Valentina Di Cesare
Un autore da rileggere

Stregati da Malerba

Ritratto di Luigi Malerba, uno scrittore onnivoro, connesso alla modernità quanto alla classicità, funambolesco quanto conservativo, aderente alla dimensione del reale quanto a quella del surreale...

Avrebbe compiuto novant’anni qualche giorno fa, Luigi Malerba, pseudonimo di Luigi Bonardi, autentico e giocoso sperimentatore del linguaggio narrativo e incantatore di parole del nostro Novecento. Se si dovesse indicare una figura di moderno intellettuale tanto connessa alla modernità quanto alla classicità, tanto funambolesca quanto conservativa, tanto aderente alla dimensione del reale quanto a quella del surreale, non si potrebbe in alcun modo non pensare a Malerba, scrittore e sceneggiatore originario della Valle del Taro, nel cuore dell’appennino parmense, cresciuto poi a Parma e vissuto tra Roma e Orvieto. Autore prolifico, Malerba, assai perspicace e multiforme: la sua produzione eterogenea (ha scritto romanzi, racconti, dedicandosi molto anche alla letteratura per ragazzi, e firmato importanti sceneggiature per il cinema e per la televisione) ha attraversato cinquant’anni di storia italiana, si è fatta testimone di importanti cambiamenti sociali e culturali del nostro paese e ancora oggi, molti scrittori gli sono debitori: da Ermanno Cavazzoni a Paolo Nori, da Gianni Celati a Stefano Benni.

Narratore elegante, brioso e acutissimo, tradotto in decine di lingue, capace di occultare se stesso all’interno delle sue pagine e in grado di disseminare, come fosse una polvere magica, la propria voce tra le righe, pioniere tra gli scrittori delle prime battaglie sociali, politiche, ambientali e culturali più importanti, non solo per il nostro paese, scrittore libero di inerpicarsi oltre le mode del momento, senza accodarsi a percorsi battuti. Impossibile incasellare le sue opere tutte su un preciso scaffale : la produzione malerbiana non riesce a stare in una categoria prestabilita ; i suoi scritti, nessuno escluso, risultano da un punto di vista linguistico e d’impatto, tutti piuttosto fruibili, ma nessuno di essi può essere facilmente raccontato e sintetizzato all’eventuale lettore curioso di avvicinarvisi. Romanzi e racconti dell’autore di Berceto vanno ben oltre lo scioglimento di una trama: Malerba modella il linguaggio senza che il lettore se ne accorga mai completamente, strega chi lo legge attraverso un flusso prodigioso di parole e discorsi, mettendo in opera, in maniera del tutto istantanea, un vero e proprio straniamento, riuscendo pian piano a distanziarsi dalla realtà dalla quale è, per forza di cose, partito.

Il suo esordio narrativo arriva nel 1963, con La scoperta dell’alfabeto, raccolta di ventidue racconti di ambientazione contadina ma non idillica, che hanno per protagonista il rustico Ambanelli, mezzadro delle campagne parmigiane, alle prese con alcune lezioni di lingua italiana, impartitegli dal figlio del suo padrone. La raccolta compare sulla scena letteraria del tempo come un unicum, discostandosi, pur senza invocare conflitti teorici, dal neorealismo che tanti lettori aveva conquistato. La scoperta dell’alfabeto rivela ben presto, quanto e come il vero protagonista delle storie sarà invece l’allontanamento dalla realtà e dalle sue convenzioni, in questo caso linguistiche. L’esordio malerbiano è concomitante, tra l’altro, con la nascita del Gruppo 63 dal quale lo scrittore stesso, insieme ad altri, è fortemente incuriosito, frequentandone alcuni eventi pur senza assumere mai posizioni programmatiche al suo interno. Compaiono già con questo esordio, alcuni tra gli elementi fondanti la narrativa malerbiana come la vocazione all’assurdo, la reinterpretazione del passato, in maniera originale ma sempre ben calibrata, l’apertura scombussolante alla contraddizione e all’equivoco. Appare subito chiaro che la lingua di Malerba possa riuscire a interpretare tutti i paradossi del reale. Con Il serpente e Salto mortale, i due romanzi successivi, la potenza creativa malerbiana accentua ancor di più la sua cifra surreale da una parte ed eversiva dall’altra. Ne Il serpente, ad esempio (1966), il protagonista (un annoiato commerciante di francobolli) racconta e si racconta al lettore in una maniera che alla fine, vedremo, risulterà completamente inattendibile e lo farà per suggerirci che nessuno può mai conoscere la realtà nella sua interezza, in quanto essa non è assoluta ma esiste in tante vesti nelle menti di chi la osserva.

Anche Salto mortale (1968), sulla scia del romanzo precedente, presenta un impianto narrativo quasi mistificatorio rispetto al reale, che porta ad una deformazione voluta della realtà , una alterazione che, ovviamente, non è soltanto formale. Giuseppe, il protagonista, un giorno si imbatte in un cadavere abbandonato in un campo e da allora il suo obiettivo sarà quello di scoprire chi è l’autore del delitto, soprattutto perché ha il terrore che lui stesso venga incolpato . In ambedue i romanzi l’alterazione del reale riesce bene anche grazie all’ assenza di un discorso temporale ben strutturato, come al contrario vuole la tradizione del romanzo novecentesco. Il tempo degli eventi si sovrappone di continuo al tempo in cui gli stessi vengono narrati e il tempo interiore è diverso e accavallato a quello dei fatti accaduti, tant’è che Paolo Mauri ha definito acutamente i due romanzi “due finti polizieschi” per la continua e caotica ricerca di equilibrio anche temporale. È in questo periodo, tra la fine degli anni ‘60 e l’inizio degli anni ‘70, Malerba dà prova dei suoi primi testi letterari dedicati ai ragazzi, con un ciclo di pubblicazioni dedicate all’esilarante personaggio di Millemosche, creato insieme a Tonino Guerra. Anche in questo caso ci si trova nuovamente davanti ad un nuovo esperimento creativo, seppur più leggero visti i destinatari, ma sempre caratterizzato da una realtà paradossale, dal risvolto comico e grottesco. I protagonisti sono tre soldati mercenari del periodo medievale, vili, affamati e terrorizzati dalla fine del mondo, che si esprimono in un linguaggio apparentemente carente e rozzo ma poi cantilenante e prezioso per il lettore. Durante la sua carriera, negli anni successivi, Malerba si misura spesso con epoche storiche passate (in particolare con il Medioevo ed il tardo Rinascimento) e, anche in questo caso, non si rifà ai dettami prestabiliti dalla tradizione ma compone una struttura tendente alla reinterpretazione dei fatti, scardinando le certezze che fanno del passato una delle poche convinzioni del presente.

Ne è un esempio magistrale Il pataffio (1978), il primo dei suoi romanzi storici, anch’esso ambientato nel Medioevo e privo di tutti quei sostegni di certa consuetudine di genere. Ed è proprio la scelta più volte utilizzata, di ambientare opere durante le due epoche su citate, una decisione per nulla casuale: si tratta di periodi che la manualistica ufficiale definisce in maniera piuttosto assoluta (nella sua accezione negativa) o piuttosto vaga, decentrata. Quello raccontato ne Il pataffio per esempio, è un Medioevo diverso da quello dei libri e delle leggende: il periodo raccontato da Malerba è tutt’altro che monocorde, ma al contrario è losco, ricco di brutture, impudicizie e oscenità, un tempo contraddittorio e stratificato che si rivela in un altrettanto stratificato linguaggio, ambivalente e triviale e molto legato agli istinti primordiali. Si fa evidente in questo romanzo e sarà presente anche in altre opere, la straordinaria forza comica dell’autore altra sua cifra essenziale. Nel frattempo, negli anni ‘70 e ‘80 escono nuove raccolte di racconti, di cui Malerba è un prolifico autore: purtroppo, come già notato più volte, questo genere risente tuttora nel nostro paese, di un pregiudizio non del tutto sanato, pregiudizio che risulta assai paradossale se si osserva che nostra tradizione letteraria è ricchissima, sin dalle origini, di notevoli esempi legati alla narrativa breve. Ne Le rose imperiali, raccolta uscita nel 1974, si assiste ad un ritorno ad atmosfere meno distopiche e più mitiche, legate essenzialmente all’immagine leggendaria di un impero, quello cinese (su cui l’autore, tra l’altro tornerà in altre forme più tardi, essendo parecchio affascinato dall’Oriente). Alfredo Giuliani definisce “classica” la scrittura di Malerba in questa raccolta e non sono poche le connessioni con altri importanti autori quali Rodari e Calvino.

La raccolta successiva, Dopo il pescecane, pubblicata nel 1979, invece, torna a tematiche più vicine alla modernità anche se in Malerba anche la concezione del tempo narrativo non ha una connotazione tradizionale. L’umanità di Malerba, indipendentemente dalle epoche di ambientazione dei suoi scritti, si somiglia tutta e il suo surrealismo travestito da apparente normalità, pungola il lettore e lo fa parte attiva della narrazione. Quel che è bene ricordare, nonostante la varietà dei registri usati, delle ambientazioni scelte e della paradossalità delle situazioni narrative sperimentate, è che Malerba non dimentica mai il lettore, ma al contrario lo coinvolge di continuo, direttamente o indirettamente, non dimentica insomma che il suo è un compito imprescindibile, necessario e che il suo non è meramente un ruolo di spettatore. In Testa d’argento ad esempio, Malerba “chiama” il lettore attraverso vari escamotage: dalla richiesta d’aiuto diretta per la scelta di un finale di una storia che non ne ha ancora uno, alla presentazione di una nota iniziale in cui l’autore stesso distingue tra la sua attività fabulatoria e quella un po’ bizzarra dei suoi personaggi; di questo periodo compreso tra gli anni ’70 e ‘80 c’è da ricordare inoltre un libricino difficilmente catalogabile in un genere preciso e intitolato Le parole abbandonate, (1977) che Malerba scrive per regalare l’eternità all’idioma dialettale della piccola valle dell’appennino parmense dalla quale proviene e che ha assistito, come molte altre zone interne d’Italia, ad un repentino abbandono e ad un fulmineo dopo il boom economico degli anni sessanta. Anche l’interesse per la sfera onirica è un altro dei perni fondamentali dell’estro creativo malerbiano, tutto fondato sulla contraddizione e sulla discordanza tra il detto e il fatto, il voluto e l’ottenuto, l’accaduto e il percepito, l’immaginato e l’avvenuto.

L’importanza del sogno è sottolineata da Malerba in varie forme: da Diario di un sognatore a La composizione del sogno ( reportages che non sono saggi, saggi che non sono soltanto reportages) sono anche acuti escamotages semiseri per rivedere le interpretazioni assolute dei sogni offerte dalla psicanalisi freudiana, quelli di Malerba insomma, sono resoconti di viaggi scritti al ritorno da un mondo sfuggente, inconsistente, rabdomantico. Tra gli anni ‘80 e gli anni ‘90, lo scrittore parmense regala al lettore anche libri di viaggi veri e propri: il primo di stampo decisamente più tradizionale Cina Cina (dove si rifà vivo il suo fascino per l’Oriente) ed un altro, pubblicato nel 1993, dal titolo incredibilmente malerbiano Il viaggiatore sedentario. In quest’ultimo in particolare, Malerba riflette sul ruolo moderno del viaggiatore che, secondo lo scrittore, non viaggia o comunque non viaggia più come una volta, in quanto è la concezione dello spostamento ad essersi modificata. La vocazione alla contraddizione si fa di nuovo viva anche nei romanzi degli anni novanta, insieme agli elementi suoi elementi fondanti. Il fuoco greco e Le maschere, ad esempio, romanzi rispettivamente pubblicati nel 1990 e nel 1995 fanno riaffiorare una nuova reinterpretazione del passato, rispettivamente dell’epoca bizantina e del tardo cinquecento. Nel 1992, seppur Le pietre volanti non sia un romanzo storico (ma anche sulla concezione di romanzo storico Malerba si esprimerà dicendo che ogni scritto, senza che nessuno se ne accorga, può diventare storico perché tutto cambia molto rapidamente), si ripresenta l’impianto distopico generale della narrazione malerbiana (anche se con un timbro decisamente più pacato) con accenni quasi “giallisti”. L’Egitto, paese che nella narrazione appare elemento centrale, perché il quel paese sembra essersi recato, il padre scomparso del protagonista Ovidio Romer, torna ad essere un’occasione per interpretare in chiave insolita il passato, un passato (pubblico nel caso dell’Egitto e privato, nel caso della famiglia Romer) glorioso e lungamente celebrato.

In tal senso Itaca per sempre, romanzo del 1997, è forse uno degli esempi più riusciti e certamente più conosciuti da un vasto pubblico, di reinterpretazione del passato. La storia universale di Ulisse, del suo ritorno a Itaca, l’alternanza delle voci dei due personaggi principali, Ulisse appunto e Penelope, nel romanzo malerbiano pensano e si esprimono, seppur solipsisticamente, senza che uno emerga più dell’altro e che invece nella versione omerica sono completamente sbilanciati. In una bellissima intervista concessa a Doriano Fasoli, Malerba dichiara di aver intravisto, nella scelta narrativa omerica di non affidare a Penelope il privilegio di riconoscere il redivivo marito, ma di lasciare questo onore al cane Argo, il primo atto di maschilismo dell’epoca classica. Ma si tratta della sua interpretazione e nulla più: Malerba non è mai e non lo è nemmeno in questo caso, dogmatico nelle affermazioni. Resta da segnalare che, con questo romanzo, lo scrittore offre di nuovo una modalità stimolante atta a coinvolgere il lettore, che acquisisce così i punti di vista di ambedue i protagonisti (cosa che la tradizione non ci offre affatto) e rivela di nuovo l’inconsistenza della verità assoluta. Nonostante una lingua semplice (ma non facile) ed un sostrato storico-leggendario noto a tutti, nemmeno quella di Itaca per sempre è una lettura passiva, che rassicura e conforta il lettore sulle sue certezze. Qualche anno prima, nel 1988, con il romanzo Il pianeta azzurro, si era evidenziata di nuovo la tendenza malerbiana ad eclissare il narratore, a scrivere note introduttive o di avvertimento che informano il lettore di eventuali “rischi” nella lettura. La vicenda del paranoico protagonista, un ingegnere idraulico che desidera uccidere un politico italiano molto corrotto, è espressa con un andamento narrativo morboso e straniante, modalità che abbiamo già trovato nei primi due romanzi pubblicati negli anni, che acuisce la sensazione di mistero da una parte e di inconsistenza di intenti e di prove, dall’altra.

Continua parallelamente la produzione di Malerba di testi per ragazzi: Storiette tascabili, Le galline pensierose, Pinocchio con gli stivali e altre, dove il linguaggio è fitto di sorprese, ribaltamenti e nonsense, con tentativi di restituire ai personaggi protagonisti un destino diverso che il passato non gli aveva dato. Lo scrittore come già detto, si occupa negli anni di numerose battaglie civili, in particolare sui temi dell’ambiente e dell’inquinamento. Si interessa inoltre, e lo mette per iscritto in uno dei più belli e ardimentosi libri della sua prolifica produzione, di scrittura e favori: lo fa in Che vergogna scrivere (1996), un libro necessario, acuto, bellissimo, che sdogana ancora una volta la sacralità di certi assolutismi e che riconduce qualsiasi aspetto della vita a quote più concrete. Malerba rivela i sotterfugi e gli stratagemmi messi in atto dai maggiori e più blasonati nomi della nostra storia letteraria, disposti a qualsiasi cosa pur di essere annoverati tra i letterati. La produzione narrativa che si colloca tra la fine degli anni ‘90 e i primi anni del 2000 è caratterizzata ancora da romanzi e da una interessante raccolta di Proverbi italiani, che fa riaffiorare l’interessa malerbiano per il vernacolo popolare e l’oralità, interesse che non proviene affatto da una mitizzazione del mondo contadino né da un melenso pauperismo dell’ultima ora.

In La superficie di Eliane, (1999) tornano le sfumature di giallo non solo sul piano tematico ma anche e soprattutto su quello linguistico, sfumature ibride ovviamente, ma ben evidenti (come ha notato anche la studiosa Anna Chiafele in un saggio su Malerba dedicato proprio a questo preciso argomento), che si fanno evidenti anche in Fantasmi romani, uscito nel 2006 dove emerge un Malerba esperto di “sdoppiamento”, che costruisce sui protagonisti Clarissa e Giano un doppio filo narrativo. Una coppia apparentemente longeva, si tiene in piedi sorretta dall’ipocrisia e dall’atteggiamento evitante: Malerba la racconta sapendo che dietro ad ogni essere umano si cela un doppio in azione . Degli ultimi anni è anche Ti saluto filosofia, una nuova raccolta di racconti e di storie sospese, dove si alternano dialoghi immaginari e vicende fuorvianti, che sembrano solo inganni di parole. Le incongruenze che l’autore tanto ama e che tanto ha praticato nella sua lunga carriera narrativa, lasciano spazio anche nei suoi ultimi libri, all’insensatezza di molte vicende (caos è l’anagramma di caso, diceva lo scrittore). Luigi Malerba, nel corso di più di quarant’anni di scrittura, ha messo in luce senza la pretesa di alcuna dogmaticità, la dimensione altra di ogni aspetto dell’esistenza, ed saputo tratteggiare una realtà narrativa tanto sorprendente quanto fedele alla sorpresa, tanto paradossale quanto fedele alla normalità. È curioso , ma neanche poi tanto, che sia stato proprio lo scrittore “del surreale” a conferire “al reale” il suo volto più autentico: quello di una sconfinata imprevedibilità.

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