Giuliano Capecelatro
Un omaggio a Carlo Emilio Gadda

L’ultima inchiesta di Don Ciccio Ingravallo

«Don Ciccio posa la tazzina sul bancone. Assorto. Il caffè come hegeliana orazione del mattino. Capace, con i suoi vapori, di insinuarsi tra le circonvoluzioni torpide, scuoterle, dare una bella scossa a tutta la complessa struttura cerebrale e farla ripartire»

Il mortaio,… Un blocco di marmo intagliato, dagli angoli aguzzi… il sangue, tanto, briciole di materia cerebrale tutt’attorno… un occhio spappolato… Il mortaio, se ne sarebbe procurato uno. Ma no. Di sicuro tra le mille carabattole, eredità di famiglia, lì al paese, uno ce n’era. Ricordava, credeva di ricordare, nonna Carmela curva nell’affondare il pestello. Curva, sì, senz’altro, l’età, non solo le faccende domestiche; in cucina, ovvio; col mortaio? Nome sinistro!… Ominoso … sangue sui bordi… uno sbaffo di sangue su un frammento di tazzina… perché il chicco frantumato conserva l’originaria essenza oleosa, l’aroma è più intenso, il sapore avvolgente, stimolante.

Movimenti liturgici, sguardo compunto, il commissario Ciccio Ingravallo sorbisce il caffè che la barista gli ha servito con un breve sorriso complice. “Il solito, lungo lungo, dottore?”. Celia che la donna replica ad ogni suo ingresso, come dire ogni mattina che domineddio manda in terra.

La signora Lorenza, occhio prensile: addestrato da giorni e giorni passati dietro il bancone. Dal primo istante – il cliente si presenta bene, dai gesti, le occhiate che lancia, fa presagire frequentazioni diuturne del piccolo esercizio – ha afferrato e immagazzinato la preziosa informazione: l’inappuntabile funzionario, fasciato da un completo grigio ferro, una striminzita cravattina dal colore inafferrabile su una camicia Bianca – sempre lo stesso vestito, una divisa – non concepisce che il caffè ristretto, affatto mondo da contaminazione dolcificanti, da intrusioni di agenti esterni delegati a corromperlo.

Vent’anni prima, 1927, quinto dell’era. Don Ciccio era assurto a effimera gloria nelle cronache locali. Brillante risolutore dello gliuommero, sì, insomma, del garbuglio, l’efferato delitto secondo la scontata locuzione giornalistica, del Palazzo degli Ori. Al 219 di via Merulana. Il liquido scivola sul palato, s’infila in gola, corre a riscaldare ed eccitare lo stomaco. Un momento di assoluta concentrazione, che sfiora l’estasi. Lui e il caffè, impegnati in un esercizio di consustanziazione. Fuori, lontano, il mondo, inarticolata empiria.

Ed ora… vent’anni esatti dopo, nello stesso palazzo, ancora una donna morta ammazzata. Una povera crista, tozza, sformata dagli anni e dalla fame. Riceveva qualche derelitto come lei nel suo appartamento, due stanzette scure e maleodoranti nel sottoscala, una scarsa mobilia raccogliticcia e malandata. Era fuori dal giro delle case d’appuntamento: evidente mancanza di requisiti. Attempata, dipinta a colori sgargianti: labbra rosso carminio, rosso fuoco le unghie di mani e piedi, palpebre impiastricciate di qualche intruglio tra il blu e il grigio, rossi finanche i capelli, tizianeschi per così dire.

Tariffe popolari: ottanta, cento, centoventi lire; nelle giornate di grasso riusciva, forse, a mettere assieme duecentocinquanta, trecento lire. Eppure… eppure qualcosa, una miseria s’intende, da parte doveva averla messa. Chi l’aveva accoppata lo sapeva. Casa a soqquadro, cassetti spalancati, buttati per terra, ante dell’armadio aperte come per un generoso invito.

Don Ciccio posa la tazzina sul bancone. Assorto. Il caffè come hegeliana orazione del mattino. Capace, con i suoi vapori, di insinuarsi tra le circonvoluzioni torpide, scuoterle, dare una bella scossa a tutta la complessa struttura cerebrale e farla ripartire; dong! la botta che si assesta a un meccanismo renitente ad avviarsi. Il grumo indifferenziato, aggrovigliato, si scioglie, i pensieri, piano piano, prendono a defluire; dapprima compassati, quasi timorosi di prendere la strada del mondo, poi sempre più spediti, sciolti, agili. Abbordano spesso la metafisica. Ha il bernoccolo, lui, dell’astrazione. Negli anni universitari si era concesso letture ardite; ancora oggi preferisce qualche bel tomo ostico ai romanzetti, agli scrittori che rovistano avidi tra le imprese della sua categoria, degli zelanti servitori dello Stato che si dannano l’anima per affermare le ragioni della Giustizia.

Rosa Di Pietro reclutava i suoi avventori nel sottobosco sociale transumante tra via Merulana, piazza Vittorio, Colle Oppio. Disgraziati il cui lunario presentava le insidie di una vetta alpina. Gli altezzosi inquilini del Palazzo degli Ori non avevano mancato di lamentarsene: tutto quel viavai, insomma, il decoro dello stabile, ci sono anche dei bambini, non gli sfugge nulla, fanno domande, possono turbarsi. No, che pensate? Parenti, assicurava Rosa, ampio segno della croce, espressione sbigottita: nipoti, qualche cugino.

Vent’anni prima, 1927. Sulla cresta dell’onda. Successi professionali – il Palazzo degli Ori, sicuro, ma mica solo quello –, stimato, incensato; be’, un pensierino, non subito, no!, ma in prospettiva, alla poltrona di questore l’aveva pur fatto. Però… però… Sapeva di non essere in sintonia con gli umori del Paese, già, con l’iniziale maiuscola, non il suo paesino nel Molise, con quello la sintonia non era mai venuta meno. I primi giorni anche lui aveva pensato che un uomo di polso avrebbe potuto raddrizzare la barca, riportare la navicella Italia sulla giusta rotta. Illusione di breve durata. Un vociferante ciarlatano l’uomo di polso, un furbastro esaltato che arraffava soldi a destra e manca. E uccideva per interposti sicari gli oppositori.

Lo scarso entusiasmo per gli alalà l’aveva assimilato a un appestato. Sguardi malevoli dai colleghi, col braccio destro sempre arditamente sguainato nel saluto di un popolo alfine guerriero; preferivano allontanarsi quando lo avvistavano. Brevi battute, il minimo indispensabile. Non più la convenzionale euforia cameratesca, il quarto d’ora distensivo davanti a un buon caffè.

La mattina studiava nonna Carmela, avambracci poderosi di chi lavora quotidianamente impasti per il pane, le sagne, i cuzzutilli e altre leccornie che andavano ad imbandire una tavola peraltro frugale, ma spoglia mai. Versava, la donna, da uno sportellino a cupola i chicchi neri, no, no, non proprio neri, piuttosto un bel marrone scuro, in quello strano aggeggio, il macinino… ma il mortaio… tutt’altra cosa!… a sua volta marrone, forse per sottolineare l’affinità, sormontato da un’asta ricurva con un pomolo in legno, che afferrava e faceva girare in senso orario. Scrocchiavano i grani, un suono pieno che ad ogni rotazione scendeva di tono fino ad esaurirsi quando anche l’ultimo chicco era passato, è il caso di dire, a miglior vita.

Nonna Carmela, allora, tirava fuori dalla base dello strumento un cassettino, ricolmo di una polvere fina che subito disponeva nel vano bucherellato di un altro ordigno favoloso, un tubo di una quindicina di centimetri che, capovolto e inserito in un recipiente egualmente tubolare e provvisto di un lungo becco, quasi un naso rovesciato, veniva riempito di acqua bollente. Scendeva, lenta, goccia a goccia, l’acqua, infiltrandosi nella polvere scura, a cui rapiva essenza ed aroma. Tempo solenne. Inizio ufficiale della giornata. Poi la famiglia scattava: al lavoro gli adulti, verso le sue preci la nonna, a scuola il futuro don Ciccio, allievo di ottimi risultati, soprattutto se più che la memoria c’era da far lavorare le meningi. Brillante lo definivano gli insegnanti, brillanti affermazioni preconizzando.

Un mortaio aveva fracassato la testa della povera Rosa, e fatto scempio dell’occhio sinistro. Giaceva, la vittima, sul pavimento, lordato di sangue che si allargava nella stanza squallida. Riversa, disarticolata, una marionetta cui avessero reciso i fili, una gamba schiacciata sotto le natiche, le braccia allargate a croce, l’aria attonita di chi assista ad una scena incredibile. Distante, in un angolo ancora più buio del resto dell’appartamento, un frammento di tazzina con una macchia di sangue; si era difesa, Rosa, o almeno ci aveva provato. Un’altra tazzina, con dentro ancora il caffè, posata su un tavolo coperto da una tovaglia floreale.

Un amico fidato negli anni dell’università. Notti e notti passate insieme, curvi, lui e l’indefettibile amico, sui libri, e dai con l’usucapione, e dai con Cuiacio e Grozio, e dai con summum ius summa iniuria, e dai con lo Statuto. Brillante anche qui. Trenta e lodi che fioccavano. Brillante, brillantissima la laurea in filosofia del diritto e il professore che se lo voleva tenere. Ma lui niente. Servire la Giustizia voleva, neanche il padreterno lo avrebbe smosso.

Tre i sospetti. Inquadrati dall’occhio lungo e perennemente vigile degli inquilini. Visite brevi, quei benedetti nipoti e cugini: quindici, venti, trenta minuti al massimo. Umberto Proietti, un bestione sui cento chili di mezz’età, all’alba spazzava le strade tra via Merulana e piazza Vittorio. Nando Procacci gestiva un banco di macelleria nella piazza suddetta; voce di popolo assicurava che avesse fatto soldi a palate col mercato nero, per poi immolare anche l’ultimo centesimo nel gioco d’azzardo. Radi capelli bianchi, occhio volpino, media statura e mani possenti. Terzo un lungagnone filiforme, Agenore Spila, sui sessanta, disoccupato, consumava le sue giornate all’Ostiense, nel bailamme dei mercati generali, in cerca di ingaggi giornalieri.

Si erano profusi in assoluti dinieghi e vibranti proteste di estraneità totale, al delitto come anche al congresso carnale, che alla fine avevano ammesso in un balbettio. Be’, sì, ma più che altro, per una sorta di carità verso la povera Rosa.

S’era profuso in lacrime il grosso Umberto. “Ma pe’ mme era ‘na sorella!”.

“A cui hai pensato bene di rimettere in sesto la testa”, la fredda e provocatoria annotazione del tutore dell’ordine.

“Nooo, che dite, sor commissa’? Me voleva bene Rosa. M’offriva sempre er caffè, quarche biscotto”.

Nando aveva manifestato evidente fastidio: sì, embe’, ma lui checcentrava, lui era un onesto lavoratore, con la carne guadambiava bene.. “Oh, da giovane era puro carina”, aveva chiosato, alzando una manona sporca di sangue- lo avevano prelevato al suo banco, intento a squartare un capretto- e inalberando un’occhiata che voleva essere d’intesa.

Agenore si guardava attorno spaesato, confuso, un animale braccato. Uno sbrego sotto l’occhio destro e, tutt’attorno, una chiazza rossa come di bruciatura. Negare, aveva negato ogni addebito, al pari degli altri due. Don Ciccio lo aveva congedato fortemente dubbioso e si era concesso una pausa di riflessione davanti a un caffè.

Negli anni della guerra s’era a malincuore adattato all’infuso di cicoria che, per chi non era in grado di bruciare il proprio reddito sull’altare del mercato nero, simulava il caffè, giunto a quotazioni da pietra preziosa.

Davanti alla tazzina vuota, don Ciccio non ha terminato la sua personale cerimonia. Questa volta un po’ più lunga. La signora Lorenza, busto magro e fianchi sovrabbondanti, viso angoloso sotto una chioma ondulata dal colore incerto, da dietro il bancone, ogni tanto elargisce un sorriso, sorpresa che la sosta si prolunghi tanto.

Non sa che è l’ultima volta che l’inappuntabile funzionario avrà sentito risuonare quel faceto “Il solito, lungo lungo, dottore?”. Ha chiesto di essere trasferito. Di tornare nel suo Molise. Ne ha le tasche piene della capitale e dei suoi vizi pubblici e privati, dell’ostilità subdola dei colleghi e dei superiori. Passerà gli ultimi anni di carriera in un trantran soporifero: furtarelli, qualche rissa. Nel pomeriggio prenderà il pullman a san Giovanni e via verso la terra natale.

Proprio in quel locale c’era stata l’illuminazione, più che altro la conferma di quanto già aveva sagacemente dedotto. Agenore in piedi davanti al bancone rimestava un cappuccino. Don Ciccio, accolto con un ectoplasma di sorriso il familiare “Il solito, lungo lungo, dottore?”, presa la sua tazzina, aveva subito voltato la schiena al bancone. Così, nel vetro di una finestra semiaperta aveva scorto il volto livido di Agenore, impegnato a distendere verso di lui le dita nel segno delle corna. Sei tu, amico mio, sei tu. E ora hai proprio chiuso.

Senza troppe cerimonie, lo aveva fatto accompagnare al commissariato. Nelle sue funzioni, deponeva l’abito filosofico e indossava panni lessicali più grezzi e dimessi. Non con tomisti ma coi bricconi aveva a che fare. Il linguaggio sgorgava spiccio, pragmatico.

“Sai leggere i fondi di caffè, Agenore?”

“I… i fondi di caffè, dottore? Ma sono storie da donnette!”

“Dici, eh? Tu, invece, sei un uomo di mondo. Strano, però, pensa: stamattina nei fondi di caffè ho letto chiaramente che l’assassino sei tu”.

Bianco, viola, rosso, una cacofonia di colori che gradatamente sfumava in una tinta cadaverica.

“N…n… noo, proprio no, commissario… voi volete scherzare”.

“Allora, Age’, mi spieghi come ti sei fatto quel taglio?”

“Ve l’ho detto, dottore, mentre mi facevo la barba”.

“Già, l’avevi detto. E quella brutta scottatura?”

“Il dolore, ho reagito d’istinto… nella fretta non ci ho fatto caso e ci ho buttato su l’acqua bollente. Un dolore, dottore mio, un dolore!”

“Quanto mi dispiace, Agenore. Sicché tu non c’entri con la morte di Rosa?”

“No, dottore, no. Ve lo giuro sulla testa di mia madre, sono pulito”.

“Già, come i cessi qui del commissariato. E queste scarpe belle nuove?”.

“Dottore, ecco…, mi vergogno a dirlo… ogni tanto chiedo l’elemosina”.

“Benissimo, abbiamo pure l’accattonaggio. Age’, stai inguaiato”.

Un urlo nel corridoio e accorre Salvatore Balzano, un torello corto e massiccio, naso a patata, occhio torvo, mani larghe come pale.

“Salvatore, qua ci vuole la tua arte; pensaci tu a quel bel tomo. Mi raccomando, fagli recitare Gloria, Padre e Avemmaria”. Un lampo luciferino nello sguardo di Salvatore.

Era tornato, Agenore, in uno stato da muovere a compassione anche i sassi. Un occhio blu, i capelli irti al pari di aculei, nella bocca già discretamente disadorna altri due denti ballonzolavano, indecisi se dare un addio all’ospite o prolungare il soggiorno, una gamba si trascinava con grande pena, qualche sbiadita chiazza rossa, malamente ripulita, sotto il naso e agli angoli della bocca.

“Dottore, sono stato pestato a sangue, lo dirò ai giudici, voglio giustizia”.

“Ma no, Agenore, che racconti? Mi hanno detto che sei caduto per le scale mentre tentavi di filartela, una palese ammissione di colpevolezza. Qui c’è il verbale con la confessione e tutto, non si parla di pestaggi. Stai tranquillo, la giustizia la vogliamo tutti”.

Ispirato dal torello, Agenore aveva ricostruito passo passo la scena. Rosa gli dava le spalle; stava prendendo dal tavolo una tazzina col caffè, per offrirgliela. Le aveva messo le mani al collo per strangolarla; ma la donna si era divincolata e gli aveva sbattuto con forza in faccia la tazzina, che si era spezzata. Furioso, semiaccecato, lui aveva afferrato dal tavolo un mortaio e l’aveva colpita sulla testa. Poi aveva frugato dappertutto e se ne era uscito con più di duemila lire in tasca.

Indugia davanti al bancone. Rivive la scena. Ultimo atto della carriera romana. Lo attende il suo Molise, questione di ore. Lì troverà di sicuro una brava ragazza, niente a che vedere con le compiacenti dame del generone romano. Una femmina di sani principi, un angelo del focolare da impalmare, a cui chiedere un figlio. La signora Lorenza gli lancia di sbieco occhiate perplesse. “Serve altro, dottore?”. “No, grazie”.

Negli anni della giovinezza aveva fantasticato di carriere fulminanti, promozioni e poltrone prestigiose. Nel nome della Giustizia. Chimere. Capitale corrotta, nazione infetta. Almeno nel piccolo Molise l’infezione si sarebbe vista meno. Nella città la corruzione alligna feconda. Imperversa spudorata. Un magnamagna generale. Si ruba a man salva negli uffici ed enti privati e pubblici. E l’amnistia che Palmiro Togliatti, il capo dei comunisti, ha concesso in veste di ministro di grazie e giustizia è servita soltanto a ridare fiato e iattanza a vecchi manigoldi compromessi col regime, che ora possono in tutta tranquillità ritessere i loschi traffici di cui hanno sempre vissuto.

Meno male che ci sono gli Agenore a tenere in piedi la baracca. Qualcuno in galera deve pur finirci, se no che figura ci fa la Giustizia? Bendata sì, ma tonta del tutto proprio no. Lui, i poveracci come lui, danno credito a quella parodia. I veri furfanti abitano in case di lusso, quartieri esclusivi, non si sono mai fatti mancare nulla neppure durante la guerra, hanno belle macchine e mogli non meno belle delle macchine, bei figli ben pasciuti da mandare in costosi istituti privati e a cui insegnare, al riparo delle mura domestiche, al di là delle bubbole che propina la scuola, tutte frescacce inutili, la reale grammatica della vita: la sintassi ineluttabile del denaro.

A passo lento si muove verso l’uscita. Risponde a mezza bocca al saluto della signora Lorenza. Gli mancherà quel trillante buongiorno? Via via, termina qui la sua stagione romana, inutile voltarsi indietro. Un bel sole, ultima malia della città così ammaliante per chi non la conosca nella sua intimità, filtra tra le fronde degli alberi di via Merulana. Pochi anni ancora di questa finzione: in nome della legge. Una giustizia che sta alla Giustizia come la cicoria al caffè.

Deciso. Appena a casa, nel suo paesello, si metterà alla ricerca del mortaio. È sicuro che ci debba essere, magari abbandonato nel solaio, sepolto tra mille cianfrusaglie, vellutato da anni di polvere. Farà i primi tentativi, riconquisterà un linguaggio antico, una filosofia consegnata all’oblio. Impugnerà il pestello e comincerà a dar giù sui chicchi, che esploderanno in mille minutissime schegge, e sprigioneranno un odore foriero di nuove dolcezze, messaggero delle delizie del palato e della mente che, raccolte in una castigata tazzina, lo attendono per regalargli quel momento di assoluta libertà, di tripudio dei sensi e dell’intelletto che ritrova se stesso e si affaccia caparbio sulle inaccessibili soglie del noumeno.

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Nelle immagini, alcuni celebri quadri della cosiddetta “Scuola Romana”. Dall’alto: Virgilio Guidi, In tram, 1923; Scipione, La piovra, 1929; Mario Mafai, Demolizioni, 1936; Afro, Demolizioni, 1939; Giuseppe Capogrossi, Piena sul Tevere, 1934; Fausto Pirandello, Il bagno, 1934.

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