Marco Ferrari
Il goleador appena scomparso

Gol & Bandoneón

La vita di Antonio Valentin Angelillo è un romanzo: l'infanzia difficile in Argentina, l'ostracismo in Italia (dovuto a una storia d'amore), le liti con Herrera, la rinascita a Roma... storia di un oriundo

Se ne è andato in silenzio, con la notizia annunciata a decesso avvenuto, tutto il contrario del clamore che ha suscitato da calciatore. Antonio Valentin Angelillo, ex attaccante di Inter, Roma e Milan e primatista di reti segnate in un campionato di serie A a 18 squadre con 33 gol, è volato in cielo a ottanta anni a raggiungere gli altri “angeli dalla faccia sporca” che fecero l’Italia degli oriundi. Si rivelò nel marzo del 1957 nella Coppa America di Lima dove a sorpresa vinse l’Argentina con un attacco fantastico: Corbatta, Maschio, Angelillo, Sivori, Cruz. Poco dopo Maschio, Angelillo e Sivori fecero le valigie per l’Italia. Angelillo, Maschio e Corbatta (che restò sempre in Argentina facendo pure una brutta fine da alcolista) formavano il trio della meraviglie al Racing. Ma Angellilo si fermò solo un anno a Avellaneda, superò il ponte sul Riachuelo e passò al Boca dove fu notato prima dal dottor Cappelli, che in realtà si trovava lì per comprare Tito Cucchiaroni per conto del Milan, e quindi messo sotto osservazione dal presidente interista, il cavaliere Angelo Moratti, che inviò a Buenos Aires l’osservatore Paqualini per concludere l’affare.

Portato in Italia nell’estate del ’57 e spedito a Sanremo dove il massaggiatore Giancarlo Della Casa passava le vacanze, Angelillo faticò ad ambientarsi al clima milanese. Subito definito A.V.A. da Gianni Brera, che ne esaltava la malinconia, come il suono del bandoneón che l’attaccante sapeva maneggiare, Angelillo venne persino bistrattato dai propri compagni.

Gli argentini di Milano con i loro famigliari si fecero un clan chiuso agli altri: ne facevano parte Antonio Valentìn Angelillo e Oscar Alberto Massei dell’Inter, Tito Cucchiaroni e Ernesto Grillo del Milan. Soprattutto i loro famigliari mal si adattarono al rigido clima lombardo, così diverso dalle brezze fresche del Rio de la Plata. Allora tutti assieme decisero di progettare il ritorno in Argentina, quasi da clandestini. Ma poi a convincerli a restare fu il loro procuratore, Felix Latronico, che era anche cugino di Cucchiaroni. È allora che Angiolin Moratti invitò i due compagni di squadra scapoli, i veneti Fongaro e Masiero, a portare in giro l’argentino triste. Vestito di completi eleganti, Angelillo più che un figlio di emigranti lucani di Rapone pareva un gran ballerino di classe.

L’adattamento all’ambiente milanese fu lento e problematico per il Di Stefano interista, ma nella stagione successiva, quella del 1958-’59, esplose all’improvviso realizzando la bellezza di 33 gol in 33 partite, uno a partita, un record tuttora imbattuto, appunto. In quella stagione Angelillo saltò un solo incontro per squalifica perché fu visto dall’arbitro a spintonarsi con Boniperti nel sottopassaggio della stadio.

In quelle notti in cui «Lillo» usciva con Fongaro e Masiero conobbe Ilya Lopez, nome d’arte di Attilia Tironi. Sarà stato il cognome spagnolo a farlo innamorare, sarà stato il modo in cui cantava Grazie dei fiori oppure sarà stata la bella pettinatura bionda e gli occhi scuri… era una notte languida da canzoni fosche quella al night club della Porta d’Oro quando comparve l’argentino con i baffi alla Clark Gable, la guardò oltre la coltre di fumo e inquadrò la cantante attaccata al microfono. Lui era un uomo di spettacolo come lei, il suo palcoscenico era lo stadio dove componeva poetiche esibizione col piede. Si guardarono, si scambiarono una occhiata profonda che li portò in paradiso. Il loro divenne amore da gossip replicando la storia di Fausto Coppi e della Dama Bianca. Una coppia che si fece simbolo di una città industriosa e moderna, in preda al benessere, porta d’ingresso al boom economico.

Le loro vacanze a Palma di Maiorca furono l’evento dell’estate, come le fughe a Sanremo con il solito codazzo di paparazzi. Ilya Lopez, artista di varietà separata dal marito, bresciana, venne presa di mira. Girava la voce che la donna fosse pedinata, che cercassero di dissuaderla ad avere una relazione con il bel Valentino porteño, che ricevesse minacce e telefonate poco consone, che quasi avesse paura di uscire di casa, che l’avessero indotta a lasciare Milano. In parallelo, Angelillo nella stagione 1959-60 non ripeté l’exploit dell’anno d’oro. La squadra veniva spedita in ritiro per impedirgli di vedere la bionda cantante. Gli altri calciatori mugugnavano, i tifosi rumoreggiavano. A cambiare il destino arrivò l’improvviso decesso del padre Alberto, macellaio, a soli 47 anni. Gli annunciarono la dolorosa notizia nel ritiro di Desenzano. Ma lui non poteva andare in Argentina ad abbracciare la mamma Soledad perché considerato renitente alla leva, una misura che resterà in vigore per venti anni.

Il giorno dopo, nel minuto di silenzio decretato dall’arbitro a Vicenza, Angelillo pianse a lungo, attorniato dai compagni e dagli avversari. Fu un attimo delicato che mutò il suo modo di vivere. Giocò una delle più belle partite della carriera.

La stagione successiva, con l’arrivo di Helenio Herrera scoppiò il caso Angelillo: il goleador venne messo fuori squadra per scarso rendimento. La colpa? Di Ilya che lo distraeva. Il realtà il «Mago» non amava i calciatori carismatici, come insegnava il caso Kubala al Barcellona, messo fuori rosa. Moratti fece il Ponzio Pilato:«Angelillo è un attore, quando vuole recita meglio degli altri, quando non vuole si nasconde». A Natale Herrera lanciò l’ultimatum: vietato vedere la cantante ma per tutta risposta loro si fecero fotografare in un noto ristorante. Un giornale organizzò un sondaggio: «Angelillo è finito o no?». Il 60% salvò il calciatore, solo il 40% stava dalla parte dell’allenatore. Perseguitato, messo fuori squadra, l’attaccante finì col decidere di lasciare l’Inter. Nell’estate del 1961, dopo una vacanza alle Baleari con Ilya, l’Inter lo vende per 270 milioni di lire alla Roma, che vinse la concorrenza del Boca Juniors che ne offriva 200. In cambio, arrivò dalla Spagna Luisito Suarez. L’Angelo ha 24 anni ma è macchiato da una parabola negativa. Eppure si risolleva nella città della Dolce Vita vincendo in quattro anni una Coppa Italia e una Coppa delle Fiere. Peccato che quando la Juventus lo cerca, lui scopra che l’Inter, pur considerandolo finito, avesse inserito una clausola che non permetteva alla Roma di cederlo al club degli Agnelli, alla Fiorentina e al Milan per almeno tre anni. È l’inizio del declino con comparsate nel Lecco, nel Milan di Nereo Rocco e nel Genoa in pieno 1969.

Dopo l’addio all’amata Ilya, il bomber sposò Bianca, friulana di Paularo, ed ebbe due figli e cominciò una proficua stagione da allenatore, conclusa nel 1991 alla Torres, quindi da osservatore per conto dell’Inter (ha scoperto Javier Zanetti) fino agli anni della vecchiaia ad Arezzo. Di lui si ricorda soprattutto una rara figurina Panini. Introvabile. Come il talento che sfuma nell’incalzare del tempo, come l’odore dell’amore che evapora aprendo una finestra.

Facebooktwitterlinkedin