Raoul Precht
Periscopio (globale)

I silenzi di Rulfo

A cent’anni dalla nascita, rileggiamo Juan Rulfo, padre nobile (e defilato) della letteratura latinoamericana, maestro (riconosciuto) di Asturias e García Márquez

Non si può chiudere quest’annata senza ricordarne il centenario forse più importante. In Bartleby e compagnia, quella specie di breviario dedicato agli “scrittori del No”, o del gran rifiuto, agli scrittori, cioè, che preferiscono negarsi, non scrivere e non pubblicare, Enrique Vila-Matas dedica alcune belle pagine a Juan Rulfo, scrittore messicano che sulla letteratura in genere, e quella latinoamericana in particolare, ha esercitato un’influenza inversamente proporzionale alla quantità e alla mole delle sue opere. Vila-Matas racconta fra l’altro come Rulfo abbia lavorato per anni come copista insieme a un altro scrittore, Augusto Monterroso, in un angusto ufficio dove entrambi cercavano di farsi notare il meno possibile e di risparmiarsi per altre, più stimolanti, attività. Da modesto copista Rulfo si comporta anche al momento della redazione del libro che lo renderà famoso, Pedro Páramo: il romanzo sarebbe stato infatti composto a suo dire quasi sotto dettatura, per reazione a quanto gli andava raccontando una voce interiore, e quasi senza alcun intervento da parte sua. Più tardi, e per giustificare il suo prolungato silenzio – oltre a Pedro Páramo pubblicherà in vita una raccolta di racconti, El llano en llamas (La pianura in fiamme), e una manciata appena di altri lavori – Rulfo chiamerà a testimonio (impossibile) la figura mitica di un certo zio Celerino, l’unico membro della famiglia dotato d’inventiva, colui che gli avrebbe raccontato le storie. Una volta morto questo zio Celerino, avrebbe detto Rulfo, niente più storie: ed ecco spiegati i motivi della sua astensione dallo scrivere.

Come che sia, resta il fatto che in più occasioni ben due premi Nobel latinoamericani, Miguel Angel Asturias e Gabriel García Márquez, individueranno in Pedro Páramo l’unico romanzo che avrebbero davvero desiderato scrivere, al punto che il famoso, efficacissimo incipit di Cent’anni di solitudine testimonia di un debito diretto nei confronti di un passo del romanzo di Rulfo («Padre Rentería doveva ricordare per molti anni quella notte in cui il letto troppo duro lo tenne sveglio e lo costrinse ad alzarsi ed uscire».). Resta anche il fatto che al di là del gioco di specchi e rimandi – a sua volta Rulfo è tributario di Faulkner, Joyce e persino dell’islandese Laxness, ma anche di altri autori geograficamente più vicini, come il brasiliano Guimarães Rosa o la sorprendente autrice cilena María Luisa Bombal – quello che conta sono le qualità intrinseche di un romanzo e di un pugno di racconti che descrivono con precisione chirurgica una geografia materiale e mentale. Geografia anzitutto del paese abbandonato di Comala, nello stato natale di Jalisco, certo, ma in virtù della quale Comala e Jalisco fanno da perno e sineddoche di un territorio molto più ampio, che investe il Messico, l’America latina nel suo insieme, e ancor più in generale la condizione umana. Nella letteratura messicana, di cui Rulfo è stato il massimo rappresentante nel Novecento, a prevalere è il sentimento della dissimulazione, della sottrazione, della sparizione: ancora oggi, i frequenti episodi di scomparsa, soprattutto di giovani, ad opera di bande di narcotrafficanti le cui gesta spesso s’intrecciano in una spirale perversa con connivenze e silenzi da parte delle forze di polizia ai più alti livelli, sembrano rafforzare ancora di più l’impressione di abbandono e di morte che quel territorio in particolare produce.

Ma nonostante il famoso e consumato topos della “morte al Messico”, la prevalenza di ombre e fantasmi – e non a caso tutta la letteratura latinoamericana si riflette e si specchia in Pedro Páramo – non è una caratteristica unicamente locale, ma semmai il riflesso di esistenze la cui condizione generale è quella di vivere in un universo in cui prevalgono un potere brutale e assolutistico, l’arbitrio assoluto, il facile e impunito omicidio, sentimenti e realtà cui la storia del continente non è certo estranea. Non è probabilmente casuale che il titolo originale del romanzo, poi cambiato per una decisione dell’editore, fosse Los murmullos, titolo che doveva rimandare alle voci senza voce, vere creazioni fantasmatiche, di cui la narrazione è intessuta. Le voci, “logore dall’uso”, di chi non ha acquisito il diritto all’espressione, perché sempre sconfitto, anche e soprattutto in epoche rivoluzionarie, in cui tutto sembra cambiare salvo che per il povero, per colui cioè che di un cambiamento reale avrebbe davvero bisogno. La voce – anche – della natura selvaggia, che lungi dall’essere innocente si rivela invece un elemento perturbatore, corruttore, spietato nella sua indifferenza.

Nato cent’anni fa, il 16 maggio 1917, e morto nel 1986, l’anno in cui scompare anche Borges, uno dei suoi grandi ammiratori, Rulfo trascorre un’infanzia da orfano a Guadalajara, dopo che il padre è assassinato dai “cristeros” nel contesto della lotta oscurantista e reazionaria contro le leggi anticlericali dettate dalla rivoluzione. Si trasferisce poi nella capitale, abbandona la stesura di un primo romanzo, El hijo del desconsuelo, con il quale si era cimentato fin dal 1938, e scrive i racconti citati nel 1953 e il romanzo nel 1955, adottando uno stile scabro e spoglio, con cui mostra l’esempio di come si possa e si debba lavorare di sottrazione per raggiungere il massimo dell’emblematicità. Per i trent’anni successivi si limita a fare il funzionario, dirigendo l’Istituto di studi indigeni, a occuparsi di riviste, a scattare fotografie (su questa attività complementare ci sarebbe forse molto da dire) e a scrivere dei copioni cinematografici, negando però al mondo quel secondo romanzo che tutti si aspettavano e che tutti gli chiedevano. Di questa ipotetica seconda prova ci rimangono dei titoli alternativi, La cordillera o anche Aire de las colinas, chissà, e qualche accenno in questa o quell’intervista, ma niente di più: proprio come se qualcosa gli avesse sempre impedito di porvi veramente mano.

I conti con il magistero di Rulfo – perché di questo si tratta – vanno fatti dunque a partire dai racconti e dall’unico romanzo. Per i temi trattati, l’andamento paratattico e incalzante, l’impasto linguistico, l’impianto modernista, le storie di El llano en llamas rappresentano una sorta di preparazione e di distillato del romanzo. Qui Rulfo racconta di povertà, emigrazione, violenza, delusione, della sfortuna in tutte le sue sfaccettature: “come se la vita che mi restava,” dice uno dei personaggi, “fosse già molto consumata e non sopportasse altri strapazzi.” E racconta della grande delusione innescata dalla rivoluzione, che per risolvere o almeno attenuare i problemi di sempre non sa escogitare alcuna soluzione e anzi ne crea di nuovi.

Quanto a Pedro Páramo, la ricerca affannosa del padre, il “rancore personificato”, da parte del protagonista Juan Preciado – ricerca condotta, non lo si dimentichi, a fini di vendetta e riscatto – si trasforma ben presto nella scoperta di un coacervo di tradimenti, risentimenti, sconfitte, capitolazioni e ancora e sempre violenza, aggravata dal confondersi, nella finzione narrativa, di vivi e morti, finché questi ultimi non prevarranno, o non ne prevarranno i fantasmi.

Dopo queste due prove strabilianti, come ricordavo poc’anzi, Rulfo ha praticamente taciuto per il resto della vita ed è scomparso in sordina, mantenendo intatto il suo mistero, il mistero bartlebyano del “preferirei di no”: la negazione ostinata e la coerente astensione da una vita che si carica di colpa e compromissione nel momento stesso in cui se ne accettino i postulati.

Ma almeno, e questo va sottolineato, Rulfo non lascia dietro di sé alcuna zavorra, davvero nulla d’inessenziale.

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