Pasquale Di Palmo
La voce del poeta: Nina Nasilli

Cadenza ondosa

Dopo varie raccolte, l’autrice e pittrice di Rovigo approda, con “Tàşighe!”, alla scrittura vernacolare. Una lingua delle origini, con varianti provenienti da ambienti e terre confinanti che ha esercitato sulla poetessa una seduzione ispiratrice rivelando tutta la sua espressività immaginifica

Poetessa e pittrice, fortemente influenzata dalla figura di un autore “irregolare” come Ottiero Ottieri, Nina Nasilli, nata a Rovigo ma operante a Padova, scrive sia in lingua sia in dialetto. Dopo varie raccolte ha recentemente licenziato Tàşighe! (152 pagine, 14 euro) per Book Editore, arricchita da una nota di Francesco Piga.

Può parlarci della sua ultima raccolta?
Tàşighe! è il mio esordio di scrittura vernacolare, dopo una lunga pratica del verso in lingua. L’occasione del primo testo in questo mio polesano è stata casuale, quasi un esperimento giocoso, ma presto il dialetto – per me prevalentemente legato all’ascolto giovanile, e ben poco praticato nella vita quotidiana – ha mostrato in modo direi luminoso la sua potenzialità espressiva e immaginifica. Di qui l’abbandono alla sua seduzione ispiratrice, che ha portato alla raccolta di una quarantina di testi suddivisa in tre sezioni. Naturalmente è seguìto un tempo di necessari approfondimento e comparazione linguistici, che hanno comportato le scelte grafico-fonetiche per me opportune alla resa il più possibile “oggettiva” del suono. Il sostegno di un editore esperto e coraggioso (Book Editore) mi ha convinto non solo alla pubblicazione del libro, ma anche a fondare la nuova collana “foglie e radici – Biblioteca del vernacolo” che lo contiene, e di cui sono ora curatrice responsabile.

Che particolarità presenta il dialetto che adopera?
La lingua di Tàşighe! è sostanzialmente la lingua rodigina delle mie origini, con varianti provenienti da un ambiente polesano confinante con la terra ferrarese, ma presenta cospicui innesti pavani, data la mia adozione a Padova, città in cui vivo ormai dai tempi universitari. E non manca qualche intrusione veneziano-chioggiotta, dovuta soprattutto alla frequentazione assidua della campagna al confine tra Padova e Chioggia. Queste sono le radici della lingua “parlata” nel mio libro. Del resto, il dialetto non è mai davvero codificabile: la sua scrittura è sempre e soltanto un’attualità (rappresentazione attuale) – emotiva, sentimentale, riflessiva – di un flusso eminentemente orale: nasce orale, ed è destinato all’oralità, dove davvero esso vive, e ha il respiro (molto umano) di ogni singolo parlante, e della comunità cui quest’individuo “sente” di appartenere. E si allarga, questo respiro, fino a dove chi ascolta si riconosce. Va detto che questa lingua veneta, a differenza di altri dialetti, ha il pregio, nella sua connaturata lentezza e nella sua cadenza “ondosa”, di essere compresa in un’area settentrionale davvero vasta, dalla Brianza al Friuli Venezia Giulia, ed è in questo senso una lingua fortunata.

Quali differenze intercorrono tra espressione in lingua e in dialetto?
Se da una parte la fonte da cui sgorgano – per me – le due manifestazioni espressive è sempre la stessa, ed è urgente, fisiologica, “naturale”, dall’altra è vero che esse, in quanto ciascuna linguaggio, utilizzano ognuna strumenti propri, attuando sistemi (mondi) compositivi e cognitivi diversi, e complementari. A partire dagli inevitabili condizionamenti formali, sonori e ritmici. Ma anche semantici. E succede – toccando il magico/necessario rapporto cosa-parola – che nella lingua poetica italiana, già evocativa in forza di una natura etimologica straordinaria, una parola sia non solo la cosa che è ma anche tutto il suo pensato in potenza, il suo pensiero mancato, e lo agisca implicando una energia astrattiva che subito mostra la sua fame di parole, fame che sempre la parola trovata in parte delude, mettendo in cerca ancora (come a dire: dalla parola al pensiero, verso un pensiero altro, che cerca le cose, e le parole, ma si realizza davvero nella sua fame inesausta, che si pensa). Nel dialetto invece la parola è, essenzialmente, appagata e appagante: è tecnica, precisa, e staglia la cosa per ciò che è in una concretezza di spazio e di tempo che sposta a sua volta cose, con tutto il rumore che segue, ma sono tutte cose (le immagini, i ricordi, le nebbie o l’erba … tutto): dal suono della memoria (che è la parola) alla cosa, dalla cosa a un’altra cosa, un’altra memoria … dentro un movimento immaginifico stupendo. Negli esiti il dialetto si mostra subito con sorriso e calore, per il suo appeal sociale, aggregante, che ama la condivisione collettiva, la lettura a voce alta, non solo “tollera” una tavola imbandita, ma quasi invita alla partecipazione della mensa, e muove al confronto, al dia-logo. Il dialetto accoglie: unisce, ci fa ritrovare, dal ricordo della casa in poi.
Diversamente la poesia nella lingua codificata da grammatiche, stili, e da un passato attestato e ben riscontrabile – che essa si ponga in una condizione di adesione ai modelli tradizionali, o viceversa di reazione/trasgressione a essi – non sfugge a una inevitabile attenzione/analisi “testuale” che interviene (e si spera ciò accada “naturalmente”) già nel momento compositivo. Questa premessa deve avere a che fare con ciò che ne risulta. Infatti, almeno per come intendo la Poesia, anche se la lettura a voce alta può conferire connotati e aggiungere valori, tuttavia il pieno godimento di un testo accade silenziosamente, nella lettura individuale e generosa di tempo intorno. Il suo grido, se è davvero Poesia, sa risuonare – prima di ogni altra cosa – nel silenzio, e lo sa rendere eloquente. È così che sa dire dell’uomo anche lo straniamento, la sua solitudine come condizione originaria del suo essere, prima che sia collocato nell’esistenza e nel tempo.

Cosa pensa della diffusione della poesia in rete?
Non penso cose buone. Anzi, la temo moltissimo. E dispiace dirlo, proprio mentre si approfitta di questo stesso mezzo per dirlo. D’altra parte non può essere negata l’utilità strumentale della rete, se considerata in senso assoluto e in potenza. E se è vero che la comunicazione informatizzata può avere il merito di avvicinare alla Parola persone (penso soprattutto ai giovani) che diversamente non conoscerebbero una riga di Szymborska o di Brodskij, la rete però sta dando voce troppo spesso a una scrittura sedicente poetica o d’arte, che rischia di danneggiare la poesia stessa e chi la frequenti, inducendo facili fraintendimenti. La pubblicazione di ogni parola dovrebbe essere una responsabilità, mentre si osserva un proliferare pauroso di scritture improvvisate, spacciate per poesia, spesso puri capricci diaristici, “di pancia”, senza che ci sia la parte nobile del lavoro: il labor, con tutta la fatica che serve, e la cura dello studium, che è prima di tutto amore, passione, e quindi anche applicazione, dedizione. Di fatto a me pare che si stia pericolosamente favorendo la confusione e l’appiattimento culturali, adattandosi la cultura alle esigenze tecnologiche, veloci, prevalentemente visive della comunicazione, invece di sostenere il moto “ascendente” contrario – faticoso e lento, è certo – che innalzi le intelligenze verso la propria affascinante complessità.

Quali sono i suoi autori di riferimento?
I nomi che accompagnano il mio fare poetico continuano a essere – per citare i primi che mi vengono in mente – Celan, Cvetaeva, Rilke, Pasternak, Pessoa, Rosselli, Montale. Da quando il dialetto ha fatto la sua comparsa, va detto il modo rinnovato di leggere gli amati Pasolini e Zanzotto, e l’incontro con la scrittura di Guerra, di Noventa, Ruffato, Baldini.

Cosa sta preparando attualmente?
Continuo le presentazioni di Tàşighe!, dipingo, scrivo versi in italiano, che forse raccoglierò, ma a tempo debito, in un nuovo libro. La scrittura in dialetto mi accompagna, ma ultimamente in forma di appunto/frammento in prosa.

Può commentare la poesia inedita presentata?
Come autore sono restia a “commentare” ciò che scrivo, ché io credo che la Poesia (e così l’Arte visiva) non debba mai essere “spiegata” da chi la crea. Essa, se “è” (e questo comunque non lo dovrebbe dire chi scrive), “è” perché accade: e accade in forza di un moto di Necessità, in cui suono e significato non seguono vie logiche o ri-percorribili, ma si combinano in modo inevitabilmente misterioso e complesso anche per il poeta. L’intenzione che può aver dato principio o avvio all’avventurosa rincorsa di pensiero (e sentire) e di suono ha ben poca importanza se confrontata con la risonanza che un testo può evocare in chi ascolta/legge/partecipa. Posso però dire, poiché sono dati oggettivi, che sono versi di quest’anno, nati in concomitanza con una serie di opere, le più recenti che ho dipinto, e che hanno dato vita all’ultima personale, Vólti lacerti, ancora in corso a Lugano. L’eponimia, e la coincidenza dell’urgenza espressiva, verbale e segnica, me la rendono oggi particolarmente cara.

 

***

 

vólti lacerti

siamo vólti lacerti

insicuri

anche dell’ombra

nel caso di notte

 

ma le valve ignare

del verso dell’onda

non temono

di farsi anche duna

coi rami franti e i sassi

e i sassi ai rami inserti

 

una distesa di sabbia: una duna

lì, sulla spiaggia incolta

– duna di valve, rami franti

sassi e sassi ai rami inserti

 

non teme Natura

un peso di giudizio

e siamo noi, gli incerti

del cosmo

fatti col sale

pavido d’assente mare

a gravare la sua nobile

indifferenza

della nostra grandiosa inutilità

 

e intanto io non so

e non lo so dire

come trascorrano gli anni

 Nina Nasilli

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