Andrea Carraro
Sul “Discorso sul romanzo moderno”

Berardinelli docet

Alfonso Berardinelli affronta il nodo della teoria del romanzo. E lo scioglie in favore dell'epica della realtà (quella del romanzo classico tradizionale) contrapposta all’epica dell’esistenza (il relativismo novecentesco). Uno scrittore ci racconta come e perché

Mi ha molto colpito, fra i libri letti ultimamente, il saggio di Alfonso Berardinelli Discorso sul romanzo moderno – Da Cervantes al Novecento, uscito nel 2016 dall’editore Carocci – nel quale il critico racconta in poco più di 120 pagine dense e stringenti come nasce e si sviluppa la forma-romanzo, «il genere più influente nell’Occidente moderno», come recita il risvolto di copertina. Per chi, come me, si cimenta ancora oggi in questo genere narrativo, un libro così rappresenta una panacea, anche perché, pur essendo scritto da un grande “specialista”, rifugge dal linguaggio specialistico e si legge quasi come un romanzo, come si usa dire. Potremmo perfino allargare la metafora affermando che protagonista del libro è proprio il Romanzo nelle sue trasformazioni attraverso il tempo, o forse ancora meglio è il personaggio-uomo romanzesco, dai capostipiti Don Chisciotte di Cervantes, Rousseau delle Confessioni e Robinson Crusoe di Defoe, fino allo Zeno sveviano dell’ultimo capitolo titolato “Un’ipotesi conclusiva: Svevo e il Novecento”, dove il critico, dopo aver sondato con profondità e sottigliezza il romanzo sette-ottocentesco (Sterne, Balzac, Stendhal, Dickens, Tolstoji, Dostoevskjj) e nelle sue deviazioni/eccezioni (Melville, Manzoni, Goethe ecc.), suggerisce un possibile approdo alla modernità novecentesca: «con La Coscienza di Zeno infatti [Svevo] abbatte la “barriera naturalistica” e si trasforma in narratore psicanalitico».

Ma c’è qualcosa che mi fa aderire all’analisi del critico romano più di ogni altra, ed è che egli ama profondamente il romanzo realistico e non lo considera affatto un capitolo chiuso nella storia di queste genere narrativo. Insomma, nessuna “morte del romanzo”, il romanzo (quello che continua ad avere un rapporto forte con la realtà) gode di ottima salute e con ogni probabilità continuerà a goderne anche in futuro, quando noi non ci saremo più a discuterne.

Nel Novecento, spiega già il critico nella prefazione, tornandoci poi a più riprese, «il romanzo, più che innovarsi, è arrivato a negare se stesso, si è spesso auto-inibito e svuotato per ragioni di teoria e di programma in un arduo quanto sterile esercizio formalistico», cadendo in «un malinteso ottimismo progressivo e avanguardistico». I grandi Moderni ai primi del Novecento – Proust, Kafka, Musil, Joyce ecc. – scardinando il romanzo tradizionale dalle sue fondamenta (attraverso il flusso di coscienza, l’apologo, la memoria involontaria ecc.) – hanno illuso molti teorici della letteratura che quella fosse la strada da perseguire a oltranza e «che i generi letterari andassero demoliti e cancellati» per sempre. Senonché quei grandi non hanno avuto veri eredi, mentre «il romanzo ha continuato ad avere rapporti di continuità con il realismo psicologico e sociale settecentesco e ottocentesco». Questo il punto nevralgico della questione.

Non basta – spiega Berardinelli sulla scorta di Bachtin, uno dei massimi teorici del romanzo – che la storia narrata sia avvincente, con meccanismi narrativi ben congegnati atti a incatenare l’attenzione del lettore. L’elemento umano deve conservare un rapporto diretto con la realtà. L’intero saggio, nei suoi passaggi conseguenti, con la sua limpida, cristallina scrittura, segue con ostinazione questa tesi, partendo proprio dal “Cavaliere errante” Don Chisciotte, figura romanzesca fondante l’intero sistema, il quale con i suoi valori cavallereschi si trova a confliggere con una realtà tutt’affatto diversa, prosaica, ormai svuotata di quegli ideali libreschi. Nel libro di Cervantes il lettore tende a identificarsi piuttosto con il deuteragonista, lo scudiero Sancio, «con il suo senso comune e i suoi proverbi», che con il protagonista, che vive soltanto della sua «realtà immaginaria». In quest’opera straordinaria coesistono – spiega l’autore richiamandosi ora a un altro grande critico, Giacomo Debenedetti – “l’epica della realtà” (quella del romanzo classico tradizionale) e “l’epica dell’esistenza” (che preannuncia il relativismo novecentesco). Immediatamente al di sopra del Chisciotte il critico pone dunque due fondamentali archetipi settecenteschi: Robinson Crusoe dell’inglese Defoe e il francese Rousseau delle Confessioni, sviluppati in due capitoli consecutivi titolati assai significativamente Il naufrago e L’uomo sincero. Robinson è, proprio all’opposto del Chisciotte, un uomo qualunque – oggi diremmo un “uomo medio” – collocato in un ambiente ignoto e insolito affinché possa realizzarsi quello scontro fra personaggio e realtà necessario alla narrazione. L’eroe di Defoe vive tutto nell’azione e appare quasi totalmente privo di interiorità. Con la sua cura del particolare, Defoe si presenta come l’antesignano del romanzo realista. Rousseau fonda invece, sintetizzando al massimo, un’”epica dell’io”, quella stessa epica che, complicandosi con il senso di colpa cristiano, con l’autoanalisi, sfocerà nel romanzo psicologico ottocentesco di Balzac e, ancor più, di Tolstoj. La forma-romanzo, muovendosi fra queste polarità, riesce a soddisfare il gusto di un pubblico borghese via via più smaliziato, tenendo insieme il “caso straordinario” e il “senso comune”. In “Peripezie e digressioni”, attraverso l’analisi del romanzo di Sterne, nella mediazione interpretativa del grande critico Šklovskij che al Tristam Shandy dedicò un famoso saggio, ragiona sul passaggio dall’”epica dei fatti” all’”epica mentale”. Nel Tristam Shandy (ma anche nei Saggi di Montaigne) il lettore è infatti chiamato a entrare nella mente dello scrittore, nel suo laboratorio, con effetti di straniamento e di comicità (come in Cervantes), con un’assoluta “libertà informale”, con «la totale e sovrana soggettività dei modi del discorso». Il romanzo diventa anche parodia di se stesso, parodia di ogni tradizione romanzesca, metaletteratura, mediazione saggistica. Il romanzo alla Sterne connette dunque Cervantes con Proust, Svevo e Musil, «inoculando nella narrazione devastanti dosi di autoriflessione saggistica e metanarrativa».

Deviazioni dal canone si hanno in Germania, dove l’asse del realismo si sposta, con Goethe, verso il demoniaco, il sublime, il tragico, il filosofico (con il Mefistofele, con il Werther, con i personaggi de Le affinità elettive). Si viene quindi formando una diversa idea di realtà, e il romanzo si presenta con una spiccata “impalcatura scientifica” e un “proposito “filosofeggiante” e “pedagogico”. Al grande scrittore tedesco sembrano interessare piuttosto le “leggi del creato” che quelle psicologiche, morali e sociali.

In Italia invece il realismo, con I promessi sposi (1827) del Manzoni, si veste di Cattolicesimo, di Provvidenza divina. Berardinelli si affida in parte alla spietata analisi di Moravia, che vedeva lucidamente (ma pure con qualche faziosità) perché Manzoni optasse per il romanzo storico alla Scott piuttosto che per un romanzo di ambientazione contemporanea: proprio per dare un peso preponderante alla religione. Abbiamo quindi un “realismo cattolico”, cioè un realismo viziato in partenza da un’etica precostituita dall’ideologia religiosa. Ciò non toglie, tuttavia, la straordinaria forza con cui lo scrittore rappresenta la corruzione e il male che possono rovesciarsi sulla società, come le terribili descrizioni della peste, della guerra, della carestia… «Manzoni è il poeta della reazione del secolo decimonono – scrisse Francesco De Sanctis – contro la Rivoluzione francese e il secolo decimottavo». Il grande critico italiano aveva riconosciuto, molto tempo prima di Moravia, che Manzoni, pur dotato di genio, non è scrittore moderno e che nel suo romanzo «il reale non è altro che un velo o involucro».

Ma “Fuori canone” (che è il titolo del quinto capitolo) c’è anche l’americano Melville. Lawrence scrisse nel suo saggio dedicato a Moby Dick che quella di Melville era una “prosa mistica” poco adatta al romanzo. È possibile costruire un romanzo moderno sull’amore per le balene? – si chiedeva sarcasticamente lo scrittore inglese di Figli e amanti, e si chiede anche Berardinelli, che chiarisce: «C’è l’avventura fisica e metafisica, un viaggio dell’anima americana, un’anima composta di individui di ogni razza e colore, verso la salvezza o la catastrofe. Questa però più che essere una finzione romanzesca è un mito biblico». Moby Dick è vicino alla Commedia dantesca, alla tragedia greca, a Manzoni e a Goethe piuttosto che a Balzac e Stendhal e Dickens, perché il suo racconto sembra svolgersi «fuori della società e della storia». Questo illuminante capitolo sulle deviazioni dal realismo europeo (francese e inglese) si conclude significativamente sui nomi di Tolstoj e Dostoevskij, che nei loro capolavori Guerra e pace e Anna Karenina, Delitto e castigo e I fratelli Karamazov «portarono la forma del romanzo a una maturità insuperata», accogliendo in un ambito realistico contenuti filosofici, religiosi, mistici.

Il vero canone realistico ottocentesco Alfonso Berardinelli lo analizza a fondo nei due capitoli successivi intitolati “Individuo, società e vera vita” e “La realizzazione della realtà”. I nomi di riferimento sono quelli ormai familiari di Stendhal, Balzac, Dickens, Flaubert, Dostoevskij e Tolstoj, sei scrittori sui quali si forma la nostra “cultura della realtà”. Naturalmente ce ne sono molti altri di significativi nell’Ottocento che vanno letti e studiati (dalla Austen a Scott, da George Eliot a Goncarov, e ancora Hawthorne, Fontane, Verga, Turgenev, Stevenson ecc.), ma quei primi sei paiono al critico imprescindibili per fondare la nostra “idea di realtà” e di “romanzo classico”. Berardinelli mette anche in relazione questi autori con i grandi moderni agli albori del Novecento – soprattutto Kafka, Joyce, Proust – con Thomas Mann a fare in qualche modo da cerniera. Sono pagine di grande penetrazione critica che aiutano a connettere le ragioni del gusto spesso istintivo alle necessità storiche e culturali, illuminando le zone d’ombra. Berardinelli ragiona qui ancora sui “personaggi-mediatori” attraverso cui il lettore viene introdotto in quel certo mondo del romanzo: partendo dal Jiulien Sorel de Il Rosso e il nero, il capolavoro di Stendhal, e osservando, ancora sulla scorta di Auerbach, che «nessun altro romanziere prima di lui era riuscito ad ambientare socialmente e storicamente un personaggio con la stessa millimetrica precisione». L’universo che lo circonda è quello francese della restaurazione borbonica. Anche qui, come nel Don Chisciotte, sono la cultura, gli ideali, a scontrarsi con la realtà, poiché Jiulien è un intellettuale, un intellettuale assai ambizioso, orgoglioso del proprio ruolo e dei propri ideali (quelli napoleonici, illuministici), che si muove al disopra dell’ambiente nel quale agisce. «Questo eroe stendhaliano è ontologicamente incapace di piegarsi (…) soffre di un eccessivo amor proprio, è un individuo malato di individualismo». E finisce per autodistruggersi. E soltanto nel finale il personaggio sembra ravvedersi, riconsiderando i suoi anni giovanili in provincia sotto una luce nuova, ma ciò avviene troppo tardi.

Diverso il caso di Dickens e di Balzac, “romanzieri professionali e totali”, mentre Stendhal era un “romanziere occasionale”. Entrambi ebbero un rapporto privilegiato con i loro lettori e scrissero tantissimi romanzi, che pullulano di personaggi, tratti dall’osservazione diretta della società. Balzac venne canonizzato da Marx e dal grande critico marxista Lucàcs, come massimo esempio di critico della società borghese. «Il vero personaggio di Balzac, secondo Berardinelli, è l’organismo sociale di cui i singoli individui sono cellule perlopiù inconsapevoli». Charles Dickens viene considerato dalla critica più “sentimentale” e “conciliativo”, i suoi eroi non sono “organici del capitalismo”, come quelli di Balzac, ma nella maggior parte dei casi sono dei disadattati, degli irregolari, degli stravaganti. La narrativa di Balzac apre al Naturalismo sociale di Zola, oggettivo al massimo grado, e antiromantico, mentre il realismo sociale di Dickens conserva alcuni tratti del picaresco, del comico, del grottesco, e viene spesso accostato a Shakespeare e Cervantes. Almeno sino al 1854, quando pubblica Tempi difficili, dopo il quale la narrativa di Dickens diventa più «impegnata” socialmente, più pessimistica. Gradualmente – scrive lapidario Berardinelli – sparisce Shakespeare e trionfa Il Capitale». Anche se il suo stile conserva sempre qualcosa di teatrale e giornalistico per non perdere il contatto con i lettori.

A questo punto Berardinelli si concentra su Flaubert, in particolare su L’educazione sentimentale, e sul suo personaggio-mediatore Frédéric Moreau, verso il quale non riesce a non esprimere una qualche resistenza e antipatia, per la sua mediocrità, per la sua incapacità di aderire o di reagire al suo ambiente, che egli subisce passivamente, mentre il romanzo «raggiunge una desolata perfezione stilistica nella rappresentazione statica della mediocrità». «La realizzazione della realtà» si ha soltanto con il grande romanzo russo di Dostoevskij e Tolstoj, due scrittori che hanno goduto, come Dickens, di un grande successo di pubblico. Nei loro capolavori, il male sociale, morale e politico sembra irradiarsi dall’Occidente, in particolare dalla figura di Napoleone, dagli strascichi dell’illuminismo francese e dall’idealismo tedesco. Da qui il ritorno a un cristianesimo politicamente rinnovato, un cristianesimo della compassione, di comunione con la natura. Ed è a questi due “giganti della narrativa europea”, a questi “rivoluzionari antimoderni”, a “questi evangelici radicali” che va l’adesione totale del critico.

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