Danilo Maestosi
Al Maxxi di Roma

Einstein o Duchamp?

“Gravity” è una mostra insolita mette una accanto all'altro il mondo di Duchamp e quello di Einstein, l'arte e la scienza: un confronto eccita la fantasia ma non sempre appaga gli occhi

Strano il copione della mostra Gravity ospitata dal Maxxi per analizzare i punti di convergenza tra arte e scienza a oltre un secolo di distanza dalle teoria di Einstein che ha rivoluzionato il nostro modo di interrogare e immaginare l’Universo e i suoi misteri. Un confronto che segna da secoli la storia della cultura occidentale trasformato in una sorta di matrimonio per procura da due circostanze: l’inedita triangolazione tra il museo di via Guido Reni, l’Agenzia spaziale italiana e l’Istituto nazionale di Fisica nucleare che ha dato vita all’iniziativa e l’esordio del museo stesso nel campo fino ad oggi poco praticato della divulgazione scientifica. Da qui quel clima da prima volta che nell’interminabile conferenza di presentazione detta i proclami di entusiasmo e stupore con cui i partecipanti esaltano l’azzardo di un impresa che altrove sarebbe operazione di routine. E sembra governare anche l’allestimento.

A partire dal prologo nell’atrio d’ingresso che ricorda la cerimonia di esibizione dei doni che i due celebranti, arte e scienza, chiamati a nozze, si portano in dote per l’occasione. Dal soffitto pende un modello a grandezza naturale della Sonda Cassini, una sofisticata apparecchiatura made in Italy, che per venti anni ha navigato attraverso i confini del nostro sistema planetario per poi perdersi nel nulla. Di fronte, due palloni aerostatici dalle superfici specchianti realizzati da uno degli artisti coinvolti, Tomès Saraceno, per captare e diffondere suoni dispersi nell’atmosfera. È una contrapposizione spettacolare, comunque tutt’altro che inutile. Fa emergere una differenza tangibile e carica di effetti tra arte e scienza. Poco sensibile la seconda all’estetica: tutti – o quasi – gli strumenti costruiti per l’esplorazione del cosmo secondo regole di pura funzionalità si presentano con aspetti dimessi; la tecnologia sottratta alle liturgie del mercato non ha bisogno di tacchi a spillo. Al contrario l’arte si pone per necessità di statuto il problema della forma, anche quando sceglie come veicolo di comunicazione un idea o un processo puramente mentale è costretta a dargli una veste visibile.

Il leit motiv rituale dei parafernalia prosegue nel percorso centrale della mostra dispiegata nelle sale del primo piano, attraverso l’esibizione dei cimeli raccolti in vetrina. Ma con un verdetto ribaltato stavolta a favore della scienza. Ecco un raro esemplare di sfera armillare inventata dagli antichi per studiare i movimenti dei pianeti; ecco un telescopio seicentesco, molto simile a quello messo a punto e usato da Galileo. Ed ecco in uno stipetto di fronte un oggetto Anni Venti realizzato e firmato da Duchamp sull’onda delle teorie di Einstein da poco pubblicate: una scatola di legni curvilinei per misurare le oscillazioni dello spazio-tempo e il concorso del caso nel determinarle. Per il padre fondatore dell’arte concettuale un esercizio di stile e di fantasia che col tempo ha perso fascino e peso e non regge il confronto con le suggestioni e la forza narrativa degli strumenti messi in campo dalla scienza nell’era dell’oscurantismo per sottrarsi ai vincoli ottusi della religione e del mito.

Porta un sapore di prima volta anche il buio in cui è immersa la sala. Ma, più che un sussulto di pudore per proteggere la consumazione del matrimonio, l’effetto notte totale che governa l’intero percorso è una strizzata d’occhio metaforica che allude forse all’ombra di perenne mistero che avvolge i segreti del cosmo e alla penombra con cui si misurano gli astronauti in viaggio verso la luna. Il buio diventa però sopratutto uno stratagemma per nascondere il basso impatto spettacolare delle apparecchiature scientifiche e farle dialogare senza troppi squilibri con le opere degli artisti coinvolti. L’intera mostra è fondata su uno scambio di convenienze. L’arte contemporanea chiede alla scienza un ancoraggio di realtà alle proprie chimere,ai propri ricami di fantasia. E la scienza spera di trovare nell’arte una cassa di risonanza evocativa e divulgativa che non saprebbe costruire.

L’esempio più vistoso di questo intreccio di necessità e virtù è quello della polvere cosmica. Un pulviscolo invisibile a occhio nudo provocato dall’infinita catena di collisioni e disastri che si registrano nel cosmo. Come rendere visibile questo fenomeno? In una vetrina è esposta una barra di polvere cosmica rappresa e compressa in laboratorio: un lingotto di un marrone sbiadito che eccita forse la fantasia ma non appaga gli occhi. Quasi di fronte, una enorme istallazione, firmata da Tomàs Saraceno, lo stesso che ci ha accolto all’ingresso, architetto e artista superpremiato che, lavorando sullo stesso materiale, costruisce invece uno spettacolo per tutti i sensi. L’amo che cattura l’udito è una colonna sonora che miscela suoni captati nello spazio, altri suoni registrati da un telescopio sottomarino e le voci e il brusio dei visitatori. Più banale, un congegno tipo sigaretta elettronica che sbuffa vapori di fumo, il modo di portare alla vista un effetto da polvere cosmica. Di forte impatto invece la scena madre (nella foto sotto): un ragno che tesse la sua tela in una grande vetrina illuminata da fasci mirati di luce fino a comporre un fascinoso groviglio che evoca le maglie sfilacciate di una galassia. E aggiungere il rumore amplificato delle sue zampette al lavoro agli altri echi di sottofondo.

No, non c’è lotta. La scienza, che non può barare, è battuta in partenza. Ma può imparare a dirsi in maniera più accattivante prendendo esempio dalla disinvoltura con cui i creativi ne saccheggiano gli spunti. Ecco un film girato da Laurent Grasso nello stesso paesaggio amazzonico in cui all’inizio degli Anni Sessanta due ricercatori, Penzias e Wilson, istallarono un radiotelescopio che per caso intercettò un tenuo ma costante rumore di fondo. Credettero che il rumore fosse prodotto dal turbinio d’ali degli uccelli e invece successive verifiche dimostrarono che era l’eco fossile del big bang. L’inizio catastrofico del mondo che trovava per la prima volta voce. Sullo schermo, la cinepresa dell’autore inquadra tra la vegetazione un vortice di uccelli, di fronte un assemblaggio di tubolari ricostruisce la sagoma del telescopio. Tutto qui. Non è un’opera particolarmente ispirata. Ma basta a fare di una pagina di storia prima raccontata solo agli addetti un’epopea su cui sbizzarrirsi a fantasticare.

Al tirar delle somme tra i due linguaggi è possibile trovare un terreno di confluenza comune, utilissimo se queste irruzioni sporadiche e isolate nel territorio della scienza riusciranno a dare una spinta decisiva alla creazione di un vero e proprio museo della scienza. Un progetto che Roma insegue invano da anni e che ora torna sul tappeto per le intenzioni dell’assessore comunale Luca Bergamo di incanalare in questa direzione l’attività espositiva del Palaexpo.

La strada è quella del gioco e della simulazione. Tra le suggestioni della mostra del Maxxi, la più coinvolgente è una sala interattiva a fine percorso: il disegno geometrico che tappezza le pareti si agita e si increspa al passaggio dei visitatori, ne registra gli spostamenti e le mosse trasformandole in onde animate. È l’effetto delle onde gravitazionali scatenate dalle masse – masse certo più consistenti di noi nanerattoli umani – che irrompono nello spazio-tempo.

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