather Morris, mentre tatuava il numero sul suo braccio sinistro, tatuò il numero anche nel suo cuore. La giovane, il cui nome era Gita, era internata con altre donne a Birkenau. Lale riuscì a scriverle, le faceva arrivare razioni di cibo, la proteggeva come poteva. Un amore segreto che salvò la vita alla ragazza, come in precedenza Lale, dalla sua posizione privilegiata, aveva potuto salvare tanti altri prigionieri, scambiando razioni di cibo, ma anche gioielli e denaro (affidati a lui dai prigionieri) con gli abitanti dei villaggi vicino al campo per avere cose in più da mangiare.

Quando nel 1945 i nazisti cominciarono a smobilitare Auschwitz prima dell’arrivo dei russi, Lale perse ogni traccia di Gita. Dopo la fine della guerra, riuscì a ritrovarla a Bratislava dove sapeva che sarebbero passati molti dei sopravvissuti per tornare in Cecoslovacchia. Nel ’45 si sposarono, si stabilirono in Cecoslovacchia e aprirono un negozio di tessuti. Quando il governo scoprì la loro attività di sostegno alla costruzione dello stato di Israele, furono costretti alla fuga. Prima a Vienna, poi a Parigi, e infine, nel tentativo di allontanarsi quanto più possibile dall’Europa, salparono per l’Australia, dove hanno vissuto fino alla morte e dove, nel 1961, è nato Gary, il loro unico figlio.

Lale non è mai più voluto tornare in Europa e ha nascosto anche al figlio molti degli orrori che lui e la madre avevano dovuto sopportare. Ma Gary conosceva la storia e ha cercato qualcuno cui il padre potesse raccontarla, affinché questa testimonianza di dolore e morte, ma anche amore e riscatto, venisse consegnata alla futura memoria.

Il libro è anche molto di più: la storia di Lele Solkov è stata verificata e ricostruita anche attraverso documenti recuperati in Germania (da cui si è scoperto che i suoi genitori erano morti un mese prima del suo arrivo ad Auschwitz), che hanno messo in evidenza anche altri aspetti dell’Olocausto, facendo luce su aspetti controversi e mai del tutto studiati, come appunto la figura del tätowierer.

Come ha detto Cedric Geffen, presidente dell’Holocaust-March of the Living Australia, «non avevo riflettuto molto sulla questione dell’identità del tatuatore e sul fatto che fossero o meno i prigionieri ad essere costretti dai nazisti a svolgere in questo terribile compito, ma raccontare questa storia aiuta le giovani generazioni a sapere e a non dimenticare».

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