Lorena Piras
Visto all'Off-Off Theatre di Roma

Il teatro che libera

Sasà Striano racconta i sogni (teatrali) fatti in carcere contro la segregazione e la burocrazia. Con l'aiuto di Shakespeare e della sua poesia che libera l'uomo dalla galera del tempo e dei falsi sentimenti

Non importa dove avvengono gli incontri, conta la capacità di coglierne il valore. Che avvengano per strada, in un locale. O in un carcere. Nel 1957, nel penitenziario di Saint Quentin, un ergastolano, Rick Cluchey, “incontra” Beckett e con Beckett, il teatro. Rappresentavano Aspettando Godot. L’impatto fu detonante. Andava in scena l’attesa, in un carcere. Tra persone che aspettando un colloquio, il fine pena, le visite dei parenti, un permesso, vivevano. Cluchey ne fu fulminato, scrisse al regista, ne diventò amico e iniziò a collaborare con lui tanto da ottenere il condono della pena e diventare fondatore della prima compagnia di teatro in carcere.

Se per Cluchey, l’”incontro” è stato Beckett, anni dopo, a Rebibbia, un altro detenuto, Salvatore Striano, incontra De Filippo e Shakespeare. E anche lui si salva. Oggi Sasà Striano è un attore, consacrato da Gomorra e Cesare deve morire, impegnato a teatro con Dentro la Tempesta, trasposizione della sua biografia, La tempesta di Sasà, pubblicato da Chiarelettere. Sul palco della nuova sala romana Off-Off Theatre, in via Giulia, due celle affiancate, quelle di Striano e Carmine Paternoster, e un tavolino, della direttrice del carcere, Beatrice Fazi.

Striano e Paternoster il carcere lo conoscono davvero, recitano ma non fingono. Portano in scena le ansie, i pensieri, le storture di un sistema carcerario che però, quando vuole, offre anche una possibilità. «Io avevo bisogno delle possibilità, avevo bisogno di qualcuno che credesse in me, che facesse entrare nuovi contenuti nella povertà del carcere, perché è più difficile tornare a delinquere quando davanti a noi si apre qualcosa, anche solo una piccola cosa che possiamo chiamare scelta», dice Striano. E quella possibilità, si chiama teatro, si chiama cultura. Attraverso la lettura di Shakespeare, Striano impara che bisogna ragionare, uscire dalle proprie tragedie personali, che non bisogna cedere alla vendetta come Amleto o all’avidità di potere come Macbeth. E, tutto questo, ora lo mette sul palco.

Le due celle sono una a fianco all’altra, ma i due detenuti all’interno non si possono vedere. Possono parlare, però. Da prima diffidenti, iniziano a raccontarsi, con la veracità che solo il napoletano può dare a una conversazione, sino a diventare partecipi uno delle disgrazie dell’altro. Il tempo è scandito dal canto straziante di un altro detenuto che arriva da fuori scena, dal pulire la cella con una vecchia scopa, dal passare dalle ciabatte alle scarpe da tennis allacciate con un che di ossessivo, dall’indossare una nuova maglietta. Sempre gli stessi gesti, prigionieri, ristretti anche loro così come i sensi, gli affetti, le emozioni, in un tempo sospeso ma che trascorre inesorabile e brucia con il fumo di tante sigarette. Un tempo scandito dalle notizie di un suicidio, dalla radio che parla di indulto, da arrivi e trasferimenti.

Paternoster, ancora prima della cella, è prigioniero della burocrazia che gli impedisce di vedere suo padre, moribondo. Il tempo è magmatico, avvolgente, soffocante. Immobile. Ma passa. E quel permesso non arriverà. Sarà la prima volta in cui l’inflessibile direttrice mostrerà il suo lato umano, il suo non essere d’accordo con quello che chiama ministero di Disgrazia e Ingiustizia, a sottolinearne le inutili e dannose insensatezze. Lei, prigioniera volontaria di quello stesso sistema che rappresenta. Che farà entrare il teatro in carcere. Che da ragazzina avrebbe voluto fare l’attrice e si chiudeva in bagno davanti allo specchio. Lei che per un momento esce dal ruolo, dalla maschera del quotidiano e solidarizza con i due detenuti ora attori, sulla scena come nella realtà. Detenuti, attori, uomini che in carcere hanno paradossalmente trovato le regole che non hanno avuto fuori, che grazie alla possibilità offerta loro dal teatro, hanno evitato di “scambiarsi veleno”, come scrive Striano, di fare del tempo in carcere un’università del crimine. Perché è con il tempo che bisogna fare i conti, se lo sai usare, ti aiuta, se no ti affonda.

A fine spettacolo, Striano e Paternoster, fuori dalle celle, liberi, salutano il pubblico indossando due magliette nere con una scritta: desidero carceri che siano più scuole e scuole che siano meno carceri. Perché la libertà può passare anche attraverso il buio, ma deve esserci qualcuno che aiuta ad aprire la porta, a pensare e pensarsi diversamente, a far capire che c’è sempre un momento in cui si può scegliere.

L’11 novembre alle h 16, Sasà Striano presenterà il suo libro Giù le maschere al Pisa book festival, sala Pacinotti, Palazzo dei congressi: la storia di un gruppo di adolescenti ribelli che grazie al teatro trovano la via del riscatto.

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