Giuliano Capecelatro
Il pantheon degli orrori italici

Matteotti e il re

Vittorio Emanuele III di Savoia, Benito Mussolini e Giacomo Matteotti: storia di una fake news antica che mette insieme un fellone, un criminale e una vittima designata (innocente)

È una fake news, non ci piove. Ma ha il fascino del vintage e solletica le corde degli irriducibili nostalgici dei treni in orario (altra fake news d’annata), cui fa gioco allontanare l’ombra nera del crimine dalla mascella quadrata dell’idolo funesto per poterselo immaginare e gabellare da martire intemerato. Perché la panzana di Vittorio Emanuele Savoia mandante del delitto Matteotti nacque poco prima dell’ignominiosa fuga – benedetta, pare, dal nemico tedesco, che si vedeva consegnare così la città eterna – del monarca da Roma, mentre le sorti dell’Italia precipitavano. E fu concepita, qui sta il bello, proprio a corte.

Qualcuno, evidentemente, pensava di fare le scarpe a un personaggio tanto squalificato, per salvare comunque privilegi e appannaggi della casa reale, e soprattutto insediarsi sul trono. Quel che è certo è che Aimone Tomislavo d’Aosta, indicato come il propalatore della non disinteressata indiscrezione, da tempo brigava con gli inglesi per levare di mezzo Mussolini. Lo scacco matto al re in carica, mai enunciato ma logico corollario, avrebbe completato l’opera.

Non che il personaggio incriminato, il re, non avesse la sordidezza morale per commissionare un delitto. Le sue inclite gesta, dall’avvento del fascismo all’abbandono della Capitale, parlano chiaro. Ma gli indizi univocamente e pervicacemente conducono al famigerato balcone di piazza Venezia o, più modestamente, ma non meno significativamente, nel cortile del Viminale, dove occupava lo scranno di ministro dell’Interno non altri che l’arrembante cavalier Benito Mussolini.

Di Savoia si riprende tristemente a parlare in questi giorni. Per il ritorno della salma del re fellone in Italia e per l’abituale protervia con cui i discendenti pretendono la tumulazione del caro estinto nel Pantheon. E la panzana sul delitto Matteotti, dal dopoguerra rilanciata a varie riprese, affidata ad articoli e libri, torna a girare, in una sorta di derby calcistico o di giallo alla Agatha Christie: Mussolini vs Vittorio Emanuele. Chi ordì l’omicidio?

Occorre fare un salto a quei giorni drammatici. Il 10 giugno 1924 un manipolo di arditi, cioè picchiatori e sicari fascisti, sul lungotevere Arnaldo da Brescia sequestrò Giacomo Matteotti, segretario del partito socialista unitario, che da casa si recava in Parlamento. Li capitanava Amerigo Dumini, braccio armato di Mussolini e imprescindibile chiave di lettura dell’intera vicenda. Un bravaccio toscano che spavaldamente amava presentarsi come il signor undici omicidi. Issato a forza su una macchina, il deputato fu portato fuori Roma e barbaramente sepolto sulla Cassia, a una decina di chilometri dalla città. Il suo corpo fu opportunamente, e in circostanze sospette, ritrovato nei giorni del ferragosto, in un’Italia distratta dl clima di vacanza.

Pochi giorni prima del sequestro, il 30 maggio, Matteotti aveva denunciato con veemenza brogli nelle ultime elezioni. E Mussolini aveva commentato con la consueta truculenza: «Quell’uomo dopo quel discorso non dovrebbe più circolare». Ma qualcosa di ben più grosso bolliva in pentola. Matteotti era appena tornato da un viaggio in Inghilterra. A Londra, nella sede della loggia The Unicorn and the Lion, accolto come massone di alto rango, aveva ricevuto documenti preziosi su enormi scandali che coinvolgevano il governo: da un giro di bische a un intricato affare di petrolio. Una mina che avrebbe potuto sbriciolare il periclitante potere di Mussolini e lasciare in mutande lo stesso re.

A dispetto di leggende create ad arte, l’Italia del fascismo era una fucina inesausta di corruzione. Tutto aveva un prezzo, e Mussolini era tutt’altro che indifferente all’odore dei soldi. Non a caso si alludeva a lui strofinando indice e pollice della mano destra. Il petrolio, in quei giorni, era la partita più ghiotta. In un articolo, apparso postumo sulla rivista britannica English life, Matteotti scriveva: «Il senatore Corbino, ministro dell’Economia nazionale ha consegnato alla Sinclair connessa alla polipiforme Standard Oil Company vaste regioni della Sicilia e dell’Emilia contenenti oltre 100.000 ettari di ricchi depositi di petrolio».

La concessione, contenuta in un regio decreto, nascondeva un vorticoso giro di bustarelle, svolazzanti nelle poche centinaia di metri che dividono palazzo Chigi dal Quirinale. E il re aveva le mani decisamente in pasta. Era, infatti, azionista della società americana, con un cospicuo pacchetto di azioni ricevuto in grazioso dono. E altre azioni si aspettava in regalo per evitare che società italiane si impicciassero dei ricchi giacimenti in terra di Libia e rompessero le uova nel paniere alla Standard Oil.

Il re, allora? Il movente non gli mancava. Ma i fatti puntano in un’altra direzione. La macchina su cui venne caricato Matteotti era stata noleggiata per conto del Corriere italiano, giornale diretto da Filippo Filippelli, zelante esecutore di ordini di Mussolini. La sera del delitto, fu posteggiata nel cortile del Viminale, sede del ministero dell’Interno. La targa, 5512169, ripresa da diversi testimoni, fu il filo rosso che condusse a mettere le mani su Dumini e la sua banda. E non si capisce perché Mussolini, che tutto era fuorché ingenuo, avrebbe dovuto appaltare i suoi sgherri al sovrano, come è stato scritto di recente, autocoinvolgendosi nel delitto.

Una pagliacciata il processo, celebrato nella fascistissima Chieti. Una mano provvidenziale aveva provveduto a distruggere carte compromettenti. E riscosso il prezzo stabilito: il pubblico ministero Alberto Salucci, ricompensato con la toga di procuratore generale di Corte d’Appello e il laticlavio da senatore. Per gli autori materiali dell’omicidio, pene lievissime. Un soggiorno in prigione breve e confortato dagli agi di un albergo di lusso. Qui i riflettori si fermano sulla figura tarchiata del bravaccio toscano, di Dumini. Che, già inserito, sia pure da pesce minuscolo, nel vasto giro di imbrogli del regno italiano (si arrangiava con i residuati bellici), appena scarcerato avviò una nuova e redditizia professione: ricattatore. Con un unico, preciso bersaglio: Benito Mussolini.

Da quel giorno, infatti, lo scagnozzo non cessò di martellare il povero capo del governo con richieste di denaro. Se avvertiva aria di reticenza, si affrettava a mettere in giro nell’entourage del capo dichiarazioni inequivoche: «Fino ad oggi non ho ancora compromesso nessuno né al Viminale né a palazzo Chigi». Per concludere: «Ma non sono affatto disposto a lasciarmi sacrificare in questo modo».

Si imbarcò in una serie di attività commerciali in Africa. Se un’impresa falliva, riattacava il disco: «Ho avuto l’onor di esporre a V.E. – scrive nel 1928 – il mio progetto di allevamento di polli. Io penso che la cifra utile e quasi necessaria per fare una cosa veramente seria possa aggirarsi sulle 300.000 lire… Eccellenza, non sentirà mai più parlare di me, mai più». E l’eccellenza sborsava.

Capita talvolta che i Savoia, che tanti demeriti hanno acquisito nella breve storia d’Italia, come Ciccio De Rege nel famosissimo sketch recitato con il fratello Guido, vengano chiamati alla ribalta: ma anche in questa farsa, che potrebbe intitolarsi Vieni avanti, assassino, in cui si produce l’esimio Vittorio Emanuele III, non riescono a superare la statura di un comprimario. Un rio destino per delle teste coronate o in avida attesa di ipotetiche corone. Dovrebbero, forse, avere l’intelligenza di farsi da parte una volta per tutte. Legittimo il dubbio, visti gli atti, che ne siano capaci.

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