Raoul Precht
Periscopio (globale)

Il senso di Arcimboldo

Ultimi giorni per vedere la bellissima mostra dedicata ad Arcimboldo. Il modo migliore per entrare nel labirinto iconografico costruito da un grande maestro/alchimista alla corte dell’Imperatore

C’è tempo ancora fino all’11 febbraio per visitare la pregevolissima mostra a Palazzo Barberini che la Galleria nazionale d’arte antica di Roma dedica alla figura di Giuseppe Arcimboldo. Curata da una delle massime specialiste del pittore lombardo, Sylvia Ferino-Pagden, la mostra si snoda lungo un percorso coinvolgente e convincente, mostrando finalmente l’artista e le sue presunte bizzarrie nel contesto della pittura (milanese e non solo) del tempo, riconoscendone l’importanza per tutta la cultura del Manierismo europeo e ripercorrendone l’apprendistato e la carriera alle corti di Vienna e Praga. Non mancano naturalmente le diverse serie delle Quattro stagioni e dei Quattro elementi, come non mancano le Teste composte e reversibili, le caricature e i ritratti; ma vengono esplorati anche i legami con altri pittori di derivazione leonardesca (tra tutti, Giovanni Paolo Lomazzo e Cesare da Sesto), chiarendo così meglio l’innegabile influenza dello stesso Leonardo, e in generale il radicamento del giovane pittore nell’ambiente milanese.

Dell’Arcimboldo ormai affermato è poi ben spiegata anche la successiva funzione, svolta a Vienna, di maestro di cerimonie e instancabile organizzatore di spettacoli per le più svariate feste e manifestazioni di corte, tra cui i festeggiamenti per le nozze di Carlo d’Austria. In più, la mostra propone però anche qualche accenno a un viaggio esplorativo nelle Kunst-und Wunderkammer, collezioni di oggetti e dipinti curiosi che tanto piacevano a tutti i regnanti dell’epoca, e in particolare a Rodolfo II, per il quale Arcimboldo, più che dipingere, si farà procacciatore di oggetti d’arte insoliti e perfino di animali impagliati del Nuovo Mondo e al quale dedicherà, intorno al 1590, un fortunato ritratto in veste di Vertumno, declinato in forme vegetali e floreali.

Come ricorda Angelo Maria Ripellino nella decina di pagine che in Praga magica dedica alla figura di Arcimboldo, questi prese il posto di ritrattista alla Corte di Vienna, ancora sotto il regno di Ferdinando I, per sostituire il pittore Jakob Seisenegger la cui vista era calata drasticamente. Il vero riconoscimento l’avrà poi sotto Massimiliano II, dal 1564 al 1576, e soprattutto, dal 1576 al 1593 – anno della sua morte – con Rodolfo II, che seguirà a Praga. Per Ripellino la sua arte è anzi «fortemente connessa con le predilezioni di Rodolfo II: col suo amore degli Automaten e dei fantocci meccanici, col mondo bizzarro ed esotico che lo attorniava, col senso alchimico dell’amalgama di corpi diversi, col marionettismo golemico, e in specie con l’ansia di collezionare che incalzò questo sovrano». Rodolfo, del resto, era un sovrano che proteggeva e finanziava tutti gli artisti eccentrici del suo tempo e che, per non esser da meno, teneva in anticamera un leone incatenato: un po’ per ragioni simboliche, si può supporre, un po’ per terrorizzare la servitù. Inoltre, a causa dell’infausta predizione di un astrologo ogni notte cambiava letto.

In questo contesto anche Arcimboldo assume la malinconia saturnina degli alchimisti, ma non è certo il solo, rientra semmai in una vera e propria temperie culturale. Gli altri pittori di corte, a Praga, non erano da meno; tra quelli che con il nostro condividevano anche il “senso delle minuzie”, ovvero la capacità di rendere ogni minimo particolare con una cura quasi esagerata, Ripellino annovera Bartholomäus Spranger, Pieter Stevens e Roelant Savery, ricordando però al tempo stesso che in Arcimboldo questa capacità, determinata o fortemente richiesta dallo Zeitgeist, non è però mai disgiunta dall’ambiguità, dalla facoltà di farci vedere anche dell’altro, fino al capovolgimento dell’immagine intuita, se solo spostiamo il capo (o lo sguardo della mente) da un lato o dall’altro.

Da parte sua, in un famoso saggio sull’arte arcimboldesca, Roland Barthes, parlando del suo procedimento palindromico scriveva: «…tutto ha sempre un senso, da qualsiasi parte lo si voglia leggere, ma questo senso non è mai lo stesso». Che è poi appunto la caratteristica del palindromo, con l’aggiunta che in Arcimboldo spesso le due letture si svolgono in una medesima area semantica. Ma qual è, appunto, il senso? Intanto, la cultura alchemica ha anch’essa una sua importanza, non fosse che per situare Arcimboldo fra coloro che non si accontentano della placida raffigurazione e vanno invece alla ricerca dei demoni nascosti, secondo l’ingiunzione “lege, lege et relege” (completata da “ora, labora et invenies”) che gli alchimisti avevano eletto a parola o meglio frase d’ordine. Neanch’essa, però, esaurisce le chiavi di lettura.

Il senso generale sembra allora consistere in particolare nell’intenzione di andare al di là delle apparenze, di leggere e rileggere appunto la realtà sventando le lusinghe della mera parvenza e penetrando nella materia come oggi farebbe un microscopio. Anche il divertimento che l’opera di Arcimboldo occasionalmente può suscitare – si pensi alle Teste reversibili, dove per esempio un piatto con un porcellino, se capovolto, diventa il ritratto di un cuoco – è di tipo superficiale; se si approfondisce l’esame dell’opera, si arriva a ben altre conclusioni. Oltretutto, è un divertimento di breve respiro: più ci si addentra nell’esame minuzioso del reale, più si rischia infatti di ritrarsene schifati; a prevalere è spesso la repulsione, non certo il piacere.

Come osserva Barthes, parlando di una delle Teste composte: «L’impressione è ancora più disgustosa perché questa testa è formata di sostanze commestibili: diviene allora, alla lettera, immangiabile: il pollo e il pesce si degradano a spazzatura; peggio: sono i rifiuti di un cattivo ristorante. (…) Queste Teste Composte sono teste che si decompongono». La chiave, o una delle chiavi, sta forse nel modo di procedere di Arcimboldo, come Barthes rimarca parlando della Primavera: «È normale, dopotutto, che la si rappresenti sotto forma di una donna acconciata con un cappello di fiori (questi cappelli sono esistiti nella moda); ma Arcimboldo continua; i fiori scendono dall’oggetto al corpo, invadono la pelle, fanno la pelle: una lebbra di fiori copre il viso, il collo, il busto». In un altro passo giungerà a parlare del “brulichio” come del malessere di cui si sostanzia tutta la mostruosità arcimboldesca, quasi a dispetto del soggetto dipinto che di per sé (elementi, stagioni, natura) sarebbe anodino se non addirittura gradevole.

Mai banale, tutt’altro che incline al pittoresco fine a se stesso, Arcimboldo è il creatore di una poetica in cui fantastico e allegorico coincidono. Negli ultimi anni – che riuscirà a trascorrere, per una speciale dispensa reale, a Milano – l’Ingegnosissimo Pittor Fantastico, come lo definì Gregorio Comanini, dipinge il già citato ritratto di Rodolfo II e la Ninfa Flora, da contemplare come un dittico che compendia tutta l’abilità e la maestria di un così profondo osservatore della natura e segnatamente di ciò che essa nasconde.

 

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